Urbo e Sassello sono due Comuni della provincia di Savona, rispettivamente di 1.020 e 1.970 abitanti secondo il censimento 1981, collocati sul versante padano delle pendici del Monte Beigua, il maggior rilievo di quella provincia. Comuni montani entrambi con un territorio vasto, in specie Sassello, poco popolato, coperto quasi per intero da boschi e meno dalle poche aree destinate all'agricoltura, ad una quota media di 700 metri s.l.m., un'economia strettamente connessa a queste caratteristiche geografiche, con rare anche se rilevanti aziende di carattere artigianale.
Una quota significativa del reddito perviene grazie ad un turismo minore, quello dei villeggianti estivi, grazie alla salubrità dell'aria ed alla composta bellezza dei luoghi nonchè alla vicinanza della congestionata fascia costiera.
Un contesto insomma non di ricchezza, ma lontano dalla disperata emarginazione di altre zone dell'Appennino ligure.
Nel 1985 una legge regionale (n. 16 del 9.4.1985) includeva quasi tutto il territorio di questi Comuni nel sistema di aree di interesse naturalistico del Monte Beigua, a conferma dell'esistenza di un patrimonio ambientale, paesistico e naturalistico solido e capace di dare buoni frutti se adeguatamente valorizzato.
Si può ben comprendere, quindi, l'allarme con il quale le popolazioni locali hanno accolto la richiesta di concessione mineraria presentata nel mese di settembre 1991 al Ministero dell'industria da parte di una società torinese, la C.E.T. - Compagnia Europea per il Titanio -, per l estrazione di rutilo (un minerale del titanio) e granati in una vasta area compresa fra gli abitanti di Urbo e Piampaludo.
E nota da sempre la ricchezza mineraria di quella zona, tanto da essere puntualmente segnalata nella carta geologica nazionale; da anni, poi, erano in atto ricerche e prospezioni effettuate dalla stessa società per saggiare la consistenza e l'esatta ubicazione del miglior giacimento.
A suo tempo, nel 1977, I'amministrazione regionale aveva presentato opposizione presso il competente Ministero dell'industria per il rilascio dei permessi di ricerca, adducendo in primo luogo motivazioni di ordine naturalistico-ambientali, ritenute evidentemente dall'organo ministeriale non condivisibili o quanto meno secondarie rispetto all'interesse economico.
Un siffatto precedente rende assai plausibile l'ipotesi di un nuovo, definitivo assenso all'attività di estrazione vera e propria, ponendo così di fronte alla Regione una secca smentita degli indirizzi pianificatori prescelti per il suo territorio.
Val bene difatti evidenziare lo speciale regime giuridico che regola l'apertura e la coltivazione di una miniera; il testo normativo fondamentale in materia è ancora oggi il R.D. 29.7.1927, n. 1443, il quale, dopo aver posto la distinzione fra cave e miniere in base alla sola considerazione dell'interesse strategico nazionale del materiale estratto, assegna allo Stato, e per esso al Ministero dell'industria, tutte le relative funzioni amministrative. Inoltre le miniere, a norma dell'art. 826 del codice civile, fanno parte del patrimonio indisponibile dello Stato ed è quindi in qualità di proprietario del giacimento che questo valuta l opportunità, i mezzi ed i termini dello sfruttamento, individuando al contempo il soggetto attuatore, cui rilascerà un atto di concessione temporanea, scegliendo quello, fra i molti, che dimostri, a suo giudizio, l idoneità tecnica ed economica a condurre l'impresa'.
Si deve infine sottolineare che la citata normativa del 1927, che ha conosciuto poche marginali modifiche successive, gode del cosiddetto principio di specialità", nel senso che normative di altre materie che possano considerarsi generali rispetto ad esse, quali ad esempio quelle di natura urbanistica, non trovano applicazione.
E il caso tanto della normativa dettata dal Piano di coordinamento territoriale paesistico quanto di quella della citata L R. n. 16/ 1985 sul Sistema del Monte Beigua.
Il primo strumento, ad un tempo di natura urbanistica e di tutela delle bellezze naturali, essendo stato redatto in ottemperanza alle disposizioni dell art. I bis del D.L. n. 312/1985 convertito in L. 8.8.1985, n. 481 (cosidetta "legge Galasso"), è il quadro di riferimento dell'uso e della valorizzazione di tutto il territorio ligure inteso quale patrimonio paesistico-ambientale.
Distinto nei suoi tre assetti (insediativo, geomorfologico, vegetazionale), articolato su tre livelli (territoriale, locale e puntuale) e su vari regimi di tutela (dalla conservazione alla trasformabilità), dichiara però esplicitamente, con l'art. 86 delle norme di attuazione, la propria inefficacia in presenza di interessi minerari.
Così che non trova applicazione, ad esempio, il regime di mantenimento di area non insediata (ANI-MA), il più severo dopo quello di conservazio nel vigente su larghissima parte del territorio oggetto dell'eventuale concessione, regime che altrimenti vieterebbe l'edificazione di qualsiasi manufatto se non quelli non residenziali specificamente volti allo sfruttamento delle risorse agricole e naturalistiche.
Inoltre, la L.R. n. 16/1985 classifica il medesimo territorio come "zona di interesse agricolo ambientale"
(Z . I.A.A. ), in quanto caratterizzata da valori paesaggistico-ambientali quali la morfologia dei luoghi, la vegetazione in gran parte boschiva che li ricopre, la connotazione del paesaggio determinato in maniera più sensibile dall'attività agro-silvo-pastorale svolta in passato e/o in atto, valori che richiedono interventi volti alla conservazione e alla fruizione del territorio stesso con modalità tali da non comprometterne le caratteristiche ambientali e paesaggistiche, nonchè alla sua utilizzazione produttiva a fini agricoli, in quanto non in contrasto con le finalità della legge" (art. 4).
In tali zone, la legge vieta:
- 1. I'apertura di strade se non di servizio per l'agricoltura, con accesso riservato e specifiche caratteristiche;
- 2. i movimenti di terreno che implichino, a opere ultimate, scavi o reinterri di altezza superiore a mt. 3,00;
- 3. I'apertura di nuove cave;
- 4. I'asportazione o il danneggiamento di rocce e minerali.
Nonostante quindi la rigida normativa protezionistica, qui riportata anche quale valutazione dell'elevato valore paesaggistico ed ambientale che il pianificatore regionale ha voluto riconoscere a quei luoghi, la concessione mineraria potrebbe comunque essere rilasciata se il Ministero dell'industria ritenesse prevalente per l'interesse nazionale l'estrazione del minerale di titanio rispetto ad ogni altra considerazione, ivi comprese quelle di natura ambientale.
Tale potere statale, anche in questo caso, è esplicitamente riconosciuto dall'art. 19 della L.R. n. 16/1985, laddove questo assicura il rispetto delle competenze dello Stato con particolare riferimento a quelle inerenti l'utilizzazione dei beni demaniali e del patrimonio indisponibile. Il suddetto 'principio di specialità comporta inoltre che anche altri importanti normative di competenza regionale,come quelle relative allo smaltimento dei rifiuti, non trovino applicazione se tali rifiuti derivino dalla prospezione, estrazione, trattamento ed ammasso di risorse minerali (art. 3 del D.P.R. n. 915/1982).
Per concludere il quadro della normativa non applicabile si cita in ultimo la Direttiva C.E.E. n. 337 del 27.6.1985 sulla valutazione di impatto ambientale (V.l.A.), quale buon esempio di un opportunità offerta di affrontare in modo evoluto problematiche complesse nelle quali confluiscono aspetti rilevanti quanto eterogenei.
Opportunità peraltro non raccolta nel nostro Paese in quanto l'ltalia, a tutt'oggi, si è limitata a recepire (con D.P.C.M. del 27.12.1988) tale direttiva nella sola parte generale vincolante per tutti i paesi associati, ma non avendo dato corso alla regolamentazione di quegli ulteriori interventi elencati nell'Allegato 11 della direttiva che sono soggetti alla V.I A. solo a partire da determinate soglie, da individuarsi discrezionalmente in ogni singolo paese l'estrazione dei minerali metallici e non metallici è fra questi interventi.
Ci si è dilungati sulle pur numerose disposizioni che non trovano, ovvero che trovano solo parzialmente, applicazione al caso in esame per sottolineare la necessità di un aggiornamento del testo relativo alle miniere, che mostra ormai chiaramente i suoi 50 anni di onorato servizio, svincolato come risulta da tanti altri profili divenuti nel tempo se non più rilevanti quantomeno di pari importanza rispetto agli interessi "strategici' ivi tutelati.
Ma tutto quanto premesso, non si deve credere che alla Regione, semprechè sia convinta dei motivi che l'hanno indotta a presentare la propria opposizione al progetto minerario, non residui alcun potere di intervento .
Si prenda il caso del cosiddetto "vincolo idrogeologico", della tutela cioè accordata dal R.D. 30.12.1923, n. 3207 a quei terreni che, per effetto di talune forme di utilizzazione, possano subire denudazioni, perdere la stabilità o turbare il regime delle acque.
Le relative funzioni amministrative sono di spettanza regionale, ai sensi dell'art. 60 del D P.R. n. 616/1977: ebbene, con una importante sentenza, la n. 201 del 10- 15 luglio 1985, la Corte Costituzionale ha riconosciuto fondato un ricorso della Regione Veneto contro il Governo, per avere il competente Distretto Minerario di Padova ordinato al concessionario l'inizio dei lavori di estrazione mineraria pur essendo lo stesso privo della necessaria autorizzazione per il vincolo idrogeologico da rilasciarsi da parte di detta Regione.
E interessante altresì il richiamo della Corte rivolto al legislatore per esortarlo a porre in essere le norme occorrenti per accordare le diverse competenze soprattutto laddove, come nella fattispecie considerata, le attribuzioni di una materia sono passate dallo Stato alle Regioni, con possibili conflitti di attribuzioni, non essendo più chiamati a decidere semplici organi di uno stesso soggetto.
Ci si è riservati in ultimo di trattare il problema sotto il profilo della protezione delle bellezze naturali, come definite dalla legge 29.6.1939, n. 1497. Le pendici dei monti Bric Tariné e Antenna sono pressochè per intero coperte da boschi; come tali esse sono soggette alla tutela ai sensi della L. n. 1497/ 1939 per effetto della già citata legge Galasso (431/1985).
Le competenze in materia, come noto, sono state delegate alle Regioni con il D P.R. n. 616/1977, anche se allo Stato residuano significativi poteri di intervento, sostitutivi e di controllo.
In particolare, il comma XI dell'art. 82 del citato D P R./ 1977, nel testo modificato con la L. n. 431/1985 prevede che "per le attività di ricerca ed estrazione di cui al R.D 29.7.1927, n. 1444, l'autorizzazione del Ministero per i beni culturali ed ambientali di cui al comma precedente è rilasciata sentito il Ministero dell'industria, del commercio e dell artigianato".
Il precedente comma, si ricorda, tratta delle opere eseguite da amministrazioni statali per le quali non è ben chiaro se debba sempre essere prioritariamente acquisita l'autorizzazione paesaggistica regionale; resterebbe comunque solo l'incertezza se detto assenso paesaggistico per le attività di cui al R.D del 1927 debba essere espresso a due livelli, quello regionale e poi quello statale, oppure, forse più correttamente, al solo secondo livello statale mediante l'intesa fra i Ministeri dell'industria e dei beni culturali. Ma ciò che importa è che l'attività mineraria non sembra sottrarsi alla valutazione paesaggistica.
Si tratterebbe quindi non tanto di un conflitto fra normative entrambe speciali, quanto piuttosto della composizione di interessi distinti e rilevanti (si pensi che il paesaggio vanta una tutela di rango addirittura costituzionale), che lo Stato è chiamato a risolvere in qualità di titolare, nelle due materie, dei poteri decisori.
Un'operazione dagli esiti incerti, che vedrà però schierate compattamente le popolazioni locali e le loro rappresentanze istituzionali, una volta tanto, dal lato dei vincoli paesaggistici e dei parchi regionali.
Non solo, ma quasi per paradosso, se la L.R n. 16/1985 invece di un sistema di aree di interesse naturalistico avesse, come era nelle originali intenzioni, istituito un vero e proprio parco regionale, oggi la questione rutilo non si sarebbe forse neppure posta. Il sistema del Monte Beigua acquisì infatti tale denominazione invece della primitiva "Parco regionale del Monte Beigua" a seguito della forte opposizione al parco stesso di parte delle popolazioni interessate nonchè delle associazioni venatorie, locali e non, venendo in tal modo incontro proprio alle esigenze di queste ultime che lamentano l'impossibilità dell'esercizio della caccia in quell'area se essa fosse stata dichiarata parco.
Oggi, però, non pochi degli oppositori di allora devono riconoscere che le loro rimostranze contro la miniera trovano consistenza proprio muovendosi sul terreno della tutela del patrimonio naturalistico-ambientale, ed anzi lamentano la scarsa efficacia della normativa preposta a siffatta tutela .
L'amministrazione regionale - ma qui siamo nel campo delle scelte politiche - potrebbe trarre vantaggio da queste mutato clima di aspettative utilizzando taluni strumenti forniti dalla recentissima legge-quadro nazionale sulle aree protette del 6.12.1991, n. 394: se difatti l'art. Il, 3° comma, lett. b), di tale legge vieta espressamente l'apertura e l'esercizio di cave, miniere e discariche, nonchè l'asportazione di minerali, nelle aree naturali protette nazionali (parchi e riserve), in un'area parco regionale tale divieto dovrebbe essere esteso per il criterio di conformità fra parchi regionali e nazionali fissato dalla lett. d) del successivo art. 22,1° comma.
Si tratterebbe in definitiva di modificare la classificazione attuale del "Sistema" esplicitandone la sua valenza di "Parco", anche se ciò comporta il divieto venatorio, con le dovute correzioni alla normativa della legge istitutiva del Sistema in ottemperanza all'art. 28 della L. n. 394/ 1991.
Un azione coraggiosa da parte dell'amministrazione come delle popolazioni locali; ma forse, se davvero è fondato il dissenso sulla miniera, ad un prezzo tutto sommato nemmeno troppo elevato.
Servizio Beni ambientali e naturali
della Regione Liguria |