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L'uomo ha bisogno del bosco, il bosco può fare a meno dell'uomo. In questa secca verità ecologica, così scontata da essere banale, sta la radice di qualsiasi discussione sul rapporto tra uomo e foresta. Il bosco ci è necessario per bloccare l'ossido di carbonio, prevenire i dissesti idrogeologici, produrre materia prima inesauribile, costituire ambienti che brulicano di vita e di significati estetici, storici e morali. Invece il bosco, come qualsiasi componente della biosfera, può fare a meno della presenza umana, evolvendo verso ecosistemi che prescindono dalle nostre valutazioni e dai nostri interessi materiali e immateriali.
Quindi parlare di bosco significa cercare di definire la soluzione migliore fra il rispetto di un'autonoma entità ecosistemica e le imprescindibili necessità della società umana. Significa anche consapevoleza di essere soggetti interni al pianeta Terra, utilizatori obbligati di risorse e insieme bisognosi di valori che le trascendono.
Questa premessa era opportuna per introdurre il dibattito sul destino dei boschi del parco nazionale delle Foreste Casentinesi con umiltà scientifica e aderenza alla realtà storica, sgombrando il campo dai facili e opposti schieramenti dei tutto-protettori e dei tutto-consumatori, in realtà ironicamente affratellati dall'essere comunque utilizatori di beni materiali e immateriali.
Partiamo dal bosco e dalla selvicoltura perchè prima di tutto dobbiamo chiederci se e dove questa è opportuna, prima ancora di definire quale selvicoltura applicare; dobbiamo cercare nella memoria storica segni, dati, indicazioni per definire il rapporto che vogliamo instaurare col bosco oggi e per il futuro.
Questa ricerca ci porta lontano mille anni, a riscoprire un rapporto sofferto, consapevole del valore del bosco e insieme soggiogato alle necessità vitali dell'uomo. Un contrasto che ci ha dato contemporaneamente i disboscamenti della Romagna toscana e la creazione di un nuovo ecosistema forestale coltivato attorno a Camaldoli, la trasformazione in pascoli e coltivi di gran parte delle alte terre del Casentino e la magica conservazione di una foresta quasi selvaggia arroccata sul sasso della Verna.
Fino all'inizio del Novecento ha tuttavia prevalso la distruzione e il degrado degli ambienti forestali rispetto alla loro conservazione e ripristino; anche la foresta camaldolese dopo l'esproprio del 1866 fu sottoposta a un brusco cambio di gestione sottolineato dall'avvio nel 1896 dei tagli a raso su superfici di 3-5 Ha/ anno rispetto ai tagli per singola pianta e per gruppi che erano alla base della selvicoltura dei monaci.
E a partire dalla fine della prima guerra mondiale, con i rimboschimenti e le opere di sistemazione realizzati dai prigionieri austriaci e tedeschi, e in particolare con gli interventi idraulico-forestali avviati alla fine degli anni Venti che il volto del Casentino, dell'Alta Val di Sieve e della Romagna toscana inizia a cambiare. Sono recuperate al bosco vaste aree soggette ad erosione, si riparano i danni dei tagli per usi bellici, si consolidano le pendici del Tufone e di altre aree interessate da fenomeni franosi.
Con l'ultimo dopoguerra il recupero degli ambienti forestali acquisisce una dimensione più ampia, grazie alla creazione di nuove aree di proprietà pubblica in cui si effettuano anche immissioni faunistiche dalle quali in gran parte sono derivate quelle popolazioni di cervidi che sono oggi una delle presenze più importanti del parco nazionale, base indispensabile per lo sviluppo della popolazione di lupo.
In Romagna la costituzione dell'ufficio forestale del corniolo consente di riacquisire alla proprietà pubblica i territori degradati che un tempo facevano parte dell'antica Foresta dell'Opera del Duomo di Firenze, compresi i poderi espropriati ai Camaldolesi oggetto di speculazioni inevitabilmente sfociate nell'abbandono del territorio. Nelle Foreste Casentinesi e nelle aree limitrofe l'azione dell'A.S.F.D. e degli Ispettorati forestali porta al rimboschimento di vaste aree e alla tutela della fauna tramite l'applicazione del regime di bandita e, a partire dagli anni Settanta, è avviata una fase nuova che si concentra sul miglioramento forestale dei boschi esistenti tramite conversione di cedui in fustaia e diradamento dei boschi artificiali o comunque antropizzati.
In questa fase è certamente protagonista la Comunità Montana del Casentino che, assieme all'Ufficio amministrazione di Pratovecchio, applica una selvicoltura finalizzata alla naturalizzazione degli ambienti forestali, nel quadro di una concezione pluralistica della gestione del bosco che va dalla non-coltivazione nelle aree a riserva integrale, alla coltivazione con finalità plurime dei boschi ecologicamente più stabili fino alla progressiva naturalizzazione e diversificazione delle formazioni transitorie quali i cedui avviati a fustaia e le pinete.
Da questa sintesi storica rileviamo un rapporto fra uomo e foresta tormentato, ma ormai risolto in un'armonica composizione dei conflitti grazie alla scelta strategica di differenziare tale rapporto a seconda dei valori naturali, storici e sociali presenti. L'istituzione del parco nazionale avviene quindi in una fase culturalmente elevata, in cui i selvicoltori da tempo hanno superato settorialismi ed economicismi e hanno avviato forme di gestione che conciliano l'uso delle risorse e in particolare del legno con le altre potenzialità del bosco.
Infatti il D.M. (Ambiente) del 14 dicembre 1990 fa salva, anche nella zona di protezione, la selvicoltura naturalistica insieme alle attività agricole tradizionali e la coltivazione del bosco è nelle Foreste Casentinesi e in tutto il Casentino tradizione antica e viva. E vero che il decreto inserisce alcuni divieti di dubbia interpretazione, ma una sua corretta lettura chiarisce che non è bloccata la selvicoltura che migliora il bosco o più semplicemente lo conserva, bensì si vogliono evitare quei processi di disboscamento che oggi non esistono ma potrebbero essere messi in moto dalla stessa istituzione del parco a causa di interessi turistici e finanziari.
Se vogliamo entrare nel dettaglio delle norme di salvaguardia troviamo che l art. 2 impone la&laqno; ... manutenzione degli assetti paesaggistici esistenti e l'incentivazione della conversione dei boschi cedui in boschi ad alto fusto)>; un'indicazione chiara che invita a proseguire quella selvicoltura che ha modellato l'attuale paesaggio. La promozione della conversione dei cedui in fustaie è poi una chiara indicazione di utilizzare le competenze dei selvicoltori per un'operazione di miglioramento ambientale con indubbi effetti positivi anche sui valori patrimoniali, sulla produzione legnosa e sulla riccheza floristica e faunistica.
Peraltro le norme di salvaguardia non escludono il taglio del ceduo autorizzato ai sensi della legge forestale, limitandosi a sospendere, ma solo nella zona B o di protezione, i tagli nei cedui invecchiati, cioè con età pari ad almeno una volta e meza il turno. Si tratta di una norma transitoria che aggrava le disposizioni cautelari introdotte in Toscana dalla L.R. n. 1/90, ma la sua portata è estremamente ridotta in quanto nella proprietà pubblica non si effettuano tagli matricinati da oltre trent'anni e nella zona B sono compresi solo 620 Ha in Casentino e ancora meno in provincia di Firenze e Forlì.
Accanto a divieti già esistenti nella normativa vigente e pertanto incapaci di qualsiasi innovazione, le norme di salvaguardia introducono alcune norme pienamente condivise dagli stessi selvicoltori, ma di applicazione difficile se non impossibile.
Basta pensare al divieto di tagliare piante monumentali in assenza di un registro di questo tipo di piante, ad divieto di taglio delle piante da frutto selvatiche che già i selvicoltori lasciano in bosco perchè di scarso interesse economico e invece utilissime per l'avifauna e alcuni mammiferi, al divieto di danneggiare la vegetazione del sottobosco che riguarda certamente il turista, ma non il selvicoltore, magari costretto al taglio del sottobosco dalle norme per la prevenzione degli incendi.
Allo stesso modo appaiono soltanto formali norme che vietano il taglio a raso nei soli boschi pubblici se non finalizzato alla rinnovazione, cosa scontata per qualsiasi abetina coetanea, e il divieto di utilizzazioni forestali se non per interventi regolarmente autorizzati e aventi come finalità la salvaguardia ambientale.
Certamente la lettura delle norme di salvaguardia, nate da una laboriosa trattativa politica avvenuta su una base tecnica preesistente, diventa ardua e ambigua se mirata a rilevare contraddizioni, a ricercare agganci formali per tendere trappole a chi vuole continuare a muoversi sul terreno minato della gestione dell'ambiente naturale. In uno Stato in cui sono in vigore oltre 140. 000 leggi (nessuno è mai riuscito a contarle con esattezza) l'uso improprio di un dispositivo giuridico così imperfetto e provvisorio come le norme di salvaguardia del parco nazionale delle Foreste Casentinesi può bloccare ogni attività agricolo-forestale e costringere ad una spirale di provvedimenti di autotutela sfocianti in una burocrazia cieca che dimentica lo scopo iniziale e principale: proteggere l'ambiente, migliorarlo, ricostituirlo.
E' quindi opportuno iniziare subito un confronto ricco di parole ma anche di ascolto, in cui storia, natura e società portino il contributo ad una soluzione che non potrà essere uniforme, non potrà prevedere la coltivazione di tutti i boschi o la loro trasformazione in un'unica grande riserva integrale. Nel parco nazionale delle Foreste Casentinesi c'è spazio per i boschi non più coltivati di Sassofratino e della nuova riserva integrale della Pietra, istituita col parco a seguito di specifica proposta della Comunità Montana del Casentino che si era fatta promotrice nella Commissione paritetica anche di un'altra riserva integrale sul versante settentrionale della Verna. C'è spazio per una selvicoltura finalizzata ad ottenere boschi sempre più naturalizzati, generalmente misti e disetanei, nell'ambito di un processo di trasformazione più che secolare che non voglia sconvolgere l'attuale paesaggio forestale e che accetti la conservazione anche di significative testimonianze di altri periodi storici di cui sono frutto le magnifiche abetine di Camaldoli, Campigna e Campo dell'Agio. C'è spazio infine per una selvicoltura dei boschi privati che tenga nel dovuto conto le esigenze sociali ed economiche di una popolazione residente che da molti decenni ha scordato cosa sia il conflitto col bosco ed è invece legata da interessi materiali, tradizionali e morali alla sua conservazione.
Lo stesso Thoreau, considerato uno dei padri spirituali della Wilderness, cioè di quel movimento culturale finalizzato a mantenere porzioni di natura selvaggia per la memoria e l'arricchimento culturale dell'uomo, scrive nel suo Walden:&laqno;I giorni che passavo nei boschi non erano molto lunghi, però di solito portavo con me la colazione ... e a mezzogiorno, seduto tra i rami di pini verdi che avevo tagliato, leggevo il giornale nel quale l'avevo avvolta; in tal modo al pane si univa un pò della fragranza degli alberi, perchè avevo le mani coperte di un buon strato di resina. Prima di finire quel lavoro ero già diventato più amico che nemico dei pini, sebbene ne avessi abbattuti parecchi, poichè ora conoscevo meglio il mio mestiere». C'è in queste parole la consapevolezza che il selvicoltore acquisisce del suo lavoro e il legame altrimenti incomprensibile fra il tagliatore e l'albero, non vittima ma amico e fratello di uomini e alberi inseriti nel ciclo della vita.
I selvicoltori e quanti nel parco nazionale delle Foreste Casentinesi vivono di bosco e per il bosco non hanno società finanziarie, non hanno dietro di sé il potere dei grandi profitti e sono anzi immersi in un lavoro ricco di dignità piuttosto che di reddito. Conservazione integrale, wilderness, selvicoltura appartengono a uomini che devono parlare insieme e trovare insieme l'indispensabile compromesso che è alla base della salvaguardia della natura. Sono convinto che questo è il messaggio che possiamo affidare al neonato parco delle Foreste Casentinesi, perchè la protezione dell ambiente non sia limitata ad un obiettivo del 10 o 20% del territorio, ma diventi cultura esportabile in ogni luogo e in ogni coscienza.
*Dirigente del settore agricoltura e foreste della Comunità Montana del Casentino |