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A partire dagli anni '80, due grandi emergenze hanno caratterizzato l'economia italiana: I'ambiente e l'occupazione.
Da un lato, infatti, si accusa un tasso di disoccupazione che ha raggiunto livelli certamente non fisiologici soprattutto nel Mezzogiorno d'ltalia dove il fenomeno ha penalizzato in particolar modo giovani e donne, ovvero le fasce più deboli del tessuto sociale.
Dall'altro, la lentezza nella produzione di normativa in campo ambientale e l'inosservanza di quella vigente hanno portato ad una situazione che merita indubbiamente una priorità d'attenzione.
E sotto gli occhi di tutti come la "questione ambientale" sia andata delineandosi con toni crescenti di urgenza e drammaticità.
Discariche abusive di rifiuti tossici e nocivi, standards inaccettabili nella qualità delle acque di superficie, di falda e di balneazione, allarme rosso per l'inquinamento atmosferico, consumo del territorio, sono tutti indicatori di uno stato di diffuso degrado.
Sono anche gli scheletri nell'armadio di una certa politica industriale che resiste ai tentativi di regolamentazione ambientale, alle spinte verso una conversione dei processi produttivi, scaricando in tal modo sulla collettività buona parte dei costi sia di ristrutturazione (in termini di lavoratori eccedenti) che di produzione (spreco di energia, materie prime, rilascio di inquinanti, produzione di rifiuti).
Tutto ciò ha inciso negativamente sulla qualità della vita coinvolgendo emotivamente l opinione pubblica.
Una elaborazione del Censis su dati Cee, effettuata nella seconda metà degli anni '80, rileva infatti come.l'ltalia sia al primo posto in Europa per domanda di interventi a protezione dell'ambiente.
Ben 1'85% degli italiani, infatti, ritiene prioritario il problema ecologico rivelando, con la consistenza del dato, che una vera e propria svolta culturale è in atto nel nostro Paese.
Perdipiù il 35% degli intervistati contro una media Cee del 25%, lega, come motivazione di tale domanda, la salvaguardia delle risorse naturali allo sviluppo dell' occupazione. In perfetta sintonia, quindi, con gli indirizzi della Comunità Economica Europea quando afferma, come nel quarto programma di azione in materia ambientale ( 19871992), che certamente "vi sono molti provvedimenti ambientali che possono avere effetti direttamente ed indirettamente positivi sulla creazione dell occupazione ..., ma che sono stati fino ad ora usati in modo alquanto inadeguato aggiungendo che i provvedimenti in materia ambientale dovrebbero generalmente essere strutturati in maniera tale da esercitare il migliore impatto possibile sul settore dell impiegò .
Segnali questi di una diversa consapevolezza rispetto ai problemi ambientali che si va facendo strada nell'opinione pubblica. Una nuova cultura che nasce dalla percezione concreta del progressivo degrado della qualità della vita, delle soglie di rischio verso le quali conduce un certo tipo di sviluppo, nonchè degli squilibri causati negli ecosistemi dall'attività antropica.
Ma nonostante la pressante richiesta per un diverso modello di sviluppo ultimamente espressasi anche in ambito politico con la nascita di movimenti, con dichiarazioni d'intenti dei partiti tradizionali, tale domanda sociale risulta a tutt'oggi in buona parte insoddisfatta.
Eppure non difettiamo di tecnologie, né tantomeno mancano le risorse finanziarie; è vero invece che esiste un blocco del mercato conseguente alla natura collettiva del bisogno.
Non è, infatti, il cittadino portatore del bisogno stesso a presentarsi sul mercato per il suo soddisfacimento ma è la pubblica amministrazione, nei suoi vari gradi e soggetti, che media tra domanda e offerta. Pubblica amministrazione per sua stessa costituzione spesso lenta nel recepire i rinnovamenti e, talvolta, sensibile all influenza esercitata sull'indirizzo della spesa dai produttori e fornitori di beni e servizi.
Questi ultimi, infatti, non sempre preparati a fronteggiare la richiesta di innovazione, tendono a cedere con difficoltà le rendite di posizione acquisite, spingendo gli investimenti sui settori consolidati.
Si pensi, ad esempio, alla legge 283 del 1985 che sollecitava l'impiego della carta riciclata nei pubblici uffici: ebbene, a distanza di anni dalla sua pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale, sono ben pochi gli enti che ne hanno seguito le indicazioni.
Si consideri ora quale impatto positivo potrebbe avere una sua convinta applicazione sul problema dei rifi uti e del loro riciclaggio, sulla bilancia commerciale, sulla integrità degli ecosistemi, sulla bolletta energetica nazionale e, in definitiva, sulla creazione di nuova occupazione.
Nello stesso tempo poi, da parte di molti enti territoriali, si continua ad intendere gli interventi di prevenzione e risanamento ambientale nell'ambito tradizionale delle opere pubbliche ignorando, in un'ottica di appalto, quella logica di sistema che comporta, al contrario, strette relazioni tra realizzazione e gestione, tra servizio e rete di utilizzatori.
Si appalta così la costruzione di un depuratore indipendentemente dalle considerazioni relative alla sua gestione e quindi alla sua effettiva utilizzazione; si finanzia l'impianto di un rimboschimento ma non le successive necessarie cure colturali; si canalizza, cementificandolo, un corso d acqua ma non si incide concretamente sugli squilibri a livello di bacino montano.
In altre parole si è ancora troppo condizionati dalla logica dell'emergenza, concentrando interventi e risorse a 'valle" del danno ambientale, incentivando in via prioritaria le classiche politiche di depurazione.
Non a caso sui 4.020 miliardi, che costituiscono la dotazione del Ministero dell'Ambiente del primo programma triennale, destinati agli interventi previsti dalla delibera CIPE del 3 agosto 1990, ben 3.023 (il 75%!) interessano lo smaltimento dei rifiuti e la depurazione delle acque.
Ciò ha indubbiamente influito sullo sviluppo di determinati settori dell'industria verde che si è attestata principalmente lungo queste direttrici adeguandosi non solo e non tanto alla domanda quanto alle ingenti risorse finanziarie mobilitate.
Infatti, sulle 3.500 aziende ecologiche presenti sul mercato nel 1989 (con un giro d'affari intorno ai 7.000 miliardi), ben il 65% - 2.500 aziende circa - è attivo nel settore della depurazione.
Il proliferare di queste aziende è stato favorito dall'avere occupato quelle nicchie di mercato in cui era più agevole inserirsi: le attività di disinquinamento con interventi effettuati alla fine del processo produttivo anzichè la ricerca di tecnologie pulite" e quindi sistemi di prevenzione a monte.
Ora una politica informata quasi esclusivamente al fattore emergenza potrebbe portare alla cristallizzazione di una industria del disinquinamento, con il conseguente rischio che per sostenerla si rinvii quel necessario salto di qualità verso una più generale politica di prevenzione improntata al recupero, alla tutela ed alla valorizzazione del patrimonio ambientale. Giungendo, paradossalmente, ad assumere come regola generale il principio del "chi inquina paga", consentendo così ad alcuni settori industriali di continuare ad inquinare, per garantire fatturato all'altra industria, quella del disinquinamento.
Un'altra forte motivazione verso una decisa inversione di rotta è costituita dall'ormai prossima scadenza del '93 che potrebbe drasticamente ridimensionare la dinamica di espansione del settore verificatasi nelI'ultimo decennio.
Gli eco-imprenditori, infatti, dovranno necessariamente confrontarsi con aziende europee che sono da tempo uscite dalla logica dell'opera pubblica per un approccio integrato al mercato acquisendo quella indispensabile capacità di gestione complessiva che consente loro di operare dalla presa di coscienza del problema ambientale alla gestione e manutenzione delle strutture realizzate.
Per un equilibrato inserimento nell'Europa "verde" sarebbe quindi auspicabile:
- - un aumento degli investimenti pubblici a favore della ricerca di nuove tecnologie ecocompatibili nel campo del risparmio energetico, del riciclaggio di risorse dai rifiuti, della riduzione delle emissioni inquinanti, eccetera;
- - una concreta politica per l'istruzione di nuove aree protette che prenda l avvio dalla tanto attesa legge-quadro (oggi finalmente realtà con la 394 del 6 dicembre 1991 );
- - incisive campagne di informazione ed educazione ambientale per rafforzare quella coscienza ed aggregare quel consenso sociale su cui basare le future politiche di intervento.
Tutto questo avrebbe comunque degli effetti limitati sull'occupazione se non si ponesse mano ad una concreta rifondazione della formazione professionale:
- - utilizzando di più e meglio i contratti di formazione-lavoro;
- - riportando i compiti di istruzione di base nell'ambito della scuola, instaurando con questa più stretti legami allo scopo di creare sinergie e realizzare economie di scala (si pensi alle varie scuole professionali, ai laboratori ed alle aule per esercitazioni pratiche dotati di costose apparecchiature, spesso inutilizzate per buona parte dell'anno);
- - puntando invece uomini, strutture e risorse finanziarie sulla innovazione e sulla formazione ambientale, oggi purtroppo non solo carente ma ferma a livelli pionieristici e caratterizzata per di più da una grave disomogeneità nelle figure professionali proposte.
- Una attenzione particolare dovrà essere inoltre dedicata all'aggancio tra formazione, progetti pilota per l'occupazione e assistenza alle realtà imprenditoriali che dovessero, di conseguenza, svilupparsi.
Per raggiungere tutto ciò è indubbiamente indispensabile un più stretto raccordo tra ministeri competenti e Regioni destinatarie delle iniziative. Queste ultime, a loro volta, devono dotarsi di quella indispensabile capacità progettuale che le ponga in grado di utilizzare appieno e nel migliore dei modi i finanziamenti nazionali e comunitari.
Le stesse Regioni, poi, devono organizzare sul loro territorio un vero e proprio "mercato della manutenzione ambientale strutturandone la domanda, I'offerta ed il relativo incrocio in modo tale da raggiungere l'obiettivo di una migliore qualità ambientale, con sviluppo di occupazione e tecnologia, il tutto in un ciclo economico capace di autosostenersi .
Creare insomma quella corrispondenza tra attività produttive e salvaguardia della natura e dell'ambiente, traducendo questa esigenza in risorsa per l'economia e l'occupazione.
Fare della manutenzione dell ambiente sia di quello costruito che di quello naturale - significherà, in definitiva, rendere disponibili dei servizi da fornire attraverso apposite convenzioni stipulate tra gli enti pubblici e le cooperative di giovani erogatrici dei servizi stessi.
In questo scenario appare fondamentale, per il raggiungimento degli obiettivi proposti, I'ampliamento delle aree protette esistenti nonchè l'istituzione di nuove.
E stato infatti, in più casi, dimostrato come investire in "natura" renda e renda bene. Soprattutto quando si lavori per coniugare i problemi della conservazione con quelli dello sviluppo socio-economico locale.
Diverse esperienze nazionali ed internazionali consentono di affermare con una certa tranquillità come le aree protette possano validamente rappresentare dei volani per il decollo socio-economico delle aree interne.
D'altro canto vaste zone in Italia presentano notevoli emergenze paesaggistiche, naturali, antropiche, storico-archeologiche e culturali, per le quali la conservazione dell ambiente in termini di prevenzione, di recupero, di restauro, di valorizzazione turistica può oggi esprimere tutte le sue potenzialità produttive ed occupazionali.
La gamma delle attività eco-compatibili è
molto vasta. In primo luogo quelle tradizionalmente svolte in un'area protetta:
- - la sorveglianza;
- - le escursioni guidate;
- - I'accoglienza nei musei, nei centri di visita, nelle aree faunistiche;
- - la realizzazione di aree di sosta e di pic-nic, di sentieri-natura, di itinerari turistico-naturalistici;
- - la ricerca scientifica;
- - la manutenzione delle strutture del parco; - la produzione di materiale illustrativo e didattico;
- - I'educazione ambientale;
- - le stesse attività amministrative indispensabili per la vita dell'ente gestore.
In merito alla sorveglianza c'è da osservare che la scelta compiuta dal legislatore nella 394/91 (affidare cioè la stessa al Corpo Forestale dello Stato per i parchi nazionali e consentire convenzioni per altre tipologie di aree protette) non è stata delle più felici. Non solo per le considerazioni di natura tecnica già abbondantemente discusse prima durante e dopo l'approvazione del disegno di legge, ma anche per i risvolti occupazionali che ne discendono. Si è sempre sostenuto che il consenso sociale all'istituzione delle aree protette è legato a filo doppio alle possibilità di sviluppo socioeconomico che queste possono consentire (ultimamente si è tenuto un convegno a Molveno in Trentino nel quale, dal 7 al 9 maggio, si è discusso di Consenso sociale e Buona amministrazione dei parchi di montagna) Ebbene, se si considera che degli standards europei, oggi probabilmente superati per difetto, indicavano in una unità lavorativa il fabbisogno di sorveglianza per ogni 1.000 ettari di superficie protetta, si arriva facilmente a comprendere quanto perniciosa sia stata la scelta suddetta.
Qualcuno ha calcolato, poi, che un'area protetta generi, nel suo complesso, un'occupazione diretta pari ad 8/9 addetti ogni 1.000 ettari di territorio.
Ora, sebbene si tratti indubbiamente di valutazioni che vanno dimensionate sulle singole realtà - ogni parco a seconda delle sue caratteristiche e delle fruizioni a cui è destinato richiede un maggiore o minore fabbisogno di manodopera - rappresentano pur sempre dei parametri concreti cui poter fare ragionevolmente riferimento.
All'occupazione diretta va aggiunto poi 1 indotto, ovvero l'occupazione indiretta legata alla ricettività, all'offerta della gastronomia locale, dei prodotti dell'agricoltura, dell'allevamento e dell'artigianato.
Se infine gli enti territoriali adottassero, come è auspicabile, una gestione conservativa del territorio ciò favorirebbe la nascita di quel mercato della manutenzione ambientale a cui si faceva prima riferimento con tutta una serie di altre attività tra le quali:
- - il recupero della funzionalità ecologica di siti degradati come le cave dismesse, le discariche, le aste fluviali irrigidite dal cemento;
- - I'utilizzo delle tecniche di bio-ingegneria forestale per regimare i corsi d'acqua nonchè per contrastare il dissesto idrogeologico;
- - la rinaturalizzazione ed il restauro ambientale dei boschi;
- - il miglioramento dei pascoli;
- - I'innovazione nel campo della depurazione, ad esempio con la fito depurazione;
- - lo smaltimento dei rifiuti con un effettivo riciclaggio degli stessi e la conseguente commercializzazione delle materie seconde così ottenute;
- - il risparmio energetico e la produzione di energia alternativa;
- - il recupero e la manutenzione dei centri storici e del patrimonio storico-artisticoarcheologico.
Per ciò che riguarda poi i relativi profili professionali si dovrà da un lato attivarne di inediti (almeno nel panorama della formazione tradizionale), come ad esempio:
- - I'esperto faunistico, collaboratore del veterinario e del biologo sia nella gestione
delle patologie animali che nello svolgimento dei censimenti;
- - il disegnatore naturalistico e il fotografo na-turalistico, indispensabili nella produzione di materiale illustrativo, didattico, nell'allestimento di mostre, musei e centri di visita;
- - l'esperto in raccolta sul campo di dati ambientali, supporto ai ricercatori, agli zoologi ed ai botanici per le osservazioni fenologiche, gli inventari floro-faunistici, l'installazione e la manutenzione di apparecchiature di rilevamento dati;
- - il tecnico di recupero ambientale, per gli interventi semplici di recupero, di bio-ingegneria, di difesa del suolo e di architettura del paesaggio;
- - l'esperto in didattica ambientale, per gli interventi educativi nelle scuole e nei centri di visita;
- - l'esperto in divulgazione naturalistica, per l'organizzazione di corsi, di seminari, conferenze, visite guidate e animazione del turismo naturalistico.
Dall'altro lato sarà invece necessario riqualificare, rivisitandole in chiave naturalistica, quelle figure già esistenti soprattutto nel campo dell'agricoltura, della selvicoltura, della vivaistica e della difesa idro-geologica.
E auspicabile, quindi, realizzare al più presto un sistema di aree protette intese non come isole felici" avulse dal contesto generale bensì come momenti ormai indifferibili di riflessione su di una nuova cultura di gestione del territorio, come strumenti urbanistici in grado di armonizzare tra di loro componente umana e componente naturale dell'ambiente.
Dotate delle opportune risorse finanziarie, potranno svolgere nel migliore dei modi sia la funzione diciamo "istituzionale" di presidio contro il degrado che quella, vitale per le economie locali, di laboratorio dove sperimentare quelle tecnologie e quelle professionalità che, creando nuova e qualificata occupazione, conducano ad un più armonioso rapporto uomo/territorio.
La constatazione diretta da parte delle popolazioni locali che proteggere la natura non è un lusso ma può costituire fonte di benessere socio-economico, rappresenterà inoltre il miglior vettore per la propagazione ed il consolidamento di quella cultura ecologica oggi troppo spesso confinata nelle enunciazioni di buoni principi.
Consulente ambientale, Campobasso |