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1. La realtà naturalistica della collina torinese
1.1 Inquadramento geografico e botanico
La Riserva naturale speciale del Bosco del Vaj, istituita dalla Regione Piemonte con L.R. 02/ 06/1978 n. 29 ricade interamente nei confini amministrativi del Comune di Castagneto Po, occupando un'area di circa 72 ettari su di un crinale costituito da sedimenti miocenici appartenenti al Complesso di Baldissero, delimitato a nord/est ed a est dal Rio del Vaj e a sud da quella del Rio dei Solìti e culminante nel Bric del Vaj (583 m. slm.); la confluenza dei due rivi genera il torrente Leona, che dopo un breve vagare nelle campagne e fra gli abitanti di Casalborgone e S. Sebastiano Po si getta, come tributario di destra, nel fiume padano.
Ricadendo nel bacino imbrifero del Po i territori dei Comuni citati rientrano nell'unità geografica della Collina torinese, costituendone l'estremo orientale, come ricorda il Negri nella sua interessante pubblicazione: «La vegetazione della Collina di Torino» (1905).
Dal punto di vista geobotanico l la Collina torinese viene considerata come facente ancora parte della Regione centro-europea; essa viene distinta dalla Pianura padana ed inclusa nel distretto monferrino-langhiano (Fenaroli e Giacomini, 1958) per alcuni caratteri peculiari, come la presenza di residui querceti a Roverella e di alcune specie più termofile, di tipo stenomediterraneo.
Già il Negri (cit.) considerava la Collina torinese come zona di transizione tra le due regioni fitogeografiche centro-europea e mediterranea, facendo notare come le condizioni climatiche intermedie e le particolarità edafiche permettessero alle specie più tolleranti dell'una e dell'altra regione di stanziarsi nel distretto botanico in parola.
1.2 Evoluzione storica della vegetazione
La Collina torinese ha una storia floristica relativamente recente, strettamente legata al ruolo che essa svolse nel Pleistocene 2; durante l'epoca glaciale, infatti, la Collina torinese costituì un'importante stazione di rifugio, innanzitutto per le specie montane, migrate attraverso la pianura del Po e risalite su entrambi i versanti: «l'ontano prosperava nelle stazioni umide, a bassa quota ed esposte a sud, il pino silvestre sui terreni sabbiosi disgregati ed il faggio occupava l'umido e freddo versante padano» (Negri, cit.).
E probabile che ancora per molto tempo dopo l'epoca glaciale faggete pure o miste occupassero almeno la parte più elevata del versante nord della Collina torinese; questa all'inizio del Quaternario, quando non aveva ancora subìto l'azione delle abbondanti piogge caratteristiche di quest'epoca sui suoi substrati tanto erodibili, doveva raggiungere altezze ben superiori degli attuali 500-700 metri, quote che oggi segnano il limite inferiore della distribuzione del faggio sulle Alpi.
Riguardo invece al pino, in documenti ufficiali redatti dopo l'anno mille, si fa ancora menzione della "Silva Salsa", che doveva essere un esteso bosco di pinus silvestris, situato nella zona a nord di Sciolze. Come per il faggio d'alto fusto, oggi limitato ai pochi nuclei radicati sull'alto versante occidentale del Bric del Vaj, i nuclei superstiti possono considerare residui i boschi spontanei molto più vasti.
Il Negri escludeva la possibilità di permanenza di qualsiasi specie megaterma sui colli torinesi durante le glaciazioni quaternarie, sostenendo che «l'evoluzione del clima, dall'epoca glaciale in qua, ha dato dapprima il sopravvento alle forme microterme legate al faggio e va togliendolo loro sempre più nei tempi presenti», anche per l'intento dell'uomo, sempre più incisivo e distruttivo negli ultimi secoli.
Secondo studi recenti (Montacchini - Caramiello, 1969), invece, nell'epoca glaciale la flora mediterranea terziaria si sarebbe parzialmente conservata sulle Colline del Po, rimaste libere dai
ghiacci; esse avevano presumibilmente una morfologia diversa dall'attuale, con ambienti particolarmente ben esposti. Accanto alle specie stenomediterranee relitte del Terziario, nel Quaternario si è poi avuta la penetrazione di nuove entità, cioè la maggior parte delle specie termofile attualmente presenti sulla Collina torinese.
1.3 La flora della Collina torinese: specie rare e biotopi da salvare
Morfologicamente il complesso collinare torinese presenta una dorsale principale con andamento sud-ovest/nord-est i cui versanti sud e nord denotano forme del paesaggio e condizioni climatiche molto diverse tra di loro. Il versante padano (nord) è molto ripido e solcato da impluvi con suoli freschi anche d'estate mentre il versante a mezzogiorno, in gran parte coltivato, è meno scosceso e notevolmente più arido, con temperature medie e massime più alte durante tutto l'anno. Ne consegue una notevole differenziazione della vegetazione sui due versanti principali, fenomeno accentuato dalle migrazioni floristiche avvenute nel corso di milioni di anni a seguito dei mutamenti climatici citati in precedenza.
Mentre i versanti settentrionali ospitano molte specie di origine alpina, rifugiatesi sulla collina durante i periodi di massima espansione dei ghiacciai quaternari, sui pendii più assolati dei versanti meridionali si incontrano le piante di ambiente mediterraneo, migrate ancora nell'Era Terziaria, durante i periodi interglaciali a clima subtropicale o in tempi storici, visto che l'Appennino, le Langhe ed il Monferrato formano un continuum tra la costa ligure e le Colline del Po.
Il biotopo del Bosco del Vaj fu elevato a Riserva naturale proprio per tutelare questa eccezionale ricchezza e varietà floristica, emblematicamente rappresentata dai nuclei relitti di faggio ad alto fusto; ma le sue modeste dimensioni non sono sufficienti a contenere le principali rarità della Collina. Le più importanti specie di origine alpina sono, oltre al faggio ed al pino silvestre: il mirtillo, il giglio martagone, il giglio di S. Giovanni, il fior di stecco e, scoperto clamorosamente solo di recente (E. Zuffi, in verbis, 1989), il rododendro rosso.
Tra le specie di origine mediterranea meritano di essere citate: l'orniello, gli asfodeli, la ginestra di Spagna, l'asparago selvatico il pungitopo ed il dittamo.
Un'attenzione particolare merita la Quercus crenata Lam.: si tratta di una specie assai rara in Piemonte, probabilmente un ibrido Q. cerris x Q. suber fissato, in quanto nel nostro territorio la sughera è attualmente del tutto assente per ragioni climatiche. Nei pressi del Bric Turniola, nel Comune di Casalborgone, ne esiste un maestoso esemplare, il più grande fino ad ora rilevato (G. P. Mondino, 1986) in Piemonte (diametro a petto d'uomo cm. 94, altezza m. 18, diametro chioma m. 14, area d'incidenza della chioma mq. 160), esemplare segnalato dal sottoscritto nel 1984, ma sicuramente ben noto ai locali già dal secolo scorso per la peculiarità di mantenere le foglie verdi durante l'inverno. Oltre a queste rarità dovute a migrazioni in epoche diverse la Collina di Torino ospita numerose altre piante a protezione assoluta (sono vietati la raccolta, l'asportazione, il danneggiamento e la detenzione di parti) a norma della L.R. 2/11/1982 n. 32: Aconitum vulparia Rchb, Digitalis lutea L., Gladiolus palustris Gaudin, Leucojum vernum L., Iris fcetidissima L., Orchis maculata L., Ophrys insectifera L., Gymnadenia conopsea L. e molte altre.
1. 4 La gestione forestale orientata verso una selvicoltura naturalistica
La vegetazione naturale originaria della Collina torinese (ancora fino a circa 2.000 anni fa) era basata sul querceto misto d'alto fusto, a prevalenza di:
- -farnia in zone più basse e fresche del versante nord;
- -rovere sui versanti medio-alti, in esposizione più o meno fresca;
- -rovere, cerro e roverella sulle creste e sugli alti versanti in esposizione calda.
Dall'epoca romana l'azione antropica si è fatta man mano più incisiva, con la messa a coltura di vaste porzioni di territorio, soprattutto sul versante meridionale della Collina; i boschi che venivano risparmiati venivano comunque trasformati nella loro struttura (passando dall'alto fusto naturale al governo a ceduo) e come
mati nella loro struttura (passando dall'alto fusto naturale al governo a ceduo) e come composizione, con la diffusione massiccia di specie prima sporadiche come il castagno, o importate da oltreoceano come la robinia.
Ai giorni nostri sono ridottissime le superfici in cui la vegetazione attualmente presente ("vegetazione reale") coincide con quella che verrebbe a crearsi in un equilibrio dinamico con clima e suolo, se cessasse l'azione antropica ("vegetazione potenziale").
E quindi più che mai necessaria un'attenta politica di gestione delle risorse forestali che permetta di guidare i popolamenti collinari verso formazioni più naturali, le sole che possono garantire il pieno assolvimento delle funzioni oggi riconosciute al bosco.
2. Il piano di assestamento forestale della Riserva naturale speciale del Bosco del Vaj
Quando, nel 1980, la Regione Piemonte affidò all'Ipla (istituto per le piante da legno e l'ambiente) gli studi per la stesura del piano di assestamento forestale il Bosco del Vaj si presentava con un soprassuolo quasi puro di castagno, sovrastato da matricine e riserve di rovere, qualche faggio e frassino nelle zone più fresche. Sul versante sud più povero e secco comparivano la roverella, sia nel ceduo che tra le riserve, e ampie facies di degradazione a robinia.
Gli obiettivi pianificatori erano primariamente la conservazione e la perpetuazione dell'unica stazione relitta di faggio presente sulla Collina torinese e secondariamente un'educazione dell'intero complesso boscato verso una struttura con carattere di bosco-parco con scopi ricreativi e didattici; tutto ciò si doveva realizzare senza compromettere la produttività del soprassuolo (il bosco è nella sua totalità proprietà di privati!) anzi promuovendo, come recita la legge istitutiva, a,,, la valorizzazione delle attività agricole e forestali della zona...».
Si trattava di guidare la trasformazione di questo bosco antropizzato verso una struttura naturale e di grande stabilità ecologica. Il problema passa il confine dell'arida tecnica assestamentale per diventare una più complessa questione di ecologia forestale: le analisi ecologiche, infatti, costituiscono la parte più importante e qualificante del PdAF della Riserva naturale speciale del Bosco del Vaj.
2.1 Le analisi ecologiche come base del piano di assestamento forestale
Il Bosco del Vaj rappresenta uno dei frammenti di bosco più integri dell'intera Collina torinese: l'esposizione sfavorevole, la forte pendenza del versante e la superficialità del suolo hanno sempre costituito un forte deterrente al disboscamento anche nei periodi di maggior fame di terra.
Se da una parte vi è uno spettro floristico ancora integro, come dimostra la presenza di molte specie rare, dall'altra la struttura del bosco originario si presenta completamente stravolta. La reazione acida del terreno, peculiarità di questa zona delle Colline del Po, ha notevolmente favorito, fin dai tempi più antichi, la diffusione del castagno, specie notoriamente acidofila. In epoca più recente il castagno perde la connotazione primaria di "albero del pane" ma non il suo valore tecnologico soprattutto per la produzione di paleria destinata ai sempre più estesi vigneti del vicino Monferrato astigiano.
Anche l'introduzione della robinia, avvenuta nel XVIII secolo ad opera della casa reale di Savoia, per consolidare gli instabili versanti collinari, apportò un forte cambiamento alla composizione ed alla struttura boschiva, toccando però solo marginalmente il Bosco del Vaj.
Inevitabilmente una così forte antropizzazione non solo modifica la struttura dell'ecosistema ma interviene direttamente sui fattori ecologici: terreno, microclima... Del resto quando si parla di secoli o millenni bisogna tenere conto anche delle naturali mutazioni macroclimatiche.
Riassumendo, i problemi da risolvere erano due: -individuare l'assetto vegetazionale originario (quello in grado di ospitare il faggio);
- -valutare le esigenze ecologiche della flora originaria (e attuale) e confrontarne la compatibilità con i parametri attuali.
La prima questione fu affrontata col metodo dell'analisi fitosociologica della scuola ZurigoMontpellier, effettuando 23 rilevamenti della vegetazione. I dati, organizzati in un'unica grande tabella, permisero di individuare tre unità fitosociologiche in accordo con gli studi di Ober-
dorfer e Hofmann (1964) corrispondenti a tre ecotopi caratterizzati soprattutto da una xerofilia crescente.
- -Nel basso versante nord, lungo il Rio del Vaj e risalendo lungo le profonde incisioni degli impluvi, arricchite dall'illuviazione delle basi provenienti dalle parti più alte del versante, si sviluppa una ricca vegetazione igrofila attribuibile al Salvio-Fraxinetum.
- -La rimanente parte del bosco è invece accomunata dalla presenza del Physospermum cornubiense, anonima Apiacea, specie caratteristica dell'associazione Physospermo Quercetum petraæ presente a nord nella variante mesofila che ospita il faggio, ed a sud con quella xerofila, senza faggi e caratterizzata dalla roverella.
Per la seconda questione si applicarono gli indici ecologici di H. Hellemberg 3 (1974) alle specie più importanti per ciascuno degli ecotopi individuati, discutendone i risultati con i dati climatologici provenienti dalle stazioni meteorologiche della zona e quelli edafici, provenienti da 6 profili pedologici. In realtà questa fase non poté essere scientificamente rigorosa a causa della mancanza di una stazione meteorologica in loco e della diversità dei dati provenienti dalle stazioni vicine. Fu comunque possibile individuare una serie di dati fondamentali per la formulazione della normativa del piano:
- - i due biotopi riscontrati sul versante nord erano sicuramente ancora in grado di ospitare il faggio;
- -l'attuale governo a ceduo costituiva una forte limitazione a questa possibilità: il faggio, sia da ceppaia che da seme, non è in grado di reggere la concorrenza della specie costitutiva del soprassuolo;
- -lo stato arboreo risultava fortemente alterato nella sua composizione e struttura per l'assoluta prevalenza del castagno e la quasi totale assenza del carpino bianco, specie preziosa per la stabilità ecologica sia del salvio-frassineto che del fisospermo-querceto.
2.2 L'assetto dendrologico
In termini semplicistici l'obiettivo dei rilievi dendrologici è l'individuazione di due parametri fondamentali del soprassuolo boschivo: la provvigione legnosa e l'incremento corrente (annuo); risulterà così possibile prelevare gli interessi (incremento) senza intaccare il capitale (provvigione)-
Nulla di tutto ciò è stato fatto per il Bosco del Vaj, ed ora ne vedremo il perché.
Nell'economia agricola di sussistenza che caratterizzò la Collina torinese fino a qualche generazione or sono il bosco rappresentava un'importante fonte di energia e di materie prime: ogni famiglia coltivava oltre all'orto, ai seminativi ed ai foraggi sufficienti ad allevare qualche prezioso bovino, qualche "giornata" (misura di superficie locale, corrispondente a 3810 m2) di bosco. La scomparsa di questa economia ha peggiorato la situazione poiché i terreni boscati, privi di valore per i nuovi proprietari, diventano oggetto di spartizioni ereditarie.
Il Bosco del Vaj rappresenta emblematicamente questa situazione poiché sui suoi 70 ettari insistono ben 225 particelle, riferibili a 114 partite catastali: alcune particelle non superano i 300 m2 mentre la dimensione media è di circa 3.000 m2.
Ognuna di queste "particule" presentava una realtà gestionale autonoma a partire dal ceduo semplice a turni brevi fino alla fustaia sopra ceduo: sarebbe stato assai difficile e costoso accertare la provigione di una realtà boschiva così variegata.
Viste le finalità colturali più che economiche del piano che si andava redigendo si sostituirono i rilievi dendrometrici canonici con un "taglio di saggio" su di un'area congrua di circa due ettari. Scegliendo un'area rappresentativa di ceduo maturo sotto fustaia regolare si effettuò un intervento fitosanitario a carico dei polloni di castagno colpiti dal cancro ed un blando diradamento tradizionale, cioè "dal basso" eliminando i polloni deboli, sottoposti, deformi.
Il legname di risulta venne cubato e si stabilì che quella era la massa intercalare: si trattò poi di determinare la provvigione, cioè ciò che rimaneva del ceduo più la fustaia soprastante, rimasta pressoché intatta.
Tramite cavallettamento totale e costruzione delle curve ipsometriche per le specie principali, con l'aiuto di tavole di cubatura a doppia entrata, finalmente si calcolò la provvigione.
Utilizzando la misura delle altezze dominanti come parametro per la determinazione della ferti-
lità della stazione si suddivise arbitrariamente il soprassuolo in tre classi di feracità e si stabilirono i parametri dendrometrici per confronto con i valori rilevati nell'area di saggio, appartenente alla prima (buona) classe di feracità. Si stabilirono un-20% per la classe mediocre (II) e-40% per quella scadente (III) per tutti i valori: massa intercalare, numero di fusti, area basimetrica, eccetera.
L'interpretazione delle indagini ecologiche supportate da questi dati dendrometrici, pur ottenuti con metodi non del tutto ortodossi, furono sufficienti per la determinazione degli obiettivi selvicolturali ovvero della componente normativa del piano di assestamento.
2.3 Una conversione indiretta a favore del faggio
Finalità prioritaria non solo del piano di assestamento ma della stessa istituzione della Riserva naturale speciale Bosco del Vaj è garantire la sopravvivenza del faggio e degli altri elementi relitti della flora alpina.
Nonostante le potenzialità della vegetazione la situazione selvicolturale attuale non è in grado di garantire la rinnovazione del faggio che, governato a ceduo, viene soffocato e non sopporta i tagli a turno breve (12-20 anni) tipici del castagno da paleria, mentre come riserva non porta a maturazione i propri semi che dopo i 60-70 anni. Nella fattispecie si riscontra anche una bassa germinabilità del seme, forse dovuta all'isolamento genetico della stazione.
Anche il castagno, nonostante l'assoluta predominanza nel ceduo, è in grave crisi causa il perdurare della virulenza del cancro corticale (causato da un Ascomicete Diaportale, 1'Endothia parasitica).
La perpetuazione del governo a ceduo avrebbe segnato la scomparsa del faggio sulla Collina torinese: quindi si propose di convertire il ceduo verso un soprassuolo il più possibile naturale, in cui il castagno sarà dominato dalle querce e tornerà ad assumere il ruolo naturale di pianta sporadica come gli aceri, i frassini, il ciliegio, il carpino bianco e lo stesso faggio.
La conversione nei cedui composti è considerata un'operazione facile: con una serie di diradamenti progressivi (tagli di sementazione) si ottiene direttamente la fustaia dai semi del ceduo (metodo diretto). E però un metodo rischioso perché la fertilità del suolo spesso non è sufficiente a garantire la vita dei semenzali. Poiché i semi provengono principalmente dal ceduo la neonata fustaia tende a rispecchiarne la composizione dendrologica, quindi, nel nostro caso, con assoluta prevalenza del castagno, in contrasto con l'obiettivo di un ritorno ad una vegetazione il più possibile vicina a quella naturale potenziale: un querceto a prevalenza di rovere sui versanti, farnia nelle zone di ristagno e roverella nelle stazioni più povere e secche.
Nel Bosco del Vaj convertire il ceduo in alto fusto significava anche favorire le querce (e le altre latifoglie "nobili" o sporadiche) a scapito del castagno e della robinia.
In una realtà così complessa si pensò che l'unica via praticabile fosse la più lunga ma anche la più sicura: la conversione indiretta per invecchiamento del ceduo.
Il metodo indiretto presuppone il passaggio attraverso una fase intermedia detta di "fustaia transitoria" reclutata dal ceduo con lo scopo di produrre seme sufficiente per l'edificazione della fustaia definitiva (vera, cioè nata da seme). L'invecchiamento del ceduo si ottiene attraverso una serie (2 o 3) di blandi diradamenti con una selezione molto graduale, partendo da un elevatissimo numero di possibili allievi. Gli interventi risultano molto costosi (il valore del materiale di risulta è quasi nullo) ma in questo modo si può seguire l'evoluzione del soprassuolo e favorire l'affermazione e la disseminazione delle specie più gradite per variare la composizione dendrologica della futura fustaia definitiva.
La fustaia transitoria, che avrà un aspetto disetaneiforme, però con assenza delle classi giovani, dovrà essere curata in modo da agevolare la rinnovazione spontanea che diventerà sempre più facile con l'evolvere del terreno (non più depauperato dagli improvvisi tagli a raso del ceduo) e la maggiore produzione di seme.
Si prevede che la rinnovazione avverrà per focolai in modi e tempi diversi e dovrà essere agevolata con cauti tagli di sgombero, garantendo l'auspicata disetaneità a gruppi, la struttura più simile ai boschi naturali ed ottimale per le finalità turistico-ricreative.
2.4 Le prescrizioni del piano
Gli obiettivi selvicolturali indicati nel capitolo
precedente sono ovviamente di medio e lungo periodo, mentre le indicazioni operative del piano si limitano alla prima fase della conversione. Valutando l'età media, le condizioni vegetative dei vari appezzamenti ed il turno previsto per i diradamenti, si suddivise il bosco in 10 particelle forestali, chiamate, per evitare confusioni con i riferimenti catastali, "unità gestionali".
Intervenendo ogni anno su una nuova unità si sarebbe completato il primo intervento in 10 anni, il tempo necessario a far maturare la prima unità (tempo di ritorno) e così via. E evidente come non si sia ricercata una normalità della ripresa né in termini planimetrici né tanto meno volumetrici, ma si sia suddiviso il bosco secondo criteri squisitamente colturali.
Il primo intervento di conversione si limita ad un taglio prevalentemente fitosanitario a carico dei numerosi polloni di castagno colpiti dal cancro, degli olmi morti per la grafiosi, e con un'operazione di spurgo del materiale sottoposto. Non sono previsti interventi sulle matricine e le riserve che, anche se spesso ramose, deformi e con un'area di incidenza della chioma eccessiva vanno mantenute per l'innegabile valore estetico.
A conclusione di questa parte relativa ai contenuti del piano è bene comunque ricordare che, nonostante l'impostazione originale, il lavoro è in realtà articolato a norma di legge secondo i canoni classici dell'assestamento in:
- -registro particellare (o manuale di tassazione);
- -prospetto delle superfici; -piano delle migliorie;
- -libro economico;
- - manca invece un riassunto dendrometrico per specie, per i motivi più volte ricordati.
2.5 L'applicazione del piano
Al momento in cui queste pagine vengono scritte (maggio 1991) il piano di assestamento forestale sarebbe formalmente scaduto (validità decennale a partire dal 1981) ma gli interventi si sono realizzati solo su circa il 70% della superficie.
Il piano fu approvato dalla Regione Piemonte con un certo ritardo (aprile 1982) e nei primi anni l'applicazione della normativa fu assai difficoltosa per l'opposizione dei proprietari.
Il piano prevedeva espressamente che gli interventi fossero realizzati ad opera della riserva ed a totale carico della Regione. Questo non solo per garantire la corretta applicazione degli interventi ma per remunerare il "risparmio forzoso" ovvero i mancati introiti provenienti dall'utilizzazione del ceduo. In termini strettamente finanziari l'operazione di conversione è conveniente, anzi è indicata come unica soluzione per il recupero dei cedui con macchiatico negativo, ma i maggiori redditi garantiti dalla fustaia sono talmente lontani nel tempo da non essere apprezzati dagli attuali proprietari.
Nonostante queste opposizioni, in parte accolte dall'amministrazione del Comune di Castagneto Po (ente gestore della Riserva naturale speciale Bosco del Vaj), nel 1985 si diede corso al primo intervento sulle unità gestionali 2 e 3 ad opera dell'Ipla (Istituto per le piante da legno e l'ambiente), società per azioni a capitale prevalentemente pubblico che già si era occupata della redazione del piano. Successivi interventi si susseguirono nel 1986, nel 1989, nel 1990 e sono ancora in corso quelli del 1991. Già da questi dati risulta come non sia stata rispettata la cadenza annuale degli interventi, ma la realtà si presenta ancor più variegata in quanto una parte dei tagli viene effettuata dai proprietari che ne facciano espressa richiesta: se il ceduo ha superato l'età minima per l'intervento (8-10 anni) non c'è motivo, anche secondo gli estensori del piano, per negare l'autorizzazione e, d'altro canto, risparmiare sui costi.
Le masse intercalari da prelevare con il presente intervento costituiscono solo 1'11,2% della massa totale per ciascuna delle tre classi di feracità individuate; purtroppo negli appezzamenti più colpiti dal cancro la necromassa può superare di due o tre volte tali valori!
D'altra parte ove la fertilità è migliore si riscontra un numero eccessivo di polloni, con elevati valori di snellezza (rapporto altezza/diametro).
Dal momento in cui sono stati effettuati i rilievi tassatori per la stesura del piano ad oggi sono passati oltre dieci anni e la massa del bosco si è considerevolmente accresciuta: dall'89 si è conseguentemente deciso di potenziare l'intervento che non risulta più di semplice taglio fitosanitario ma di vero e proprio avvio all'alto fusto con la selezione dei polloni sulle ceppaie, individuando gli allievi (o candidati, ed eliminando i
polloni che li concorrenziano direttamente. Sono invece stati rilasciati, quando non ostacolavano le attività colturali, i polloni dominati e sottoposti, che non sono più in grado di nuocere agli allievi ma garantiscono comunque la copertura del suolo.
Fino ad ora, anche a causa di una inspiegabile presa di posizione del C.F.S. piemontese contro i tagli estivi, gli interventi sono stati rigorosamente effettuati durante il periodo di riposo vegetativo (15 ottobre-30 marzo, secondo le prescrizioni di massima e di polizia forestale vigenti).
Il programma di quest'anno prevede invece tagli estivi che dovrebbero presentare alcuni vantaggi:
- -immediato riconoscimento dei polloni di castagno con attacchi virulenti di cancro;
- -inibizione nello sviluppo dei rami epicormici; -depressione della facoltà pollonifera.
- -Vantaggi che dovranno essere confrontati con i presunti aspetti negativi:
- -maggiori danni al sottobosco in fase vegetativa;
- -più facile alterabilità del legname tagliato in succhio;
- -intervento più difficoltoso a causa del caldo e della presenza di fogliame.
Per l'esecuzione dei lavori si è reclutato, quando possibile, manodopera locale, col doppio intento di far ricadere localmente i redditi indotti dalla Riserva naturale e di introdurre gli operatori del posto alle nuove tecniche selvicolturali.
2.6 Attività collaterali
Se gli interventi sono a carico della pubblica amministrazione, il materiale di risulta rimane a disposizione dei proprietari che solo in parte provvedono allo smacchio; in effetti il prodotto dei diradamenti è di scarso valore, la domanda di paleria, un tempo notevole per i vigneti, oggi è quasi nulla e come combustibile non è adatto, perché brucia male e fà fumo.
La Riserva naturale speciale Bosco del Vaj, in collaborazione con l'Ipla, ha avviato delle prove sperimentali di carbonizzazione tramite forni mobili con l'intento di valutare la convenienza alla trasformazione del materiale di risulta in carbonella, da destinare al consumo locale per i barbecue o per particolari lavorazioni industriali. Effettuando la trasformazione in bosco si otterrebbe un prodotto maneggevole (solo 1/5 del peso originario) e di notevole valore.
I risultati delle prime infornate sono incoraggianti, almeno per quanto riguarda la qualità del prodotto.
Sempre nell'ambito della collaborazione con l'Ipla i guardiaparco hanno seguito un corso di gestione forestale con fasi pratiche sulle tecniche di abbattimento e l'uso della motosega, e teoriche per l'applicazione della normativa dei piani di assestamento.
Infatti quanto più le prescrizioni del piano si allontanano dalle forme tradizionali nell'uso del bosco tanto più è necessaria una formazione specifica sulle tecniche di intervento, sia per gli operatori che per i tecnici: la diffidenza dei proprietari va affrontata non con disquisizioni tecniche ma dimostrando nella pratica la fattibilità e la convenienza di quello che si propone.
Le finalità estetico-ricreative impongono talvolta anche interventi di potatura e dendrochirurgia soprattutto a carico delle riserve di faggio e di rovere presenti lungo strade e sentieri turistici: detti interventi sono realizzati direttamente a cura del personale della Riserva.
2. 7 Risultati e prospettive
In termini selvicolturali più che di risultati si può parlare di impressioni a causa dei pochi dati a disposizione.
Quello che si rileva immediatamente è la maggiore funzionalità estetica del bosco in conversione rispetto al ceduo: lo sguardo penetra tra le ceppaie diradate e si sofferma sulle maestose riserve opportunamente isolate per favorire la produzione del seme. Buona si direbbe anche la risposta vegetativa degli allievi valutabile da una buona densità della chioma e dall'assenza di succhioni o ricacci del ceduo.
Più problematica la soluzione dove, a causa della forte mortalità dei polloni e della insufficiente densità delle ceppaie, il diradamento ha creato dei pericolosi vuoti di chioma. Anche in questi casi è comunque risultata buona la resistenza agli accidenti atmosferici: rari sono stati i casi di curvatura dei polloni e gli schianti.
Pure positiva sembra la reazione a livello di pedogenesi: i diradamenti, lasciando maggiore spazio all'azione degli agenti atmosferici, favoriscono l'alterazione dello spoglio che invece tende
ad accumularsi con l'invecchiamento del ceduo, formando pacchetti di notevole spessore.
Si è già accennato all'opposizione dei proprietari che tendono a rifiutare le norme del piano, interpretate come una forte limitazione al godimento della proprietà privata. Oltre a queste posizioni di principio è difficile rilevare veri danni economici perché il risparmio forzoso avviene a carico di un bene dal valore veramente modesto.
Molto più frequenti sono i casi in cui l'attuale proprietario non conosce neppure l'esatta ubicazione dei propri boschi e accoglie con sorpresa la comunicazione di intervento da parte della Riserva.
Nel giro di una o due stagioni (bilancio permettendo) si pensa di portare a termine l'applicazione del piano e provvedere alla necessaria revisione senza peraltro discuterne i principi informatori.
Se per questa prima tornata poteva essere corretto accollare i costi di gestione all'amministrazione, per dare un esempio pratico ai proprietari, non si può pensare di continuare in quest'opera assistenzialistica, ma si dovrà esigere l'iniziativa e il coinvolgimento del privato, nei modi e nelle forme che si riterranno più opportuni, e certamente questo passo inasprirà le conflittualità latenti.
Note
1. La geobotanica può essere definita (Westhoff in Pignatti, Geobotanica, 1976): studio delle piante e delle comunità vegetali nella loro situazione nella biosfera.
2. L'era quaternaria, iniziata circa due milioni di anni fa, con la comparsa dell'uomo sulla terra, viene divisa in due periodi: Pleistocene, che termina con la fine dell'ultima grande glaciazione (il Wurn), cioè circa 15.000 anni fa; e Olocene, che continua tuttora.
3. L'analisi ecologica secondo questo metodo si effettua attribuendo ai principali fattori abiotici e merobiotici (luce, temperatura, continentalità, umidità, reazione del suolo, azoto) una scala di coefficienti a 9 termini in cui il 5 rappresenta la situazione media, i valori più bassi un'esigenza o tolleranza minore al dato fattore e viceversa per i valori più alti; i casi di indifferenza (esempio pH per le specie climax) sono indicati con X.
Bibliografia
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- Camoriano L., La vegetazione forestale di un settore di Collina torinese: inquadramento fitosociologico e cartografico, Tesi di laurea (inedito), Torino, 1988.
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* Direttore della Riserva naturale
del Bosco del Vaj |