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Trattare il tema dello sviluppo eco-sostenibile nelle aree protette è molto difficile.
Ogni ragionamento rischia di rimanere astratto, una semplice enunciazione di principi. Gli esempi concretamente realizzati sono pochi, spesso troppo enfatizzati. Ognuno ha le sue peculiarità, nessuno è generalizzabile al punto da potersi indicare come modello. La frequenza ripetitiva con la quale si citano le solite realtà, anche se positive come il Parco nazionale d'Abruzzo, è sintomo di debolezza di analisi e di proposta. Si rischia la retorica.
E' comunque da rilevare un crescente interesse su questo tema, sia da parte delle principali associazioni ambientaliste che di diversi soggetti istituzionali ed imprenditoriali, che fa ben sperare in una evoluzione reale del dibattito.
Va subito detto che il destino dei parchi programmati con la 394 dipende dai risultati di politiche economiche da svolgersi al loro interno e nelle aree di riferimento.
L'opposizione ai parchi, oggi capitanata dallo stesso ministro dell'ambiente, sarebbe enormemente più debole di fronte a veri risultati, o perlomeno a significative linee di tendenza.
Mi sembrano utili alcune considerazioni a livello di "analisi" della questione.
Si evidenzia innanzitutto una carenza di "misurazione" degli attuali effetti sull'economia della protezione delle aree, se si eccettua la ricerca sul Parco d'Abruzzo di Nomisma per conto del WWF.
Come ogni economia anche quella nei parchi deve potersi misurare in termini numerici e basarsi su indicatori confrontabili per periodi di tempo omogenei.
Occorre perciò impostare un lavoro di ricerca dei dati relativi agli investimenti, ai prodotti ed ai redditi nelle aree interessate e costituire una banca dati internazionale: serve una specifica disciplina, o, più correttamente, un coordinamento interdisciplinare che, ad iniziare dalle sedi universitarie, dia concretezza ed autorevolezza scientifica a studi e ricerche sull'economia nei parchi.
Un parco non ha bisogno solo dello zoologo, del biologo, del naturalista, del forestale, del geologo. Non servono solo quegli specialisti che applicano le loro competenze al fine di gestire gli habitat protetti. Occorre anche l'economista capace di tradurre le politiche protezionistiche in termini di sviluppo delle comunità degli uomini.
Il Coordinamento nazionale parchi ha deciso di costituire un apposito gruppo di lavoro sull'economia sostenibile. L'intento è quello di studiare, aprire il confronto e "seminare" affinché l'argomento venga maggiormente strutturato ed assuma un vero rilievo nelle istituzioni e nel mondo dell'impresa.
Pensare allo sviluppo in aree naturali protette, oltre che difficile, è anche molto delicato. E' facile prestare il fianco a banalizzazioni ed a scorciatoie; c'è chi pensa ai parchi solo in funzione di "calamite" di finanziamenti pubblici, ad esempio. Per questo la correttezza dei principi è fattore essenziale.
Nei parchi: sviluppo sì o sviluppo no? Freniamo o promuoviamo? Interdiamo o favoriamo?
Posto che i parchi sono istituiti per proteggere la biodiversità e permettere un uso sociale dei beni naturali e culturali per l'oggi ed il domani, la risposta non può che essere: sì allo sviluppo sostenibile. Può apparire scontato affermarlo ma, alla luce di un esame più approfondito delle diversità, si capisce che la cosa è più complessa. Esempio: un parco fluviale in un'area industrializzata mentre inibisce forme di sfruttamento del territorio (escavazioni, insediamenti produttivi in alveo, eccetera) deve proporre soluzioni economiche alternative, in questo caso legate soprattutto alla fruizione turistica ed all'uso del tempo libero. La direzione del processo è perciò da un modello di sviluppo ad un altro, ovvero una riconversione.
In un parco di montagna in cui esiste una economia stagnante e sofferente questa necessita di essere rigenerata, rivitalizzata, con l'innesto di nuovi esempi validi che coinvolgano il turismo, l'artigianato, l'agricoltura, i servizi: anche in questo caso si tratta di un nuovo modello di sviluppo, però più che di una "riconversione" si tratta della "costruzione" di una economia ecologica che sia più forte di quella preesistente, evidentemente marginale e priva di prospettive.
Ogni area protetta non può essere indifferente rispetto all'economia e deve perciò avere un corretto programma di sviluppo, adatto alla propria caratterizzazione, ai beni da difendere, alle condizioni dei propri referenti sociali.
Altro aspetto determinante è la concretezza dell'azione.
Siccome alcuni esempi si ripetono retoricamente, ed altri sono quasi sconosciuti è probabile che occorra portare alla luce anche alcune "microesperienze" e, senza pretendere che siano per forza un modello applicabile ovunque, verificarne i caratteri di trasferibilità ed i limiti di estensione. Penso possa essere utile analizzare a fondo esperienze diverse, non solo italiane, come ad esempio 1' agricoltura biologica, o il turismo verde dei rifugi, o le linee di prodotti naturali, o gli effetti indotti dallo studio e il monitoraggio del territorio. Sarebbe significativo conoscere le posizioni di partenza, gli investimenti fatti, la composizione sociale ed anagrafica degli operatori, il grado reale di soddisfazione dei problemi.
In altri termini occorre predisporre una metodologia che vada oltre le apparenze e permetta di indagare scientificamente.
Ma, mentre facciamo questo sforzo di approfondimento, non possiamo stare fermi ed impassibili di fronte alle questioni di fondo, generali e politiche, su cui si gioca una parte non secondaria dello scontro di interessi del nostro e di altri Paesi.
Un valore al vincolo non è ancora stato attribuito. In genere il vincolo ha un differenziale negativo rispetto al valore di mercato di un territorio "libero", e per questo spesso dà luogo ad un risarcimento o indennizzo. Si tratta però di una concezione tutta all'interno di una logica di sviluppo industriale tradizionale, cioè legata al consumo delle risorse. Da questa impostazione si sono generate tante speculazioni che hanno martoriato il nostro territorio.
Invece vincolare il territorio ha un elevato valore sociale che deve essere riconosciuto dallo Stato. Dall'indennizzo, che ha un carattere statico come una rendita, occorre passare alla incentivazione economica ed alla rideterminazione del prelievo e della redistribuzione fiscale a vantaggio di chi opera nelle aree protette.
Le risorse indirizzate verso i parchi fanno aumentare l'autorevolezza della tutela e la qualità dell'ambiente, del paesaggio, dei servizi resi.
La condizione è che queste risorse vi siano e siano spese bene. Nell'ordine occorre costituire con gli enti parco dei servizi reali, quali il controllo, la vigilanza, il monitoraggio, la ricerca, la promozione culturale, l'educazione ambientale, la promozione economica. I servizi devono essere competenti, autorevoli ed efficienti. Ad essi è affidato il compito di dare "visibilità" e "riconoscibilità" al parco e quindi di poter costruire una economia idonea.
Lo Stato e le sue articolazioni debbono investire per creare parchi efficienti, anche riconvertendo la spesa pubblica per il funzionamento del sistema istituzionale. Non esiste un mercato libero, spontaneo, autogenerato in materia ambientale. I disastri che produce l'estremizzazione del liberismo si riversano pesantemente sul territorio compromettendone l'uso equilibrato.
Di converso, come rovescio della stessa medaglia, la scuola urbanistica da cui sono nati i piani paesistici, ed i piani dei parchi, commette ancora l'errore di pensare che sia sufficiente apporre il vincolo normativo per destinare l'uso del suolo e del soprassuolo.
Invece il "piano" rischia di saltare se non prevede che debbono essere pagati dei prezzi per tenere al passo le aree protette sotto il profilo socioeconomico; non può pagarli l'ambiente né chi abita presso i parchi, è un carico del sistema dello Stato e delle imprese.
Oggi purtroppo il governo italiano sembra fare scelte opposte. Se non cambia, non solo affosserà la conservazione della natura, ma priverà grandi aree del paese di prospettive vere di sviluppo, ingannando la gente con la lusinga di qualche vincolo in meno.
Se invece questa scelta venisse fatta, una volta seriamente impostata, l'avvio della seconda fase sarebbe rapido e pressoché automatico. Incoraggiati dall'esistenza di un vero parco, agevolati da incentivi e sgravi fiscali, gli operatori interni ed esterni comincerebbero ad investire oppure a riconvertire. La compatibilità degli interventi sarebbe garantita dalla serietà ed autorevolezza del parco e dal più generale sistema di tutela ma, ancor di più, dall'assunto che azioni non ecosostenibili farebbero deprezzare una nuova economia e non sarebbero convenienti.
L'attivazione di processi economici sostenibili dipende perciò dalla presenza del valore ambientale e dalla sua esaltazione in termini di "qualità sociale", risposta a bisogni evoluti come quelli culturali, estetici, metaeconomici.
Paradossalmente le possibilità di successo di un modello economico in un parco aumentano se l'economia non è appariscente, invadente, aggressiva. Se il profitto non si presenta pesantemente come il fine principale (assillante) della vita in quelle aree tra quelle comunità. Se esiste un equilibrio tra produzione e consumo senza sprechi, eccessi, bisogni massificati. Se la mente diventa ecologica e si pratica un diverso stile di vita e di relazione sociale ed interpersonale.
Il saper organizzare un luogo naturale e culturale ove tutto questo possa esprimersi è fattore di
assoluto valore aggiunto e di risultati apprezzabili e duraturi. E, se questo è vero, dovrebbe potersi ottenere, come hanno affermato diversi studiosi, con investimenti molto più bassi rispetto a quelli tradizionali che non riproducono le risorse che consumano.
Questo mio intervento, che pone molte questioni interrogative a ruota libera senza indicare soluzioni, vuole essere un'opinione sperabilmente utile per il lavoro del Coordinamento parchi su questi temi.
Vorrei però produrre un' altra sollecitazione: l'attuale governo, più orientato al produttivismo e meno sensibile all'ambientalismo di quelli precedenti (che pure sono stati insoddisfacenti) è nemico dei parchi in termini preconcettuali e concettuali.
Ma cosa fanno le Regioni e le autonomie locali? Il bilancio è molto variegato ma nel complesso insoddisfacente. Pochi sono i parchi istituiti che sono stati posti in grado di funzionare, cioè di fornire i servizi caratteristici acquisendo autorevolezza. Le colpe forse stanno in maggioranza da una sola parte, ma i limiti, le sottovalutazioni ed i pressapochi sono di tutti. Riflettere anche su questo non dovrebbe fare male.
* Presidente del Parco del Gigante |