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E' opinione diffusa che la caccia di selezione, praticata ormai da tempo nel centro Europa ed in alcune realtà nazionali per tutte le specie di ungulati, sia "il migliore, se non l'unico, sistema venatorio in grado di garantire la massima consistenza faunistica possibile in rapporto alla situazione ambientale".
Prima di analizzare nel dettaglio in cosa consiste tale tecnica di prelievo, si ritiene necessario premettere alcune considerazioni di carattere generale indispensabili per introdurre tale argomento e basilari per l'impostazione di una corretta strategia di conservazione della fauna selvatica.
Conservazione e gestione
E' ormai assodato, avendo trovato ufficializzazione nella "World Conservation Strategy", che per conservazione si intende "la gestione dell'utilizzazione umana della biosfera in modo tale da trarne i maggiori vantaggi, mantenendone il potenziale perché possa far fronte ai bisogni ed alle aspirazioni delle generazioni future. Quindi la conservazione è positiva ed include la salvaguardia, il mantenimento, l'utilizzazione duratura, la riqualificazione ed il miglioramento dell'ambiente naturale".
Questo nuovo concetto viene evidentemente a contrapporsi con una concezione della conservazione intesa come immobilismo, come lasciar fare alla natura, che, se può trovare applicazione in ambienti di grande estensione e caratterizzati da una discreta naturalità, mal si presta per una adozione generalizzata nella maggior parte delle realtà nazionali, fortemente frammentate e alterate nella loro composizione originaria dall'intervento antropico millenario.
Per quanto concerne in particolare la componente faunistica di un ecosistema, le varie popolazioni animali, in relazione all'ambiente nel quale conducono le proprie funzioni vitali, sono caratterizzate da un determinato livello di densità - la cosiddetta densità biologica - al di sopra della quale, in ambienti ad elevata naturalità ed in assenza di interventi umani diretti, la tendenza ad un ulteriore incremento è solitamente controbilanciata da diversi fattori di regolazione estema ed interna.
Quanto più l'ambiente risulta alterato rispetto alla sua situazione originaria, tanto più la capacità di autoregolazione - i cosiddetti meccanismi di feed-back- vengono resi inefficienti e conseguentemente vengono messi in crisi i delicati equilibri fra le popolazioni faunistiche e l'ambiente, con grave rischio per le popolazioni medesime e per le produzioni agro-forestali.
La fauna selvatica, così come la componente foresta di un sistema naturale, rappresenta una risorsa finita ma caratterizzata dalla rinnovabilità e pertanto qualsiasi intervento di conservazione deve essere finalizzato a far sì che le risorse in primo luogo non si esauriscano e quindi ne vengano messi a disposizione tutti i benefici possibilmente ricavabili, per il maggior numero di persone possibili, nel modo più duraturo possibile e nella quantità più elevata e costante possibile.
Questo concetto di fauna selvatica intesa come risorsa, e quindi come bene collettivo, è stata codificata anche dal legislatore nazionale laddove alla tradizionale concezione di "res nullius" è andato a sostituire quella senz'altro più moderna di patrimonio indisponibile dello Stato da gestire a favore di tutta la collettività. Fauna selvatica intesa quindi come parte integrante degli ecosistemi, bene comune dell'intera collettività.
Gestione faunistica e gestione venatoria
Chiarito quindi che gestione vuole e deve esseresinonimo di conservazione, la gestione faunistica (Wildlife Management) non può evidentemente discostarsi da questi principi generali e deve pertanto garantire la messa a disposizione della comunità delle risorse faunistiche al livello quali-quantitativo più alto possibile.
Ne deriva quindi che la gestione venatoria, attuata principalmente attraverso la caccia, non può soddisfare a tutte le esigenze che la comunità oggi ripone nella fauna e quindi il Wildlife Management non si può esaurire unicamente nella caccia, intesa come quell'insieme di attività volontarie indirizzate a massimizzare l'oggetto dell'attività venatoria medesima, è cioè di quella parte della fauna selvatica che, in base alla normativa vigente, è considerata cacciabile.
D'altra parte, in considerazione dello stretto legame che esiste tra una determinata specie faunistica, o meglio tra un insieme di specie che occupano una medesima nicchia ecologica, e l'ambiente che le ospita - legame principalmente di natura trofica - come si è già detto, esiste una soglia di carico oltre la quale non è possibile accedere senza il rischio di compromettere in modo grave l'ambiente, l'equilibrio fra questo e la fauna e di conseguenza la componente faunistica stessa. In secondo luogo l'attività venatoria, come momento importante della gestione faunistica nel suo complesso, intesa come attività di conservazione, non può prescindere da conoscenze bio-etologiche approfondite e da un'attenta opera di pianificazione e programmazione degli interventi.
Nel rispetto di tali principi gli interventi di gestione venatoria si sono sviluppati secondo due direttrici principali finalizzate a regolare, controllare ed indirizzare l'intervento venatorio sulla componente faunistica.
Non c'e dubbio che il sistema più semplice di procedere in tal senso, e di conseguenza il primo applicato in assenza di conoscenze approfondite circa la bio-etologia, ma soprattutto la consistenza e la distribuzione delle varie popolazioni faunistiche oggetto di caccia, è stato quello della semplice limitazione dei tempi di caccia, secondo il principio in base al quale l'effetto del prelievo era direttamente correlato ai tempi in cui lo stesso veniva attuato.
Tale sistema di approccio mise ben presto in evidenza tutti i suoi difetti sia in Italia che in altri Paesi (si veda ad esempio l'esperienza francese) in quanto in pochi giorni era possibile attuare prelievi molto al di sopra di quelle che erano le reali possibilità oppure, di contro, non veniva operato un prelievo venatorio sufficiente a proteggere le colture agricole e forestali.
Un successivo passo in avanti è consistito nel cercare di legare il cacciatore ad un detemminato territorio in modo tale da conoscere preventivamente l'entità del potenziale impatto e operare nel senso di una più razionale distribuzione del carico in relazione alle reali situazioni di consistenza faunistica.
In tal senso si è mosso in particolare il legislatore nazionale con la legge 9 febbraio 1992, n. 157, nel momento in cui ha introdotto gli ambiti territoriali di caccia ed il concetto di densità venatoria.
Un sistema d'approccio, che parte da principi di fondo completamente diversi, è quello adottato, in particolare per tutte le specie di ungulati, oramai da tempo nel Centro Europa ed in alcune realtà nazionali (Provincie di Trento e Bolzano, Friuli-Venezia Giulia ed altre) e che va sempre più diffondendosi.
Tale sistema sostituisce al concetto del numero di giorni cacciabili quello del numero dei capi prelevabili e trova la sua base nella conoscenza delle popolazioni che si intendono gestire, in termini di consistenza e di distribuzione, dell'ambiente dalle stesse occupato - al fine della determinazione del carico massimo tollerabile - nonché dei parametri biologici e dello stato di salute, indispensabili per determinare le possibilità di prelievo in relazione agli obiettivi prefissati. Si tratta in altri termini di mettere in atto strumenti validi che, con riferimento alle singole specie ed agli areali omogenei dalle stesse occupati, rappresentino la base per la predisposizione di appropriati programmi di prelievo.
In questo modo la gestione faunistica diviene quell'insieme di interventi che influiscono sulla fauna modificandone l'assetto esistente e le tendenze in atto nel senso di equilibri più stabili del sistema.
Si parte cioè da una situazione reale più o meno vicina a quella potenziale e, adottando un modello quanto più possibile prossimo alla naturalità, in riferimento alle condizioni ambientali, si opera con gradualità e dall'interno del sistema per avvicinare, coadiuvando la tendenza naturale, lo stato di fatto a quello prospettato.
Caccia di selezione e programmi di prelievo
Si introduce così il concetto di caccia di selezione intesa come prelievo ragionato di fauna selvatica, effettuato mediante una scelta preventiva del capo da abbattere, con riferimento ad un programma di prelievo redatto sulla base dei principi sopra indicati.
In altri termini, senza trascurare l'importanza del fattore ecologico "uomo", si tratta di operare ponendosi globalmente gli obiettivi generali della densità, della stabilità, della vitalità delle popolazioni e dell'equilibrio fra le stesse e l'ambiente, secondo modelli, come già detto, quanto più prossimi alla naturalità, ed affiancando ad essi, a seconda degli istituti in cui ci si trova ad operare, obiettivi secondari specifici, compatibili però con quelli di carattere generale.
In altre parole la caccia di selezione, basata su programmi di prelievo correttamente definiti, viene intesa come strumento di mantenimento di popolazioni sane e ben strutturate in relazione alle potenzialità dell'ambiente, tenuto conto anche della situazione di squilibrio biologico determinata dall'assenza di grossi predatori, che consente l'utilizzo di alcune specie anche come fonte di proteine animali.
Da quanto fin qui detto emerge in maniera chiara che il termine caccia di selezione diviene sinonimo di caccia programmata secondo i principi di base della gestione faunistica. Condizioni imprescindibili per poter attuare in termini razionali la selezione sono quindi la conoscenza quali-quantitativa delle popolazioni in esame, l'individuazione della densità potenziale (biotica o agro-forestale secondo i casi) ed infine la definizione di specifici programmi di prelievo.
Il programma di prelievo diviene quindi lo strumento tecnico che, sulla base delle conoscenze acquisite e delle scelte pianificatorie operate, detta le indicazioni operative di prelievo al fine di avvicinare la situazione reale a quella potenziale prospettata sia in termini di consistenza (quantità), che in termini di struttura (rapporto tra i sessi e tra le diverse classi di età) e di qualità (condizioni zoo-sanitarie e bio-morfologiche).
Per quanto concerne l'aspetto quantitativo del prelievo, l'entità dello stesso viene determinata sulla base della consistenza reale, dell'incremento annuo - risultante dalla differenza tra tasso di natalità e tasso di mortalità -, del livello potenziale cui ci si prefigge di arrivare ed infine dei tempi per raggiungere tale livello.
Si potrà così prelevare una percentuale più o meno consistente dell'incremento netto sino a quando, raggiunti gli obiettivi prefissati a seconda degli istituti in cui si trova ad operare (riserve di caccia ove si persegue la massimizzazione dell'utilizzazione - aree protette ove l'opzione principale è quella naturalistica) si potrà potenzialmente prelevare anche l'intero incremento.
Al riguardo, dalla bibliografia specializzata si evidenzia come un livello che consente un'elevata possibilità di prelievo, che garantisca stabilità nella popolazione senza il rischio di un decadimento qualitativo, sia collocato su valori intermedi tra il punto di flesso della curva logistica secondo la quale si sviluppa la dinamica di una popolazione di ungulati ed i valori di densità biotica, che pertanto, nell'ottica dell'ottimizzazione del prelievo, non è opportuno raggiungere.
Senz'altro più delicato è il problema connesso con l'aspetto qualitativo del prelievo. Se nel passato la tradizionale formulazione dei programmi di prelievo era infatti basata sulla credenza che fosse possibile migliorare la qualità della specie (la bellezza del trofeo nel capriolo ad esempio) mediante un'azione selettiva del cacciatore, allo stato attuale delle conoscenze si tende maggiormente a seguire le regole desunte dall'osservazione dei meccanismi di regolazione naturale delle popolazioni.
In questo senso senza dubbio è prioritario l'abbattimento di capi che, da un'analisi generale, appaiano più scadenti, affetti da malattie, da forti parassitosi, condizionati da traumi fisici che quindi, con ogni probabilità, pagherebbero un più alto contributo alla selezione naturale (predazione, eventi climatici, eccetera).
Ciò nonostante la caccia di selezione non può divenire semplicemente "abbattimento sanitario" ma, pur incidendo prioritariamente su individui di qualità inferiore alla media della popolazione (in percentuale maggiore alla loro esistenza nella popolazione stessa), deve rappre-
sentare l'attuazione di un sistema di valutazione della qualità non tanto dell'individuo, quanto della popolazione nel suo complesso.
Ogni singolo soggetto viene quindi considerato come il riflesso della sua popolazione e la popolazione come il riflesso dell'ambiente in cui vive. Nel capriolo, ad esempio, la selezione praticata unicamente sulla base dello stato di sviluppo del trofeo veniva ad incidere sugli effetti e non già sulle cause: per raggiungere il fine della gestione faunistica - una popolazione sana e robusta, in equilibrio con le risorse ambientali - si deve invece agire sulle cause e quindi sulla densità e sulla struttura della popolazione medesima. Per quanto riguarda la struttura appunto, intesa sia come ripartizione in classi di età che come proporzione fra i sessi, è indispensabile che questa sia mantenuta equilibrata al fine di evitare stress sociali, condizioni di sovraccarico localizzato e consentire di conseguenza un naturale utilizzo delle risorse.
Da quanto è possibile desumere dallo studio dei meccanismi di predazione, relativamente alle classi di età, si osserva che i carnivori inseguitori sembrano esercitare una selezione in particolare a carico degli individui immaturi e/o vecchi. Ciò è determinato in parte da minor vigore fisico ed esperienza, oppure da ridotta efficienza fisica, oltreché, per i giovani, dalle minori dimensioni corporee e dalla più elevata abbondanza relativa.
Sulle medesime classi vengono inoltre ad incidere in maniera più elevata i fattori di mortalità invernale. Ecco quindi che l'azione dei fattori naturali può essere, in una certa misura, imitata o anticipata da un adeguato abbattimento di selezione che vada ad incidere prevalentemente su queste classi, con rispetto invece per i riproduttori che andranno prelevati solamente in misura limitata e soprattutto quando inizia la fase discendente della loro parabola vitale (di norma superati i 2/3 della durata della vita).
Infine, per quanto concerne il rapporto fra i sessi, questo, in condizioni naturali, sembra risultare prossimo alla parità nelle specie monogamiche mentre risulta più o meno sbilanciato a favore delle femmine in quelle poliginiche.
Pertanto, sulla base delle conoscenze attuali, sembra opportuno che i programmi di prelievo siano indirizzati al raggiungimento di un rapporto paritario fra i sessi, ovvero ad un rapporto leggermente sbilanciato a favore delle femmine. Alla luce di quanto detto, ben si comprende come per l'applicazione della caccia di selezione, contrariamente a quanto accade secondo il criterio della limitazione dei tempi disponibili per l'attività di caccia, sia necessario disporre di periodi di intervento piuttosto lunghi e correlati alle varie fasi biologiche delle popolazioni cui l'attività stessa fa riferimento.
Ciò vale a maggior ragione se si considera come l'applicazione pratica di tale tecnica sia stata realizzata mediante particolari misure, con finalità educative e di controllo, quali l'accompagnamento obbligatorio dei cacciatori, le denunce di uscita e di abbattimento, il controllo dei capi abbattuti (nelle Provincie di Trento e Bolzano ad esempio).
Conclusioni
Nell'ottica della conservazione di un bene collettivo ed insostituibile come il patrimonio faunistico la gestione, sia per le future generazioni che per una razionale utilizzazione energetica delle risorse naturali, deve basarsi su precise conoscenze bio-etnologiche nonché dello stato delle popolazioni anche in relazione all'ambiente in cui le stesse vivono e deve ispirarsi a criteri di gradualità e prudenza.
Infatti le interazioni naturali che vengono a svilupparsi in un ecosistema sono molteplici e vengono a determinare un processo complesso, cosicché qualsiasi modificazione si ripercuote sulle altre componenti, provocando una serie di reazioni che finiscono per ricadere sull'agente iniziale.
La caccia di selezione può così divenire strumento importante ai fini della gestione faunistica globale nel perseguimento dell'obiettivo di un ecosistema stabile e quanto più naturale, con l'aiuto di tutte le categorie interessate a farlo.
In questo modo la pratica venatoria può rappresentare, su tutto il territorio, non più semplicemente un'attività ludica tollerata e controllata, ma valorizzata, integrata e coinvolta, parte importante della gestione dell'ambiente e dell'utilizzazione delle risorse naturali rinnovabili a vantaggio non di alcune categorie ma della collettività intera. |