Federparchi
Federazione Italiana Parchi e Riserve Naturali


PARCHI
Rivista del Coordinamento Nazionale dei Parchi e delle Riserve Naturali
NUMERO 14 - FEBBRAIO 1995


Veloci verso cosa?
Intervista a Remo Bodei

Remo Bodei è nato a Cagliari, ha conseguito la laurea in filosofia presso la Normale di Pisa ed ha proseguito gli studi presso le Università di Tubinga, Friburgo e Heidelberg. Insegna Storia della filosofia presso l'Università di Pisa.

Professor Bodei, in una sua intervista per l'Enciclopedia multimediale delle scienze filosofiche ha detto che è tramontata una certa idea di progresso: quella di un progresso pigliatutto che, come un fiume in piena, trascina ogni aspetto della vita politica, civile e scientifica.
"Ritengo che occorra accettare l'idea di una pluralità di progressi. Se noi guardiamo a certi campi, ad esempio la medicina o la fisica, e analizziamo lo sviluppo di queste discipline negli ultimi dieci, vent'anni, vediamo che molte cose proseguono a cambiare in meglio. Noi dovremmo distinguere pertanto non tra progresso e declino della civiltà, bensì fra molte civiltà che mutano, distinguendo fra molte immagini di progresso. Sappiamo che si può avere un progresso nella scienza a cui non corrisponde un altrettanto progresso in campo della morale. Quella che è andata persa è un'idea di progresso globale. Se si sprecano risorse, o se si allarga il buco dell'ozono non si fa un servizio al progresso. Una capacità fondamentale del progresso è quella di sapersi arrestare localmente, non globalmente, di articolare il movimento in maniera diversa, in modo che le sue premesse vengano salvaguardate. Si può far risalire al Seicento l'epoca in cui ogni generazione riusciva ad accumulare, a mettere da parte qualche cosa in più rispetto a quello che perdeva, e questo diaframma crescendo ed accumulandosi ha creato il progresso. Ecco, io credo che questo patrimonio rimanga, che ogni generazione può aggiungere qualcosa, anche se più lentamente, anche se più a macchia di leopardo".
parlando di modernità lei lega questo concetto con la velocità. Questa velocità che sembra caratterizzare il moderno non rischia di portare appunto ad un divario tra diversi progressi, per cui ci potrebbe essere un progresso fatto di benessere materiale e un regresso dell'ambiente e del rapporto con la natura?
"In termini più generali imposterei la questione in questi termini: la velocità non è altro che l'espressione per noi del fatto che il passato non riesce a 'far valanga' su se stesso. Le generazioni che ci hanno preceduto, direi almeno fino ai nostri nonni, traevano insegnamenti dal passato. I vecchi avevano l'esperienza, oggi invece sono denigrati. Questo significa che aver vissuto, aver accumulato esperienze non basta, perché l'esperienza cammina troppo velocemente. Questo significa che non possiamo più prefigurarci il futuro se non come una sorta di rincorsa vuota di contenuti, e questo incide anche sulla nostra idea di progetto. Ecco perché anche il rapporto con la natura cambia: perché prima si poteva probabilmente progettare anche un dominio sulla natura, più o meno tirannico. Tuttavia si riusciva, per esempio, ad organizzare un rapporto controllabile. Oggi i parchi stessi mi sembrano il tentativo di strappare qualche cosa al disastro, al deterioramento. Ma più che progettare un rapporto nuovo mi pare si tenda a prendere qualcosa ed estrarla da un contesto; in questo senso il nostro rapporto con la natura ci è sfuggito di mano. Molti parlano di 'vendetta della natura': è una bella immagine. Certo se la natura comincia di nuovo a imperversare come ai vecchi tempi non è un buon segno; non sono per l'idea di lasciar fare alla natura che è buona. Il problema è che il nostro modo di vedere la natura deve mantenere una sintonia o un 'controllo morbido'. Come quando si va di bolina in barca a vela. Apparentemente è un controsenso perché si riesce ad andare anche contro vento, ma facendo zig zag si naviga. Credo che questa sia una metafora del nostro possibile rapporto con la natura: utilizzare le sue forze senza esaurirle e senza danneggiare quella che è la nostra fonte di vita. E' una cosa ovvia ma va anche detta: noi abbiamo una concezione forse un po' troppo ' spiritualista' della nostra essenza umana mentre noi siamo fatti di materia e di natura. Se il cibo è inquinato e l'acqua è cattiva ne risentiamo e quindi è ovvio che è nel nostro interesse trovare un equilibrio con la natura".
Enzo Tiezzi afferma che vi è un tempo della storia e un tempo della biologia e quindi della natura. Dal divario di velocità fra questi due tempi ritiene nascano le crisi ambientali. In altre parole noi consumiamo più rapidamente di quanto impiega la natura a ricostituire.
"Il problema dell'esistenza di tempi diversi è affascinante anche in termini più generali. I biologi, ad esempio, usano il moscerino della frutta, la drosofila, per i loro studi perché il suo ciclo vitale dura tre giorni, quindi nell'arco di un anno riescono a studiare il DNA di tante generazioni. Credo che il problema dal punto di vista biologico sia che ogni individuo, e ogni specie, ha il proprio orologio biologico. Tutte le specie animali, tranne l'uomo, hanno tempi 'incastonati' con i ritmi naturali. Quello che ha fatto l'uomo dall'inizio della sua storia, ed in modo accelerato dall'industrializzazione in poi, invece, è di emanciparsi dai tempi naturali. Basta pensare al fatto che con l'illuminazione abbiamo colonizzato la notte, abbiamo modificato i ritmi biologici. I progressi della medicina ci fanno respingere i ripetuti attentati che la natura ci porta, e quindi oggi si vive più a lungo. Ma è l'età media che è aumentata notevolmente: al tempo dei Romani era di 25 anni, 40 nel Seicento; oggi in Italia, siamo secondi al mondo, è di 73 anni per gli uomini e 79 per le donne. Ma non è aumentato il tempo assoluto di vita della specie. Per certi versi però ritengo che la 'rottura' dei ritmi naturali non sia così drammatico o da enfatizzare. Come credo che 'fare qualcosa contro la natura' non significa niente. Non è che la natura sia una specie di 'mostro sacro' che deve essere rispettato feticisticamente. Noi possiamo modificare i nostri ritmi, accelerarli, diminuirli, sintonizzarli o meno, con la natura: questo però non implica che la natura sia un modello che ha sempre la priorità"
Divario di ritmi significa però che noi in pochi anni, al massimo qualche decennio, consumiamo ciò che la natura ha impiegato milioni di anni a costruire. E' il problema dell'energia, ma più in generale del consumo di natura che si tende a ritenere inesauribile.
"Questo è il problema dei limiti dello sviluppo. Una questione già posta con forza dal Club di Roma negli anni '60 e '70. Ed è certamente una questione enorme. Ciascuno di noi contribuisce al famoso effetto serra, oppure consumiamo le riserve di petrolio... E' chiaro che certe cose non si possono ricostituire. Per esempio vi sono sei minerali che si prevede scompariranno entro i prossimi 30-40 anni. La questione è se la tecnologia farà in tempo a fame a meno. I materiali, le fonti energetiche, si cambiano: non è detto che avremo sempre bisogno di andare avanti a benzina. Se riesce l'esperienza della fusione nucleare avremo una quantità di energia non inquinante. Ma qui sì, interviene il fattore tempo. Non so se faremo in tempo; siamo già al 2° giorno dell'apologo delle ninfee nello stagno?".
Appunto, non è dunque auspicabile che le società avanzate rallentino il consumo ed i ritmi, mentre forse devono accelerare le società più arretrate ma con una visione dello sviluppo che non sia di predazione dell'ambiente?
"Credo che in una certa misura le società 'avanzate' saranno costrette a far questo. Se tutti consumassero come consumano i cosiddetti Paesi avanzati... se tutto il mondo usasse la quantità di carta igienica che usiamo noi saremmo deforestati immediatamente. Ma vi è un certo "terzomondismo" che fa un cattivo servizio a quelli che non appartengono alla nostra civiltà. Si dice: il 20% della popolazione mondiale consuma 1'80% delle risorse. Vero, però si dimentica di aggiungere che è questo 20% che produce 1'80% delle risorse. Allora se si vuole usare questo argomento non nell'interesse di chi ha già ma nell'interesse di tutti bisognerebbe per esempio che questo 80% della popolazione mondiale che, in parte, è ai limiti della sopravvivenza, imparasse a produrre seppur non nei modi distruttivi che abbiamo utilizzato noi finora. La mia paura è ancora che non si faccia in tempo. Ognuno ritiene che il suo piccolo contributo non serva a nulla. In parte è vero ma nel contempo è una questione di scala. La singola piccola irregolarità non incide, ma se viene fatta da migliaia, milioni di persone diventa un problema enorme. Il pericolo che 'ci si strozzi' con le proprie mani è reale. Ritengo che questa sia una delle cose più drammatiche perché siamo tutti capaci di fare buoni ragionamenti ma pianificare la crescita demografica, ad esempio, è una questione enorme. E la bomba demografica è veramente innescata. L'egoismo di chi ha già e non vuol perdere nulla e il bisogno disperato di chi non ha e vuole avere qualcosa non è un'equazione molto semplice...".
In questo senso, la capacità di progettare e di pianificare della politica pare "mancare di tempo", incapace di porre argini, mancante di progettualità.
"Manca di progettualità temporale perché i progetti devono avere anche delle scansioni mentre noi tendiamo sempre a partire dal tetto, dai grandi principi, senza tener conto delle basi. Oppure 'partire dal tetto' anche in senso temporale, cioè vedere gli obiettivi finali ma non vedere a breve e medio termine come arrivarci. La crisi del progetto è crisi dell'articolazione del progetto stesso: che certe cose si debbono fare lo sappiamo più o meno tutti. Per esempio che la foresta amazzonica vada conservata lo sappiamo, ma cosa si dice a questi disgraziati "garimpeiros" che vanno a cercare l'oro e gettano solventi a base di mercurio nei fiumi. Cosa riusciamo a dire ai 5 milioni di bambini brasiliani che non hanno futuro, o agli abitanti delle smisurate favelas di Città del Messico? Come si fa ad aiutarli? E se anche avessimo i rimedi, sapremmo attuarli, ed in tempo utile? Ma resta valido anche il detto poetico che là dove cresce il pericolo cresce anche il rimedio. Anche se rischia di essere consolatorio...".
Anche se i filosofi non danno ricette pensa che rallentare e cercare un po' di equilibrio e armonia sia una strada troppo astratta?
"Il problema è rallentare dove e accelerare dove; perché, per esempio, se si riuscisse ad accelerare la produzione di grano senza usare pesticidi devastanti sarebbe un bene. Se si riuscisse anche ad avere forme di smistamento delle risorse... rallentare ma anche equilibrare, cioè creare sistemi di distribuzione. Per esempio, cosa possiamo scambiare con l'economia del Terzo Mondo? Loro dovrebbero accelerare per certe cose, noi dovremmo rallentare per altre. Noi dovremmo rallentare il consumo, non perché il consumo vada demonizzato ma perché sovente riempie un vuoto interiore per cui ci si imbottisce di cose, di consumo. Quindi in generale bisognerebbe vedere dove decelerare. Ai tempi di Marx le donne e i bambini lavoravano 14 ore al giomo, praticamente tutto l'anno. Diventa allora scandaloso che un'umanità, come la nostra, liberata, per tante ore al giomo e per tanti giorni l'anno dal lavoro, usi questo tempo libero per lo stordimento, o per dirla con i sociologi che il tempo liberato dal lavoro sia soltanto tempo libero per il consumo".