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Se un esercizio complesso come quello venatorio tollerasse un giudizio estremamente sintetico si potrebbe dire che la caccia feudale, e così pure quella borghese, in genere contenevano i prelievi di selvaggina entro limiti sostenibili; al di sotto, quindi, della capacità di rinnovazione affidata in esclusiva ai cicli riproduttivi naturali . Ciò non è più avvenuto là dove è stata avviata la cosiddetta caccia democratica.
Mentre la prima forma si fondava sul privilegio della nobiltà, la seconda riposava sulla "essenza dominale" dei proprietari terrieri e sull'assetto fondiario scaturito dalla rivoluzione borghese dell'Ottantanove; di fatto, riservando l'esercizio venatorio alle persone di rango e di fortuna, le due forme limitavano assai il numero dei cacciatori e, anche per effetto della pratica agronomica estensiva e delle tecnologie poco sviluppate di quei tempi, mantenevano il catturato in limiti fisiologici rispetto alle risorse faunistico-selvatiche del territorio.
Quanto alla terza forma strutturale della caccia, quella democratica, non sono mancati autorevoli sostegni alla tesi secondo cui essa non ha mai avuto una congrua sperimentazione, poiché è stata presto sostituita da suoi sviluppi degenerati. Per esempio, e ben a ragione, in Francia a questo proposito si parla di chasse démagogique e/o banale 2. Partendo da queste e altre lezioni, chi scrive dalla metà degli anni '60 utilizza i termini di "pseudocaccia" e "pseudoselvaggina" per caratterizzare i progressivi scadimenti dell'esercizio venatorio e del catturato avvenuti nel nostro Paese 3.
Ovviamente l'estrema semplificazione richiamata all'inizio può venire accettata solo strumentalmente, per facilitare l'esposizione. Basta infatti considerare il rifiuto (almeno in chi ha avuto e conserva autentiche sensibilità umanitarie e sociali) di una caccia riservata ai "prediletti dalle stelle" per darsi conto che la sintesi estrema ha sì valore nell'analisi riguardante la selvaggina intesa come risorsa, ma la trascura sotto il profilo socio-culturale.
Va peraltro considerato che oggi l'accettabilità della caccia è revocata in dubbio sotto ogni cielo, a specchio delle crescenti istanze per il riconoscimento non solo dei diritti degli animali, ma anche di un diritto alla "non caccia" richiesto da gruppi numericamente e socialmente rilevanti di donne e uomini; e che nel nostro Paese il fenomeno ortnai tocca livelli di conflittualità e opportunismo sconosciuti altrove, con ricadute pericolose sulla legislazione e sulla gestione del settore, nonché delle aree particolarmente protette (APP).
La situazione è indubbiamente esasperata e falsata, nello stesso momento, per effetto delle scelte demagogiche e di basso volo portate avanti dai pubblici amministratori e dalle oligarchie dominanti parecchi dei gruppi contrapposti con la complicità o il tacito assenso di tecnici e funzionari a dir poco demotivati. L'esito, soprattutto per quanto riguarda il comparto venatorio, è stato esiziale.
Se si escludono infatti le "riserve di diritto" dell'area nord-orientale, dove è stato mantenuto l'assetto territorializzante codificato da Francesco Giuseppe d'Austria, la nostra caccia in genere ha toccato livelli di banalità tali da rendere gaudiosi gli osservatori francesi sopra indicati.
Per altro verso, e significativamente, soltanto la caccia al cinghiale conferisce un senso costante e diffuso al prelievo venatorio italiano sia per il carattere che assume nella difesa dei coltivi dalle incursioni di questi selvatici (in netta espansione), sia per la conduzione delle relative battute in gruppi organizzati e numericamente consistenti.
La situazione, anche per effetto delle difficoltà d'ordine generale, della babele dei linguaggi nonché del mancato consolidamento di autorità e credibilità conoscitive, direttive e gestionali, è quanto mai critica. Valga, in proposito e per tutto, il tentativo di alimentare nei fronti contrapposti l'idea che tutto andrebbe a posto per i parchi e per la caccia se non sussistessero, rispettivamente, i primi per la seconda e la seconda per i primi. Come se l'ultima tragica verifica, quella della Regione più avanzata in fatto di APP 4 che subisce i dissesti maggiori, non fosse lì a dimostrare che non si tutela il complesso del territorio con le sue frazioni decimali o centesimali erette a parco; oppure individuando, fra le centinaia che vi concorrono, due fattori campione da mettere a confronto in una sorta di Giudizio di Dio risolutore delle controversie epocali.
Stando così le cose, e cercando di portare un contributo (ovviamente riferito al settore considerato e al carattere della rivista) sarà bene ripercorrere celermente le tappe del processo degenerativo che ha preso il posto della caccia democratica nel nostro Paese; quindi, e anche sulla base di tale sintetica rivisitazione, verranno enucleate alcune indicazioni conclusive.
Il primo tentativo di dar vita ad una caccia democratica ha avuto come protagonista lo stesso Robespierre; il quale, a pochi mesi dall'abolizione della regalia 5, chiese ai costituenti repubblicani di estendere il diritto di caccia a coloro che erano sprovvisti di terreno. L'assemblea, sollecitata principalmente da Mirabeau, riconfermò anche in questa materia (allora ben più significativa di quanto non appaia ai nostri giorni) il carattere borghese della Rivoluzione e dei suoi esponenti: il 21 aprile 1790 venne pienamente riconfermato che il diritto di caccia era attributo della proprietà.
Abortito questo tentativo, altri se ne registrarono nei decenni successivi e, si può dire, in tutti i
Paesi ma senza grande fortuna. La tenuta del sistema nato con la Rivoluzione francese venne assicurata soprattutto dall'individualismo e dal concetto totalizzante che si ebbe delle proprietà. Il fatto che il sistema ben funzionasse ai fini del mantenimento di un buon patrimonio di selvaggina non trovò grandi echi tra la "gente felice dei borghesi-cacciatori", né tra coloro che ne difendevano le ragioni nel Parlamento. In ogni caso praticare la caccia, o occuparsene nelle aule universitarie, in tribunale, negli studi e nei salotti, era considerato (al contrario di quanto avviene oggigiorno) cosa onorevole e segno di distinzione; né mancavano le riconferme tranquillizzanti e filistee. Per tutto, e per tutte le antinomie che caratterizzarono la vita e l'opera di Lev Tolstoj - moralista ed egocentrista, cacciatore e pacifista ma, sempre, inarrivabile scrittore - vale la ripetizione di un suo detto: "Solo il cacciatore e il proprietario terriero sentono la bellezza della natura" 6.
Comunque si leggano tali vicende, resta il fatto per cui sia la più stretta legatura della caccia alla proprietà individuale e assoluta dei suoli, sia la struttura delle riserve di diritto mitteleuropee (che valorizzano la solidarietà e il controllo sociale tipico delle ristrette comunità rurali) garantirono nel tempo l'autoriproduzione della risorsa selvaggina e un'accettata cultura della stessa. Anche ai bracconieri, quand'erano gagliardi e fortunati, andavano simpatie, così come ai briganti quando proteggevano (a spese di terzi) le vedove e gli orfani.
Il problema del "minimo giuridico vitale" (per dirla con il De Malafosse) ossia della base territoriale che assicura una tale quantità di selvaggina da dare un senso costante al prelievo venatorio, si pose più tardi e là dove si avviò il processo di "democratizzazione" della caccia. Caduto il vincolo della proprietà e dell'appartenenza alle comunità locali, anche la massa dei senza terra, dei cittadini e degli inurbati poté accedere all'esercizio venatorio, in ciò favorita dai livelli di vita in lenta crescita, dalle prime conquiste in fatto di tempo libero, dall'incremento nell'utilizzo dei mezzi di comunicazione e di trasporto 7.
Come è scontato, la produzione legislativa e gli atti amministrativi accompagnarono a rilento la
dilatazione numerica dei prelevatori di selvaggina; del tutto insolita è stata invece la celerità con cui venivano emanati i decreti che tendevano a saziare, con l'aumento dei balzelli, la perenne ingordigia dell'erario, oppure a placare il rovello di tanti ministri della guerra che, dei classici, ricordavano solo i passi in cui si esaltava la caccia per il suo valore di esercizio premilitare.
L'aumento dei cacciatori italiani, che dalle consolidate 300 mila unità passarono a 400 mila nel primo decennio di questo secolo, intaccò appena quel "minimo vitale di territorio" che appunto garantisce la sostenibilità del prelievo di selvaggina. Cominciarono allora, per iniziativa dei sodalizi venatori più affollati, le pratiche dell'introduzione massiccia di fagiani e le proposizioni delle cosiddette autorità scientifiche che teorizzarono, fra l'altro, i ripopolamenti con galline faraone e lo fofori himalaiani.
La forma borghese della caccia italiana era dunque entrata in crisi strutturale; ma le corti e i cortili trovarono il primo capro espiatorio, manco a dirlo di carattere infrastrutturale e demagogico: la colpa era tutta dell'assetto normativo regionalizzante che era sopravvissuto all'unità d'Italia 8. Significativamente, fu proprio il fascismo a realizzare un modello alternativo alla caccia borghese. Sfruttando il malcontento convogliato contro il perpetuarsi delle leggi venatorie preunitarie, nel 1923 venne perfezionato il testo unificante covato dal Parlamento per oltre cinquant'anni. Con esso si diede piena attuazione al principio della selvaggina considerata "cosa di nessuno" (Res nullius).
Formalmente, tale era la precedente posizione dei selvatici; ma in effetti, prima del '23, essi erano fatti pari a Res propria, poiché i proprietari potevano negare ai cacciatori l'accesso ai loro fondi.
Non è mancato, nel tempo, chi ha presentato la legge del '23 come uno degli esempi del carattere popolare, se non proprio democratizzante, del primo fascismo: nella sostanza il nuovo corso costituì la prima delle tante misure demagogiche che hanno condizionato, e tuttora contribuiscono a rendere banale, la venagione italiana. Prova ne sia che negli ultimi anni '20 il governo emanò, sotto specie di disciplina dell'istituto della riser-
va privata di caccia, una serie di disposizioni che di fatto e con poca spesa riconsegnavano ai grossi proprietari terrieri e ai borghesi emergenti la selvaggina dei migliori territori di battuta.
In ogni caso questa riconsegna, un'evidente ricompensa del fascismo ormai consolidato agli agrari che l'avevano sostenuto, non mandò in crisi i cacciatori che esercitavano nei territori liberi. Infatti la grande depressione di quegli anni e la complessiva arretratezza della nostra società limitavano ancora il numero di coloro che potevano andare a caccia. Per converso la conduzione estensiva dell'agricoltura rendeva particolarmente produttivo il nostro territorio in fatto di selvaggina. Non va dimenticato che sino all'ultimo dopoguerra ogni cacciatore italiano aveva una dotazione pro-indiviso (ettaraggio) di quasi 50 ettari di eccellenti terreni su cui esercitare. Pur indugiando in una pratica venatoria incentrata sul prelievo della selvaggina da campo e della minuta ornitofauna, il cacciatore nostrano era ben lungi dall'incarnierare ogni anno quei 25 chilogrammi di animali cacciabili che costituiscono, in un paesaggio agrario estensivo, la quantità potenzialmente prelevabile in una simile dotazione di territorio.
Insomma, sino ai primi anni '50 il catturato era contenuto entro livelli fisiologici, sostenibili, rispetto alla produttività del territorio.
A partire dagli anni '60 la crescita numerica dei cacciatori si sviluppò a ritmi "patologici". A specchio del benessere accresciuto e dell'estensione del tempo libero e dei mezzi di trasporto
individuali (nonché di altri fattori che non è possibile considerare in questa sede) 9 i cacciatori italiani si aggregarono in un esercito che giunse a contare due milioni di effettivi. Vi erano quindi le condizioni e la necessità di dar luogo ad un assetto autenticamente democratico dell'esercizio venatorio esteso anche ai meno abbienti, che presumeva piena consapevolezza e rispetto del carattere sociale che la nostra Costituzione attribuisce alla proprietà privata.
Le possibilità di prelievo sostenibile per un tale esercito, destinato ad operare su una superficie territoriale ormai sproporzionata per difetto e resa meno produttiva dall'abbandono dei terreni montani e collinari (nonché dalle pratiche agronomiche intensive in quelli migliori) si erano assottigliate a meno di un quarto rispetto a quelle stimate per il periodo tra le due guerre e per l'immediato dopoguerra. A questo punto, volendo temperare il principio della Res nullius, si trattava di offrire pari opportunità a chi avesse scelto di dedicare all'esercizio della caccia il proprio tempo libero, ripartendo in modo equanime le residue, contenute possibilità di prelievo e sostenendo la necessità di incrementare la selvaggina senza farle mancare, attraverso le tecniche dello sviluppo agevolato, il carattere autentico della rusticità. Si trattava di dare, prima di tutto, piena consapevolezza in fatto di cicli naturali, di limiti della quota prelevabile ancora consentiti dal territorio, del "diritto alla non caccia" da parte di chi si poneva di fronte all'esercizio con convincimenti opposti rispetto a quelli del cacciato-
re. Occorreva, in altre parole, considerare la selvaggina come cultura e risorsa e, nello stesso momento, risolvere sul piano della tolleranza e del confronto civile, oltreché democratico, il conflitto con chi intendeva proteggere la selvaggina come parte integrante del paesaggio, o in base alla crescente domanda di un codice dei diritti degli animali.
L'occasione di un riassetto democratico dell'esercizio venatorio nel nostro Paese è stata perduta perché l'opportunismo spietato ha portato alla ribalta i demagoghi e i filistei dell'uno e dell'altro schieramento, e ha ridotto al silenzio, o alla fuga dal settore verso lidi meno conflittuali, gli studiosi, i funzionari ed i tecnici. Per ottenere facili consensi si sono persino negate realtà oggettive: la limitatezza del territorio, la caduta della sua produttività, l'effetto diseducante e rapinatore della selvaggina mantenuta, di fatto, come res nullius - tutto è stato negato o sottaciuto, pur di far prevalere il tornaconto immediato e gli orecchiamenti ideologici.
La più cospicua delle occasioni per un ricupero di democrazia e per avviare la razionalizzazione della materia si ebbe sul finire degli anni '70, quando i dirigenti delle associazioni venatorie utilizzarono il clima consociativo già dominante nel settore per ispirare, scrivere e sottoscrivere la legge-quadro (legge 968/77). Pur contenendo qualche proposito di buona volontà che, se opportunamente sviluppato, avrebbe potuto avviare verso maggiori consapevolezze, la legge partorita in tale occasione riuscì a profilare appena
un nuovo metodo per agevolare la formazione di un patrimonio faunistico-selvatico; ma, favorendo ancora il nomadismo venatorio, di fatto ne consentiva l'annullamento ad ogni nuova stagione di caccia '°.
A controprova del suo totale fallimento sta il fatto che gli stessi padrini della legge 968/77 fossero presto divenuti accesi fautori di una sua riforma e vi si impegnassero a fondo per ottenere aggiustamenti marginali e dichiarazioni di buoni propositi programmatori senza che venissero rimossi i vizi principali.
Non erano quindi necessarie grandi doti di preveggenza per scrivere, due mesi prima dell'approvazione della legge 157/92 che "La nuova legge non riuscirà a risolvere il problema centrale della ricostituzione e del successivo mantenimento di un congruo patrimonio faunistico/selvatico d'interesse venatorio..." poiché "... insiste, con previsioni persino corporative, sulle infrastrutture e mantiene una struttura che non promuove né l'interesse per la fauna selvatica, né la volontà di produrre e tutelare l'autentica selvaggina... La selvaggina non si sviluppa in base alle dichiarazioni dei rappresentanti di enti dalle dotazioni assicurate, ma soltanto se chi opera sul territorio, magari per svolgervi attività di presidio, sa di trarne il profitto sicuro, diretto e proporzionale che gli spetta" ".
Malgrado queste ed altre più autorevoli notazioni, e a dispetto delle chiare lezioni portate dall'esperienza nei Paesi sviluppati, il Parlamento appena defunto ha approvato una legge (la
n. 157/92 appunto) che ripropone i principi fallimentari di tutte le normative che dal 1923 hanno regolato la materia nel nostro territorio, con particolarità addirittura sconfortanti; maggiori balzelli per i cacciatori, in luogo di un loro impegno diretto negli investimenti; applicazioni differenziate e attribuzioni multiple, con intrighi di competenze; sanzioni a volte feroci, ma dai minimi esigui o inesistenti tipiche delle grida spagnolesche e, come queste ultime, ugualmente inefficaci; insomma è proprio quanto serve a mortificare i ligi alle leggi e ad incrementare il clientelismo, la cavillosità e il bracconaggio.
I primi effetti della legge 157/92, specie se rapportati alle indicazioni della legge-quadro sulle aree protette (legge 392/91), rendono ancora più pessimistiche le previsioni allora formulate.
Metà delle Regioni non hanno recepito nei termini assegnati la legge dello Stato; di questa, si danno letture controverse, sia a livello di proposta che di controllo, mentre si ripetono le invocazioni per un rinvio nell'attuazione; nel frattempo, e ancor più significativi perché generalizzati, profondi sospiri di sollievo accompagnano ogni tentativo riuscito di passare ad altri l'amaro calice delle determinazioni programmatorie. L'opportunismo alimenta, si può dire ogni giorno, la confusione e gli sprazzi d'umor nero. Per quanto riguarda il nuovo rapporto con le APP, vanno registrate almeno tre posizioni.
Vi è chi continua a difendere i capisaldi che credeva di aver stabilmente occupato in base al fideistico convincimento - o alla presunzione - secondo cui la mortificazione dei cacciatori val bene una violazione delle leggi: tal è la posizione di chi ha eretto APP fino ad intaccare la quota del 70% da destinare ai terreni di caccia. Vi si aggiungono coloro che, cercando di scardinare l'intero sistema delineato dalla legislazione vigente (in particolare, dalla legge 142/90) hanno puntato a sottrarre funzioni alla Provincia che, in materia di caccia, è l'unico ente a mantenere una certa credibilità e capacità gestionale. Invece di promuovere presso questo e gli altri enti competenti una conduzione faunistica rispettosa della valenza e qualità dei territori di comune interesse, molti operatori delle APP tentano di farsi attribuire le funzioni stesse. Come se nei parchi non vi fossero già troppe gatte da pelare.
Su posizione diametralmente opposta, ma animati da un corrispondente impulso fideistico, sono molti gruppi di cacciatori (o, meglio, troviamo i loro demagogici fomentatori) che propugnano l'esercizio venatorio all'interno delle APP. Può essere utile ricordare in proposito che la questione si riteneva superata da almeno tre decenni, anche sulla base di una pronuncia della Cassazione secondo la quale il divieto di caccia, quando rientra fra i vincoli speciali per la conservazione delle bellezze naturali, non è norma venatoria.
Ondeggia tra le due posizioni il folto gruppo degli opportunisti che tentano l'ulteriore fuga in avanti rispetto alle loro responsabilità e, ancora una volta, cercano di mangiare i frutti del mal di tutti. Vi rientrano, a pieno titolo, coloro che avevano scritto e sottoscritto in prima persona le norme fallimentari della legge-quadro, quindi chiesto e ottenuto di essere riformati in questa loro produzione. Vi è da sperare che lo siano anche per altri versi e, collocati a riposo, cessino di condurre le loro schiere nella serie perenne delle sconfitte.
Anche la nuova legge faunistico-venatoria mostra dunque i segni preannunciati del fallimento. E poiché l'esperienza insegna che le sole strutture funzionanti in materia di caccia comportano o la stretta legatura di un cacciatore a un solo comparto territoriale da gestire come riserva sociale, oppure il ripristino dello jusprohibendi, per chi scrive ormai si tratta di bere quest'ultimo, unico e amarissimo calice. Altro non rimane poiché le ripetute furberie hanno logorato e reso improponibile l'assetto alternativo. Quando si tenta di nascondere che abbiamo sì e no un terzo della base territoriale necessaria, oppure si creano ambiti di caccia di 50 mila ettari o, ancora, si tenta di ripristinare la caccia ai fringuilli di, è chiaro che si impedisce di dare consapevolezza, che si vogliono perpetuare le rapine del nomadismo venatorio e che per raccattare un chilo di uccelletti stracciati si vuole ancora autorizzare lo spargimento di due chili di piombo. I propugnatori della caccia programmata non sono più credibili.
Certamente il ripristino della facoltà dei proprietari di vietare l'accesso ai loro fondi porrà problemi di ardua risoluzione: si pensi, per tutti, alla sua applicazione delle APP; alle feroci dispute negli organi direttivi dei moltissimi enti pubblici e privati quando si tratterà di aprire, o no, i
loro demani o patrimoni fondiari alla caccia; al tentativo di mercificare non solo la selvaggina stanziale ma anche quella migratoria, che sicuramente non è frutto del suolo che solo momentaneamente la ospita; alla fragilità dei nostri ambienti in rapporto alle accese conflittualità; e così via, per tanti temi di pari valenza e difficoltà. Ma il ripristino porterà pure a momenti di verità e di scelta, nonché l'occasione per definire su base semplice e di provata efficacia alcune situazioni oggi insostenibili.
Il divieto d'accesso per fini venatori potrà infatti consentire a chi ne abbia convinzione di vietare la caccia nei propri terreni e, nello stesso momento, di verificare direttamente le conseguenze del mancato prelievo; e certamente grandi problemi deriveranno dall'estremo frazionamento della proprietà fondiaria; ma non si vede, nelle condizioni date, un'altra base oggettiva capace di assicurare il diritto alla "caccia" e quello alla "non-caccia" reclamati dai gruppi contrapposti: finalmente ciascuno potrà far valere i propri convincimenti mettendo una mano sulla coscienza e l'altra al portafoglio.
L'indiretta privatizzazione di un patrimonio faunistico-stanziale 12 con autentico carattere di rusticità (che può essere ottenuto soltanto col riequilibrio del paesaggio agrario nonché col ricorso ad agrotecniche e interventi di sostegno biologici) fornirebbe inoltre gli stimoli e le risorse occorrenti per sostenere il passaggio verso un'agricoltura compatibile e un conseguente aumento delle occasioni di occupazione nel settore primario 13, senza dover sottostare alle incerte previsioni dei bilanci pubblici.
A questo punto i fautori del nomadismo venatorio si stracceranno le vesti gridando che le notazioni sopraddette favoriscono il tradimento di quella funzione sociale attribuita dalla nostra Costituzione alla proprietà privata; e fingeranno di non sapere che il peggior servizio reso a un bel progetto è quello di realizzarlo male.
Quando per ottenere facili consensi i sedicenti democratici ricorrevano alla demagogia e occultavano le testimonianze dei fatti, in sostanza aiutavano i possidenti e mandavano i meno fortunati a farsi portar via dal diavolo. Insomma, per dirla coi latini, oggi altro non rimane se non propria alicui munera facere, fare qualcuno proprietario di quanto gli si è già regalato.
NOTE:
1. Va tenuto presente che le sistemazioni scaturite dalla Rivoluzione francese pur valorizzando diverse formulazioni (selvaggina intesa come Res propria, oppure come Res nullius ma temperata dallo Jus prohibendi; riserve comunali, o di comunità locali, o private, o sociali) di fatto consideravano i selvatici come un frutto del suolo che li ospitava, quindi ne assegnavano la cura e lo sfruttamento esclusivo o al proprietario terriero, o alle associazioni dei cacciatori locali, oppure a ben delimitati gruppi di gestione sociale. Questa sistemazione sostanzialmente permane (almeno per quanto riguarda la selvaggina stanziale) nei Paesi dell'area mitteleuropea nei rimanenti dell'ex blocco sovietico, negli Stati Uniti; ed è oggettivo riconoscere che coincide con le migliori situazioni faunistico-selvatiche.
Si può soltanto aggiungere che, laddove è stata avviata la forrna democratica (che estendeva ai non proprietari il diritto alla caccia, e limitava progressivamente il concetto di riserva privata o sociale), il peggioramento è, al-
meno in gran parte, da attribuire alla degenerazione demagogica, all'opportunismo di tanti addetti, alle esigenze immediate e incontrollate del mercato o dei piani, che hanno portato al nomadismo venatorio e ad un incremento nel numero dei cacciatori dilatato rispetto alle capacità produttive del territorio in fatto di selvaggina.
2.Per tutti, può vedersi: De Malafosse J.,Droifdelachasse et protection de la nature, Presse Universitaire de France, Paris 1979. L'opera si qualifica in sé, ma anche per l'abbondanza dei richiami ad autori e fatti di "orientamento" diverso rispetto al De Malafosse.
3. Un richiamo paradigmatico può trovarsi in: Bassilana F., La caccia in Italia. Un paradosso nel panorama venatorio internazionale, Edit. Riuniti, Roma 1988.
4. Sanno le stelle quanto sarebbe stato caro rinunciare all'esempio del Piemonte "parchista" e disastrato per introdurre questa nota metodologica che potrebbe apparire come un vanto per il senno di prima. Ma se della tragedia dobbiamo utilizzare almeno la lezione, perché non riconoscere finalmente che in ogni sede - dalle sinossi ai titoli delle leggi - va utilizzata l'espressione "aree particolarmente protette" per designare i parchi, le riserve, le oasi? Anche se nominalmente, la locuzione "aree protette" può far ritenere che il restante territorio non vada tutelato, ma resti terra di conquista per i saccheggiatori. 5. Con il termine regalìa, a partire dal Medioevo, si indicavano le prerogative della sovranità, tra le quali rientrava la selvaggina e il diritto di cacciarla, nonché di estendere ad altri (nobiltà, ma anche comunità ecclesiastiche o civili) tali privilegi. La frequenza con cui, anche in assenza di servigi resi alla corona, le prerogative erano graziosamente estese ha fatto utilizzare il termine con diversa accentuazione; regalìa, ovvero doni del sovrano. 6. La produzione saggistica e letteraria degli scrittori russi dell'Ottocento - in particolare di Aksakov, Turgeniev e Tolstoj - è stata analizzata in: Bassilana F., La caccia in Russia, edit.le Olimpia, Firenze 1974.
7. Va ricordato che le ferrovie dello Stato praticavano una riduzione nel prezzo dei biglietti a favore dei cacciatori che portavano con sé i cani.
8.Nel nostro Paese la caccia era regolata dall'art.712 del codice civile del 1865 (che sanciva lo jus prohibendi), da norme omogenee di polizia, nonché da dieci gruppi di normative diverse, a loro volta articolate in oltre cinquanta varianti provinciali e locali.
9. Circa le motivazioni dei cacciatori, può vedersi: F. Perussia, il comportamento venatorio. Aspetti psicologici e sociali del cacciare, Quaderni del T.C.I. n. 1, Milano 1981. Può anche vedersi: AA.VV., Ecologia e caccia, atti del convegno omonimo, Ed. Riuniti, Roma 1974.
10. Per le ragioni del fallimento della legge 968/77, può vedersi il Manuale dell'operatore faunistico venatorio, Ed. Bertacchi, Milano 1992, pagg. 28/31.
11. Può vedersi, inproposito, l'articolo-purtroppo osteggiato dal redattore settoriale e uscito malconcio nella stampa - "Aumentano i balzelli ma non i selvatici" apparso sul Notiziario di caccia, pesca e tiro a volo, n. 48 del 28/11/1991, Bologna.
12. Vi è da ritenere che per i selvatici migratori si renderà operante una speciale collocazione (in parallelo con quanto attuato negli USA dopo la svolta protezionistico/pragmatica del 1916) anche in omaggio al carattere sovranazionale delle relative popolazioni.
13. Come era già capitato di scrivere, quando un assetto della caccia per comparti o riserve sociali appariva ancora possibile ed auspicabile, "...La privatizzazione della fauna selvatica, legando alla proprietà un valore attualmente estraneo (anzi, in forza di quanto dispone l'art. 842 del codice civile, fonte di una servitù a carico della medesima) assegnerebbe ai fondi un potenziale reddito aggiuntivo... La privatizzazione, fra l'altro, potrebbe rendere appetibili molti degli ex coltivi che oggi versano in stato di abbandono, vivacizzarne il mercato e la richiesta di affittanza o concessione; e non solo specifica, cioè legata alla caccia, ma anche foriera di utilizzazioni maggiori. Il reddito aggiuntivo contribuirebbe infatti a ridurre le tare della gestione, mentre introdurrebbe un motivo di interesse non solo economico, ma apprezzabile anche sotto il profilo dell' "affezione". Tutto ciò potrebbe aprire un mercato oggi pressoché chiuso: ma, cosa ben più importante, riproporrebbe in scala maggiore il tema della riutilizzazione dei poderi abbandonati dall'esodo rurale, e quello delle attività produttive compatibili, come l'allevamento allo stato brado e per le carni alternative. E' un'ipotesi già affiorata per bocca di operatori agricoli e anche di organizzatori non sospetti di eccessivo afflato privatistico. Inoltre, in omaggio al documento del Consiglio d'Europa, ci integrerebbe maggiormente nel vecchio continente...". Bassilana F., La caccia in Italia.. . cit., Roma 1988.
* Direttore di APP Parco naturale del Fiume Sile |