Federparchi
Federazione Italiana Parchi e Riserve Naturali


PARCHI
Rivista del Coordinamento Nazionale dei Parchi e delle Riserve Naturali
NUMERO 15 - GIUGNO 1995


Le economie del parco
di Anna Natali *

La ragione per cui è opportuno parlare al plurale di economie di parco può essere illustrata e spiegata in vari modi. Il modo più immediato è probabilmente fare riferimento alla molteplicità delle esperienze di parchi istituiti in Europa: dai parchi nazionali e regionali di Francia; ai parchi naturali, le zone di protezione della natura, le riserve della biosfera della Germania; ai parchi nazionali, le aree di rilevante bellezza naturale, i country parks del Regno Unito; ai parchi nazionali e regionali italiani. Questi casi rappresentano infatti modi diversi di intendere il ruolo del parco e di definire la connessione tra protezione della natura ed economia.
Le principali differenze tra i tipi di parco sopra citati sono, a grandi linee, note. Il parco naturale tedesco si preoccupa soprattutto di organizzare e offrire al pubblico spazi e servizi per la ricreazione, il tempo libero, la fruizione della natura e del paesaggio. Il parco regionale francese è molto attento alle esigenze di sviluppo delle comunità locali e alla creazione di nuove opportunità economiche legate alla tutela del paesaggio e della cultura locale. Il parco nazionale francese si occupa soprattutto di conservazione e, almeno sulla carta, tenta di orientare le economie locali verso una maggiore compatibilità. I parchi nazionali e regionali italiani dividono il proprio impegno tra la conservazione e la fruizione. Le riserve della biosfera tedesche sono volte soprattutto a progettare e favorire lo sviluppo di attività produttive sostenibili.
Una pluralità di modelli si manifesta non solo nel passare da Paese a Paese, ma anche all'interno di un solo Paese. Questo tuttavia non è sempre vero. E' particolarmente evidente in Francia, nel confronto tra parchi nazionali e parchi regionali, o in Germania nel confronto tra parchi naturali e altri tipi di aree protette; mentre è ancora lontano dall'essere realizzato in Italia o in Spagna.
Se si considera la Francia o la Germania - Paesi all'interno dei quali coesistono parchi dai diversi profili - si può constatare che la varietà dei modelli di parco dipende non solo dalle particolarità nazionali, ma anche dai caratteri del territorio. Non solo esiste una concezione di parco alla tedesca o alla francese legata a definiti atteggiamenti culturali nei confronti della natura o del paesaggio e alle particolarità istituzionali che distinguono un Paese dall'altro, ma esistono più modelli di parco all'interno della Germania e all'interno della Francia. Ciò che determina l'emergere di un modello o di un altro sembrano essere, appunto, i caratteri di area. Vi sono luoghi in cui è presente una forte domanda sociale di riposo, di fruizione della natura e di ricreazione; altri luoghi in cui prevale una domanda di animazione, sviluppo, rafforzamento dei legami sociali e della capacità di produrre. A questi due tipi di situazioni, così disomogenee tra loro, ci si sforza di rendere sensibili i parchi. Il parco vicino alla grande città persegue obiettivi diversi dal parco che condivide con scarse comunità rurali il problema di una rivitalizzazione sociale ed economica.
Se si considerano invece l'Italia o la Spagna, Paesi all'interno dei quali prevale sostanzialmente un solo profilo di parco - un parco polivalente che si occupa sia di conservazione sia di fruizione sia, in modo assai meno efficace, di sviluppo - non emerge una sensibile varietà di modelli. Le esperienze tendono ad assomigliarsi, non a differenziarsi. I caratteri di area esercitano sul parco un'influenza minore.
Naturalmente non esercitano davvero un'influenza minore, poiché la struttura economica, l'organizzazione sociale, la cultura, lo stile di governo locale, la storia, le relazioni consolidate sul territorio - tutti elementi che caratterizzano un'area e la distinguono da altre aree - rappresentano un blocco di identificazione molto più forte del parco. Ma di questo non si ha traccia sul piano istituzionale. Il parco - che è un'istituzione, e come ogni istituzione si regge su un sistema di regole di riferimento, principi e criteri di azione - non specifica queste regole in relazione ai ca-
ratteri di area, ma le mantiene a un livello generale. Se Francia e Germania hanno già imboccato la strada di rendere sensibili i parchi a certi caratteri del territorio, Italia e Spagna sono ancora lontane da un indirizzo di questo tipo.
Non potranno però starne lontane a lungo, o, almeno, non è consigliabile che lo facciano. Il modello alternativo è infatti convincente. Esso suggerisce che per proteggere e gestire bene i parchi occorre in qualche misura dimenticarsi di stare in un parco, per considerare in modo diretto l'area che sta dentro e intorno. Occorre ricordarsi costantemente del parco per quanto riguarda l'esigenza fondamentale di tutela, ma dimenticarsene per quanto riguarda la costruzione di regole di governo efficaci e la promozione di attività economiche efficienti. Questi aspetti infatti sono considerati nel modo giusto se si capisce come nascono e si strutturano dal basso, come si legano con le risorse locali, con la storia e la vita delle comunità, con le tradizioni produttive e di gestione del territorio, con la rete delle relazioni tra centro e centro. La lezione da apprendere è che il parco deve saper vedere il territorio e saper interagire con la società locale. Il fatto di essere parco non lo esime dal manifestare intelligenza delle relazioni territoriali e dei rapporti sociali.
Ma l'opportunità di avviare anche nel nostro Paese esperienze di maggiore articolazione del ruolo dei parchi, e di costruzione di diverse economie di parco, può essere sostenuta con argomenti anche più concreti. Si può per esempio ragionare su quello che significa per un parco agire in aree marginali, e quanto lontani siano i modelli di comportamento più efficaci in questo caso da quelli utili in aree invece più antropizzate, non marginali ma soggette a robuste spinte delle forze di mercato. Si può considerare quali diverse competenze e capacità debba sviluppare un parco in un caso e nell'altro, quali diversi problemi e difficoltà debba affrontare, quali programmi di azione debba mettere a punto.
Procedere per casi ed esempi è quanto ci si propone di fare nelle pagine che seguono. In particolare si distinguono due situazioni:

  • la situazione cui ha inteso dare risposta quel particolare modello di parco che è il parco regionale francese: spopolamento, marginalità economica, allentamento dei legami sociali, relativo isolamento territoriale;
  • la situazione cui ha inteso dare risposta quel particolare modello di parco che è il parco naturale tedesco: prossimità ad aree urbane, una importante domanda locale di riposo, natura, sport, ricreazione e servizi per il tempo libero.

Aree a economia marginale
Moltissime aree parco sono aree deboli: con una popolazione esigua e invecchiata, un'economia marginale, attività produttive tradizionali che non riescono a uscire dal mercato locale e ripiegano su se stesse. In questi casi, è essenziale una azione tendente a restituire un ruolo all'area, a individuare una nuova vocazione produttiva, a stabilire fiducia per questo ruolo e questa vocazione. Occorre cioè lavorare molto a fini di animazione, comunicazione, coinvolgimento dei soggetti locali intorno a un progetto.
Per svolgere un ruolo di animazione di questo tipo, il parco ha bisogno di competenze e di capacità particolari. Si possono distinguere quattro tipi di competenze, procedendo nell'ordine dalla più ovvia alla meno ovvia:

  • a) una competenza naturalistica. Essa è finalizzata alla conservazione ma non solo: anche al recupero e al miglioramento di ambienti degradati, al mantenimento di aree che sono state soggette a lungo a una forte pressione antropica e poi sono state abbandonate, con squilibri e danni ingenti (vale la pena ricordare per inciso che in Italia non solo la montagna appenninica ha perso metà della popolazione dopo il 1950, ma che questo è accaduto dopo il periodo di ripopolamento intenso dell'Ottocento. Le conseguenze dell'abbandono sono state da questo amplificate). Si tratta perciò di una conseguenza complessa, che comporta conoscenza degli ecosistemi e della loro carrying capacity, e insieme conoscenza dei principi e delle tecniche di ingegneria naturalistica;
  • b) una competenza economica. Di norma le aree deboli mancano della capacità di valutare quali opportunità di mercato siano aperte ai propri prodotti tradizionali, o ad altri la cui produzione sarebbe compatibile con la tutela. Occorre dunque lavorare per indicare quali sono gli sbocchi possibili o convenienti, sia per i prodotti turistici, sia per quelli agricoli e artigianali: come si fa a confezionare un prodotto che possa accedere con
    successo al mercato o a prendere contatto con gli operatori che interessano; quali relazioni vanno perseguite e coltivate; o, più in generale, quale strategia convenga scegliere per marcare la specificità e l'identità produttiva dell'area, e renderla così più visibile.
    Sin qui le competenze legate a un sapere codificato: il sapere degli esperti, e dei professionisti, chiamati volta a volta a giudicare come va gestito un bosco, quale intervento è più opportuno per stabilizzare un versante, quale prodotto tradizionale convenga privilegiare, o quale segmento del mercato turistico vada scelto. Ma poi - procedendo dalle cose più ovvie a quelle meno ovvie - servono le competenze legate a un sapere locale o contestuale;
  • c) le competenze che consistono nell'approfondita conoscenza dell'area; della sua base sociale, della sua cultura e della sua struttura produttiva, dei rapporti tra le istituzioni, del ruolo degli enti locali, della capacità di intervento dei diversi soggetti pubblici e privati, del grado di omogeneità degli interessi locali, e così via. Sono competenze non codificate, che l'università non insegna, e che non è possibile acquistare sul mercato delle consulenze. Esse si formano solo attraverso una lunga e attenta frequentazione diretta dell'area. La loro importanza è decisiva: consentono di proporre e progettare le cose giuste, che la gente può capire e gli imprenditori locali sono disposti a sostenere; le cose per le quali l'area, nel suo insieme, è in grado di esprimere adesione e consenso.
    Infine, ci sono le competenze e le capacità meno ovvie e più difficili, quelle che si formano nello spazio tra sapere codificato e sapere locale;
  • d) l'ultima competenza è infatti quella che sa collegare il sapere codificato col sapere locale, e, mettendoli in comunicazione tra loro, stabilisce in questo modo le premesse perché l'area esca dalla staticità della sua condizione marginale, e si metta a produrre nuova cultura e nuove competenze: sul piano della gestione del territorio, dell'uso delle risorse, dello sviluppo. Non è difficile individuare casi di parchi (o di aree candidate a diventarlo) in cui si percepisce con chiarezza la necessità di un incontro tra sapere codificato e sapere locale. Per esempio nel Gennargentu è certamente importante che si stabilisca un rapporto tra il sapere codificato, circa le condizioni di conservazione dei boschi e dei pascoli, e il sapere che si è consolidato nel tempo circa il corretto uso della terra. L'uso delle risorse infatti resta spesso governato dalla tradizione, o legato a elementi culturali ancora molto vivi che possono ingigantire o deformare certe norme di tutela. Se non c'è comunicazione e saldatura tra i due saperi, può accadere che un bosco di ginepro molto vecchio e di lentissima formazione e dunque di valore estremo per il parco - venga tagliato solo per affermare la sovranità della comunità locale sul proprio territorio, contro ogni autorità esterna.
    Ma l'incontro tra i due saperi non serve solo o principalmente per evitare attriti e aumentare la fiducia: serve soprattutto, come si è detto, per creare nuova cultura. Un esempio importante e positivo è, sempre in Sardegna, l'attività di Isola, l'ente regionale di sviluppo dell'artigianato tradizionale e artistico. Nel tessile, Isola ha basato la propria azione sullo studio e sul rispetto per i disegni, le simbologie, gli stilemi della produzione tradizionale, e sulla introduzione di formati e colori adatti al gusto moderno. Questo esempio spiega bene che non si tratta di stratificare una competenza sull'altra, o di trovare onorevoli mediazioni, ma di produrre qualcosa di terzo, di originale. Il significato profondo dell'operazione è che la tradizione esce dal folklore e si rimette in moto, la cultura dell'area ritorna vitale, torna a evolversi, a produrre, a raggiungere i mercati. Gli oggetti che produce cessano di sopravvivere nelle fiere di Paese e nei musei, per rientrare nelle case, essere utili, essere usati.
    L'incontro tra sapere codificato e sapere locale è importante in molti altri casi, e molti altri esempi potrebbero essere fatti. C'è sempre una conoscenza situata, particolare, con la quale entrare in relazione, e un mondo di valori, istituzioni e regole non scritte che hanno un peso. Ed è importante tenere presente che questo incontro è spesso un aiuto per recuperare, riscoprire, e ridare un ruolo al sapere locale. Si pensi per esempio ai casi in cui il parco fa costruire le case secondo le forme e le tecniche tradizionali; o fornisce le competenze perché certi caratteri del paesaggio siano rispettati e riprodotti. In questo senso il parco può contribuire in modo importante a recuperare un sapere locale indebolito, e incapace da solo di resistere all'omologazione culturale.

Aree nell'influenza di città
Non tutte le aree già istituite a parco o candidate a diventarlo riguardano territori in condizioni di forte marginalità economica e sociale. Vi sono anche casi diversi: di aree che, per quanto deboli economicamente e socialmente al loro interno, non possono dirsi isolate né marginali, perché appartenenti a sistemi territoriali in forte movimento, in cui anch'esse si trovano coinvolte e trascinate.
Un esempio eloquente di questa condizione è quello delle aree montane che chiudono a sud la pianura padana: aree che hanno perduto tra gli anni '50 e '60 quasi la metà dei residenti e presentano oggi una struttura demografica debole; si reggono essenzialmente sull'agricoltura e sul terziario di base e hanno consistenti problemi di capacità imprenditoriale; ma, al tempo stesso, stanno al limitare di una collina e una pianura che in pochi decenni hanno visto realizzarsi una rapida crescita industriale e una consistente diffusione urbana.
Le dinamiche che hanno preso forma all'interno di questa collina e di questa pianura non hanno lasciato estranea la montagna emiliana, ma hanno sviluppato sollecitazioni e pressioni che oggi, in modo non uniforme e non omogeneo, tendono a investirla in misura via via più consistente.
Il contesto territoriale, di cui la pianura emiliana è esempio e caso significativo, viene denotato nel linguaggio dell'economia regionale come contesto con forti elementi di indifferenza localizzativa. Significa che nel territorio al posto di una forte struttura gerarchica tra i centri, che rende sensibilmente diverso per un'impresa situarsi vicino o lontano dal centro che sta al vertice della gerarchia, si afferma una struttura reticolare che distribuisce su una pluralità di centri un gran numero di funzioni immediatamente rilevanti per la produzione, così che per un'impresa diventa grosso modo equivalente insediarsi in un punto o in un altro della rete.
L'evoluzione che si è determinata a partire dagli anni '70 lungo la via Emilia e nelle fasce collinari e di bassa pianura delle province centrali della regione, risponde largamente a questo modello, e ha indotto la Regione Emilia-Romagna a parlare, nei propri documenti programmatici, di "sistema metropolitano policentrico" da governare e guidare nelle sue specifiche potenzialità e nei suoi limiti. Il modello dell'indifferenza localizzativa, là dove si afferma, ridefinisce il rapporto tra centro e periferia nell'ambito della struttura urbana, e insieme tende a ridisegnare le relazioni tra il tessuto urbanizzato e il suo intorno. Sono principalmente due gli elementi che, al riguardo, svolgono un ruolo:

  • il primo è che la struttura reticolare, nel distribuire le funzioni già concentrate nel centro urbano principale su una pluralità di centri intermedi, sollecita questi centri a definire e specificare il proprio posto nella rete puntando a una specializzazione;
  • il secondo è che all'interno della struttura urbana reticolare, in cui i vari tipi di attività produttive si distribuiscono e diffondono invece di restare addensate, si produce un effetto di banalizzazione del territorio, un mescolamento dei segni e un appiattimento delle identità paesaggistiche.
    Occorre notare che gli effetti di specializzazione e quelli di banalizzazione formano un mix contraddittorio: da un lato ogni città, ogni area, ogni nodo della rete è indotto a cercare la propria affermazione nei termini di uno sforzo di particolare qualificazione e distinzione; dall'altro, il processo stesso che ha permesso a ogni città e ogni area di entrare in un gioco complesso di competizione con alre città ed altre aree, moltiplicando il numero di soggetti e infittendo l'intreccio delle relazioni, consegna a questi nuovi protagonisti della competizione economica un territorio scarsamente differenziato e banale, che poco serve a creare distinzione. Questa contraddizione non è di poco conto, perché la qualità del territorio - in una società sempre più terziaria, in cui il grado di sviluppo dipende dalla presenza di personale qualificato, di attività di ricerca, di produzione di tecnologie, di formazione di altro livello, e così via - non è certo l'ultima o la più piccola freccia che un'area abbia al suo arco, per emergere tra le altre e candidarsi a richiamare ed ospitare attività di rilievo.
    La ricerca della qualità territoriale diventa così, per ogni pezzo del sistema urbano, una sfida assai difficile da cogliere senza varcare i confini del sistema urbano, ricco e banale. Uno degli effetti è che le aree già marginali, già tagliate fuori dai processi di trasformazione, già irrilevantiper tutti tranne che per i residenti, acquistano, per essere restate estranee alla banalizzazione, nuova importanza e nuovo significato. Possono essere fasce fluviali che ritornano alla città con funzioni ricreative, dopo essere state a lungo separate quale luogo di cava o, peggio, di discarica; aree di pianura improduttiva recuperate a verde o a zona umida per richiamarvi gli uccelli e stabilirvi itinerari, attività didattiche, attività sportive; aree collinari già sfruttate e disboscate, poi soggette ad abbandono, che ritornano a una loro peculiare qualità paesaggistica, a beneficio di chi risiede non lontano; o infine aree di montagna, più periferiche rispetto alla rete urbana, che specializzano un ruolo di bacino di tutela dei valori ambientali più elevati, da trattare con cura e a cui accedere con particolare rispetto.
    Quanto ora descritto naturalmente indica solo una tendenza potenziale, e come ogni potenzialità nasconde sia opportunità sia pericoli. La sfida va colta sul piano progettuale, senza che sia possibile decidere a priori né un buono nè un cattivo esito. L'elemento di partenza, tuttavia, è tale da suscitare un'attenzione positiva in tutti coloro che hanno a cuore le sorti dei valori ambientali; perché si hanno, nel processo descritto, i segni di un cambiamento non estemporaneo ma di lungo respiro, e perché questo cambiamento ha il senso di rimettere in connessione la natura e il paesaggio con forti interessi sociali.
    Infatti, nei casi in cui la qualità del territorio tende a diventare componente di un sistema di città, ed essere percepita rilevante per la qualità di quello stesso sistema - come è importante la qualità della residenza, della produzione industriale, della formazione, della cultura, dei trasporti, della sanità e degli altri tipi di servizi - le parti poco urbanizzate o con forti tratti di naturalità assumono un ruolo che non è più né marginale né residuale.
    Occuparsi della tutela, della manutenzione e del ripristino di quelle aree non interessa più né solo un pubblico specializzato o particolarmente motivato, né solo i residenti, ma diventa un'esigenza e un obiettivo di tutto il sistema. Il danno che fa la discarica abusiva nel bosco o sul greto di un fiume, diventa così simile al danno che fa un centro storico intasato, un ospedale mal funzionante, una università scadente. La comunità né è investita in modo assai più compatto e diretto, e le forze che sono indotte a mobilitarsi sono assai più consistenti.
    Perciò, in quanto le tendenze accennate abbiano già vigore, è certo compito di un parco che vi si trovi coinvolto prenderne consapevolezza per governarle. In quanto stiano appena per emergere, è forse compito del parco agire perché si rafforzino e dispieghino i loro effetti positivi. In un caso e nell'altro, è del tutto evidente che l'orizzonte di azione adatto alle aree isolate - l'animazione locale, la paziente cura delle risorse umane, la sollecitazione e lo stimolo all'aggregazione e al progetto - risulterebbe in questo contesto decisamente fuori tempo. Esso non perderebbe la sua utilità, ma il vero cuore dell'attività del parco si giocherebbe ormai tutta sul filo delle relazioni tra centro e periferia.

 

Dallo straordinario all'ordinario
I casi discussi lasciano ritenere che il parco sia destinato a perdere in futuro la sua aura di istituzione straordinaria, e a cercare invece più solida cittadinanza tra le istituzioni che regolano la vita ordinaria delle comunità.
Il profilo del parco straordinario può essere così descritto: protegge un'area particolare in ragione dei particolari valori che essa contiene, stabilisce norme che garantiscono la riproduzione di quei valori, provvede alla gestione tenendo in considerazione gli equilibri interni all'area, e, in generale, imposta tutta la sua attività come attività di un'istituzione speciale per un territorio speciale. Il parco coltiva l'intento e il desiderio di incubare modelli di gestione a cui tutti possano fare riferimento e di cui tutti si possano avvantaggiare. Il parco si autorappresenta come luogo in cui si realizza e si mostra ciò che all'esterno è ancora impossibile, il riscatto da contraddizioni strutturali: la produzione di ricchezza a prezzo della distruzione dell'ambiente, il benessere materiale a prezzo della perdita d'identità culturale.
Il profilo del parco ordinario può essere invece descritto come segue: è in qualche misura un territorio speciale, ma questo essere speciale assume contenuti specifici in relazione alle esigenze di un contesto sociale ed economico volta a volta diverso. E' questo contesto che richiede ilparco, lo modella, lo controlla, lo utilizza e se ne fregia. Un parco vicino a grandi centri urbani, ad aree intensamente industrializzate, dense di infrastrutture e povere di verde, non persegue la tutela per la tutela - affinché le generazioni future possano conservare le disponibilità di quelle risorse - ma per offrire alla popolazione di quel bacino uno spazio di vita; e non si limita alla tutela, ma organizza gran pare della propria attività intomo alla costruzione di un'offerta efficiente, capace di soddisfare grandi numeri di fruitori senza danno per le risorse.
D'altra parte, il parco istituito lontano dalle città e dalle aree industrializzate, in un ambiente rurale che ha perso popolazione, reddito, competenze e capacità di progetto, e ospita oggi comunità locali alla ricerca di una propria via di sviluppo dignitoso, non persegue la tutela per la tutela ma per spingere il territorio a riconoscere nella qualità ambientale la carta più appropriata per rimettere in piedi l'economia locale; e perciò non si limita alla tutela, ma svolge attività di animazione, promozione, sollecitazione delle energie locali, rafforzamento di legami con l'esterno.
In Italia i parchi non sono ancora pienamente entrati nel regno dell'ordinario. Se l'avessero fatto, avremmo parchi fluviali, alle porte delle nostre città, impegnati a offrire natura, riposo, ricreazione, sport; avremmo parchi montani e costieri occupati a lavorare con i Comuni e con le imprese locali intomo a progetti di turismo compatibile; avremmo infine parchi di crinale o di alta montagna, ove la popolazione è quasi assente, dedicati alla missione di proteggere e curare gli ambienti ad essi affidati per la scienza, la ricerca e la visita naturalistica. In ognuno di questi casi il principio della tutela resterebbe al cuore del parco, ma oltre al cuore il parco avrebbe anche un corpo e una capacità di esprimere un ruolo nella storia del territorio.
L'emergere di una articolazione simile avrebbe un significato, credo, importante e positivo: il formarsi di connessioni originali tra le attese, le richieste e le aspirazioni di ciascuna area con la scelta di tutela e di qualità dell'ambiente. Man mano che queste connessioni verrebbero a stabilirsi, il parco potrebbe smettere i panni di esperienza eccezionale per collocarsi nella dimensione quotidiana del governo delle risorse e dello sviluppo locale.

Nota bibliografica
I diversi modelli di parco rappresentati in Europa sono oggetto di uno studio, attualmente in corso, che Eco & Eco sta svolgendo per conto di Nomisma su commessa della Regione Emilia-Romagna. Lo studio ha per ora prodotto due rapporti intermedi, dal titolo Il parco imprenditore. Esperienze in Spagna, Francia, Germania e Regno Unito (luglio 1994), e Il parco imprenditore. Casidi studio (dicembre 1994).
Sul ruolo del parco nelle aree marginali, economicamente deboli o di bassa coesione sociale, ho già scritto per Parchi nel numero di febbraio 1994. Il contributo derivava da un rapporto di ricerca elaborato da Eco & Eco per la Provincia di Ferrara nel 1993. Il rapporto, Struttura e funzioni dell'ente parco del delta del Po, era articolato in due relazioni: una dedicata agli aspetti economici, firmata da Sebastiano Brusco e da me; una dedicata agli aspetti giuridici, firmata da Marco Cammelli e Paola Terenziani.
I problemi che si incontrano nel sollecitare lo sviluppo locale, e le strategie appropriate a questo scopo, sono attualmente oggetto di una letteratura molto ampia. E' mia forte convinzione che chi si occupa di parchi in aree marginali dovrebbe abbracciarne con passione lo studio, anche se di parchi ovviamente in questa letteratura non si parla mai. Ci sono pagine molto belle in Albert O. Hirschman, L'economia politica come scienza morale e sociale, Liguori, 1987.
Dell'importanza di saldare sapere codificato e sapere locale parlano Giacomo Becattini ed Enzo Rullani in relazione a un contesto del tutto diverso di quello qui considerato, i sistemi produttivi industriali: vedi G. Becattini, E. Rullani, Sistema locale e mercato globale, in Economia e politica industriale, n. 80, 1993. Il concetto però a me sembra di grande interesse anche per i parchi. Il tema è quello delle regole che organizzano la produzione, la comunicazione e la vita (senza che sia possibile districare le une dalle altre) a livello di comunità o di contesti locali, e del ruolo fondamentale che queste regole hanno anche nel determinare il successo di un sistema produttivo. Di queste cose parla e scrive da tempo Sebastiano Brusco; per esempio in Sistemi produttivi locali e nuova politica industriale, Università di Modena, 1993, mimeo.
Nel paragrafo Aree nell'influenza di città si fa riferimento a un filone di studi che riguarda il modo in cui si intrecciano competitività e territorio. Proprio questo è il titolo, Competitività e territorio. L'economia regionale nei paesi industrializzati, di un libro di Enrico Ciciotti, NIS 1993, in cui viene spiegato, tra l'altro, il concetto di indifferenza localizzativa.
Per l'elaborazione teorica e programmatica emiliana su questi temi, vedi Regione Emilia-Romagna, Assessorato programmazione e bilancio, Sistema metropolitano policentrico, materiali per il piano territoriale, settembre 1985; e anche il Piano territoriale regionale del 1986.

* Eco & Eco, Economica e Ecologia srl, Bologna