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Nel quadro normativo disposto dal legislatore regionale le zone di parco individuate come prioritariamente destinate alla fruizione sono quelle di protezione, denominate "C". In tali zone, come dispone la lettera c), articolo 8, l.r. maggio 1981, n. 98, come modificato con l'articolo 7 l.r. 9 agosto 1988, n. 14, "sono ammesse soltanto costruzioni, trasformazioni edilizie e trasformazioni del terreno rivolte specificatamente alla valorizzazione dei fini istituzionali del parco quali strutture turistico-ricettive, culturali, aree di parcheggio".
Proprio per perseguire tale finalità, tra i contenuti puntualmente individuati dalla l.r.. (articolo 18, comma 2, lettera h, l.r. n. 98/1981) del piano territoriale del parco sono indicati la definizione "nell'ambito delle zone C" delle "aree attrezzate per la fruizione turistica e culturale e l'eventuale previsione di strutture ricettive, commerciali ed artigianali".
Le norme citate costituiscono, senza dubbio, uno dei punti qualificanti delle motivazioni che sono state individuate come sostanziali per l'istituzione dei parchi regionali. Tra queste, infatti, sono ricomprese la necessità "di provvedere alla conservazione delle caratteristiche (ndr: morfologiche, paleontologiche, biologiche ed estetiche, con particolare riferimento alla flora e alla fauna) ai fini scientifici, culturali, economico-sociale e dell'educazione e ricreazione dei cittadini" (articolo 2, l.r. n. 98 / 1981).
E' in tale quadro di riferimento che va correttamente intesa la particolare disposizione normativa inserita nella "disciplina delle attività esercitabili e dei divieti operanti in ciascuna zona del parco" allegata al decreto istitutivo del Parco dei Nebrodi (D. Ass. Reg. territorio e ambiente n. 560/11 del 4 agosto 1993). Intendo riferirmi specificatamente all'articolo 10 della disciplina.
La particolare disciplina introdotta intende avviare, in tempi rapidi ed ancor prima che si definisca il complesso iter procedurale della approvazione del piano territoriale del parco, l'utilizzazione delle zone "C", per la fruizione" del l'area naturale protetta.
Vediamo più da vicino in che cosa consiste questa disciplina, che, a mio avviso, può costituire, se correttamente applicata, esempio da trapiantare in altre realtà di parco, e non solo della Regione Sicilia.
I Comuni nei cui territori ricadono zone "C", nelle more della redazione ed approvazione del piano territoriale, previo nulla osta dell'Ente parco, possono redigere piani particolareggiati estesi all'intera area di loro competenza territoriale classificata come zona "C".
Fermo restando che il piano particolareggiato deve perseguire le finalità che citavo all'inizio, deve avere contenuti di cui all'articolo 18, comma 2, lettera h, l.r. 98/1981 (aree attrezzate per la fruizione, eccetera), nonché quelli attribuiti ai piani regolatori particolareggiati dalla legge urbanistica regionale n. 71 del 27 dicembre 1978 (articolo 9, primo comma). Per quanto attiene ai divieti, fissati dal regolamento (disciplina delle attività, eccetera), non sono altro che le normali limitazioni finalizzate alla tutela del bene naturalistico (cfr. articolo 17, l.r. n. 98/1981). Il piano particolareggiato deve, infine, rispettare una serie di indici e di parametri e prescrizioni particolari, tutti puntualmente individuati, come si è detto, nel regolamento:
- a) la superficie territoriale oggetto di trasformazione edilizia e/o urbanistica, non deve essere superiore al 30% dell'intera superficie oggetto di P.P.
- b) 1' indice di fabbricabilità territoriale massimo, computato sull'anzidetta superficie oggetto di trasformazione (30% dell'intera zona "C") non può essere superiore a 5.000 mc./ha c) tra le opere di urbanizzazione primaria non può in ogni caso derogarsi da una previsione minima di m2 2,5, da destinare a parcheggio, per ciascun utente servito. In tale quantità minima di aree a parcheggio, non vanno considerate le aree a parcheggio previste dall'articolo 41-sexies, legge urbanistica n. 1150 del 1942, che sono quindi da reperire in aggiunta
- d) l'indice di fabbricabilità fondiario massimo non può essere superiore ad 1.00 mc./m2: mentre il rapporto di copertura non può essere superiore al 30% della superficie fondiaria
- e) l'altezza massima dei fronti delle nuove edificazioni non deve superare metri 7.00. Tale altezza va misurata tra la quota dello stato di fatto del piano campagna e la quota della linea di gronda del manufatto edilizio
- f) "deve essere salvaguardata quanto più possibile la naturalità dei siti e le modifiche della condizione orografica esistente e debbono essere limitate a quelle strettamente necessarie e ritenute indispensabili per il corretto uso dei manufatti e degli impianti previsti. In tal caso deve farsi ricorso a tecniche di rinaturazione e di ingegneria naturalistica".
Non intendo qui soffermarmi sugli aspetti squisitamente urbanistici dei criteri di pianificazione previsti dalla disciplina che ho appena riassunto. Essi mi sembrano del tutto rispettosi, se correttamente applicati, degli ambiti territoriali comunque interessati, che sicuramente posseggono caratterizzazioni ecoambientali che non dovranno in alcun modo essere stravolte. In ogni caso, mi sembra opportuno sottolineare che la formazione del piano particolareggiato dovrebbe essere portata a compimento dalle amministrazioni comunali utilizzando il metodo della concertazione con l'Ente parco. Metodo, questo, previsto dal legislatore con la disposizione del comma 9, articolo 24, l.r. 9 agosto 1988, n. 14.
Gli aspetti, che a mio giudizio meritano una particolare attenzione, riguardano la disposizione che fa obbligo al ricorso a tecniche di rinaturazione e di ingegneria naturalistica.
Peraltro il regolamento del Parco dei Nebrodi fa obbligo di adottare tali tecniche praticamente per tutti gli interventi di trasformazione ammessi, nonché per quelli di recupero ambientale.
L'ingegneria naturalistica è una disciplina tecnico-naturalistica che utilizza le piante vive, o parti di esse, quali materiali da costruzione in abbinamento con altri materiali inerti; questi ultimi, pur concorrendo per la gran parte ad assicurare la stabilità dei manufatti, sono impiegati sempre in modo tale da non essere visibili all'osservatore, e nella maggioranza dei casi sono materiali biodegradabili che con il tempo sono destinati a cedere, per così dire, il loro ruolo di elemento strutturale all'apparato radicale delle piante vive. Da ciò deriva che l'impiego delle tecniche di ingegneria naturalistica non è mai disgiunto dalla contestuale applicazione di tecniche di rinaturazione; queste ultime, ovviamente, sono anche finalizzate alla realizzazione di ambienti idonei alla vita ed allo sviluppo di specie o comunità vegetali e/o animali.
L'ingegneria naturalistica può, quindi, definirsi come disciplina trasversale che utilizza sia dati tecnici e scientifici, metodologie e procedimenti teorico-applicativi a fini costruttivi ("ingegneria"), che organismi viventi, in prevalenza piante di specie autoctone ("naturalistica" ) .
Se da un lato le finalità disciplinari possono sinteticamente essere individuate in: tecnico-funzionali (per esempio: antierosive e/o di consolidamento); naturalistiche (non si perviene con la realizzazione degli interventi ad una semplice copertura a verde, bensì, mediante l'impiego di specie autoctone, ad una ricostruzione ed all'innesco di ecosistemi paranaturali); estetiche e paesaggistiche (ricucitura dell'area oggetto dell'intervento al paesaggio naturale circostante); economiche (le tipologie di opere sono costituite da strutture competitive ed alternative a quelle tradizionali dell'ingegneria civile: per esempio "terre rinforzate verdi" in sostituzione di "muri di controripa", "canalette verdi inebite" in sostituzione dei tradizionali "fossi di guardia e canalette in calcestruzzo"); dall'altro risulta evidente come la finalità disciplinare ultima e più significante sia costituita dalla ricostruzione di ecosistemi tendenti al naturale, che sicuramente contribuiscono all'aumento della biodiversità.
Ma ciò che contraddistingue specialmente gli essere sempre non visibili, pertanto il miglioramento delle due funzioni anzidette va perseguito, oltre che con un'adeguata scelta, con un'attenta disposizione delle piante o parti di esse, in modo tale che lo sviluppo delle parti aeree e dell'apparato radicale assicuri il mascheramento voluto e, contestualmente, il disfacimento nel tempo dei materiali biodegradabili consenta l'avvio e l'affermarsi di una condizione di naturalità dell'areale oggetto dell'intervento.
Le varie tipologie di opere, già ampiamente sperimentate, in modo particolare proprio in aree montane e collinari, possono essere distinte in due grandi categorie, in riferimento alla casistica cui sono finalizzate a dare adeguata soluzione.
Con riguardo alle problematiche relative alla stabilità geomeccanica complessiva, quindi alla sistemazione di versante e/o spondale, tra le più significative tipologie di opere si segnalano: "gabbionate verdi", "palificate vive", "graticciate vive", "terre verdi armate", "terre verdi rinforzate".
Mentre per le problematiche riguardanti la stabilità superficiale, le cui finalità sono sempre antierosive, gli interventi consistono in tre azioni contestuali: apporto di terreno vegetale, applicazioni di supporti antierosivi, esecuzione di semine e messa a dimora di specie autoctone.
L'apporto di terreno vegetale necessita una puntuale definizione delle caratteristiche dello stesso, che potrà essere ottenuta a mezzo di opportuni ammendanti (oggi largamente disponibili sul mercato), idonei tagli dei terreni disponibili, eventuali inoculi di microorganismi e micorrize tipici dell'ecosistema su cui si interviene e da esso prelevati.
La scelta del supporto antierosivo deve essere effettuata in funzione del substrato geolitologico, della pendenza del versante, della tipologia dell'opera di consolidamento, utilizzando sia georeti tridimensionali che geotessuti sintetici, biodegradabili e non, oppure stuoie vegetali a lento e/o rapido decadimento. Potranno anche essere impiegate viminate vive e fascinate, anch'esse vive. Mentre le semine, sulla scorta delle tabelle di specie da impie- gare, precedentemente definite e valutate per il perseguimento delle finalità già esposte, potranno essere differenziate e variare da quella a spaglio alle semine potenziate: paglia a bitume, idrosemina, idrosemina a spessore (mulch). La messa in dimora di specie arbustive ed arboree autoctone assume particolare rilievo e potrà essere effettuata utilizzando talee, cespi, rizomi, in genere provenienti dal selvatico, o arbusti ed alberi radicati in vasetto o in fitocella.
Ovviamente gli interventi antierosivi, e per essi le tre azioni anzidette, sono una componente essenziale da porre in essere anche quando necessita una sistemazione finalizzata alla stabilità geomeccanica complessiva. Sono, quindi, sempre presenti nella prima fascia di tipologia di opere prima riportate. In buona sostanza tutte le tipologie di opere di ingegneria naturalistica assicurano una buona azione antierosiva e determinano una sicura stabilità superficiale dei versanti oggetto di intervento.
Per una migliore comprensione delle caratteristiche tecniche delle tipologie di opere di ingegneria naturalistica ed una migliore valutazione dei risultati si rimanda alle illustrazioni che accompagnano questo testo.
In conclusione, proprio per la particolare valenza che assumono gli interventi, comunque preordinati all'interno di un'area naturale protetta, l'adozione delle tecniche di ingegneria naturalistica mi sembra risponda compiutamente al criterio non abitabile di ricettività ambientale che devono caratterizzarli.
Il criterio di ricettività ambientale impone almeno quattro verifiche, distinte ed interrelate:
- 1. l'intervento in progetto deve essere quello che minimizza la compromissione delle risorse naturalistiche ed ecosistemiche dell'ambito territoriale interessato
- 2. il nuovo intervento non deve innescare processi tali da sconvolgere l'evoluzione naturale delle unità ecosistemiche in cui è inserito
- 3. l'inserimento dei nuovi manufatti nel contesto ecosistemico e paesaggistico deve caratterizzarsi come culturalmente corretto
- 4. il nuovo intervento deve essere definito con l'adozione di soluzioni atte a migliorare la capacità complessiva di assorbimento dei possibili impatti da parte dell'ambiente in cui è inserito.
Mi sembra che tale impostazione risponda pienamente alla logica di sostenibilità dello sviluppo da perseguire in un'area di parco. Sviluppo sostenibile è quello in cui l'ambiente è in grado di assorbire gli effetti delle trasformazioni e/o delle azioni su di esso senza conseguenze indesiderate.
Non c'è migliore soluzione possibile se non quella di allearsi con la natura stessa: utilizzare piante e/o parti di esse che ne determinino e ne avviino la sua ricostruzione e la sua naturalità.
* Università di Palermo |