|
Un'indagine che non convince
Il WWF ha reso noti i risultati di una sua indagine sui parchi nazionali del nostro Paese. La lettura del fascicolo ci ha profondamente delusi ed anche sgradevolmente sorpresi.
Certo ci sono anche cose che condividiamo, ma è 1 'impostazione generale che non convince. Per quello che dice, ma anche per quello che tace.
Già il titolo è inquietante: "Un viaggio tra i parchi malati alla ricerca di una terapia". Scopriamo così che anche i parchi di carta possono ammalarsi. Sembra infatti un ineluttabile destino, ma i parchi italiani, per un certo ambientalismo, debbono essere associati sempre e per forza a qualche caratteristica negativa e squalificante. Mai una volta che possano essere presi in esame, valutati, criticati per quello che sono: dei soggetti istituzionali, né di carta né infetti, ma semplicemente alle prese con mille problemi ed altrettante difficoltà, incluse quelle finanziarie.
Avendo poi escluso ancora una volta i parchi regionali da questo giro, forse perché il loro stato di salute non interessa, l'indagine non poteva che risultare incompleta e poco veritiera. Ma avrebbe potuto ugualmente fornire dati e spunti utili per una riflessione critica, se non ci si fosse preoccupati esclusivamente di riaffermare discutibilissime tesi, anche attraverso sgradevoli ed offensive personalizzazioni.
La lottizzazione politica, lo sappiamo perfettamente, ha fatto danni enormi e penalizzato competenze e professionalità anche nei parchi.
Ma davvero oggi i parchi sono "malati" principalmente a causa del persistere di questo fenomeno? A noi sembra che i parchi nazionali e quelli regionali siano finalmente entrati in una fase certamente irta di difficoltà e di contraddizioni, ma sicuramente più democratica. C'è innanzitutto un più ampio coinvolgimento e collaborazione delle istituzioni, che ha permesso e permette l'affidamento di importanti responsabilità negli Enti di gestione ad amministratori, nel complesso, più competenti e capaci, anche per le loro diverse esperienze e provenienze. Di tutto questo il Wwf sembra non aver visto niente. Ha notato invece che alcuni presidenti di parco sono stati "lottizzati", ossia provengono dalla politica, dalle istituzioni. E questo è grave, gravissimo. Il presidente del Parco delle Foreste Casentinesi è stato addirittura sindaco del suo Comune! Che poi abbia fatto anche, e bene, il presidente del Parco regionale del Crinale Romagnolo e che ora faccia, altrettanto bene, il presidente del Parco nazionale non significa nulla per degli esaminatori tanto severi. Nelle vene di Valbonesi, come in quelle di altri presidenti ed amministratori, citati a sproposito nell'indagine, scorre insomma sangue infettato dalla politica. Va bene invece, visto che lo si tace pudicamente, che un potente "boss" del Ministero dell'agricoltura appena andato in pensione si sia visto assegnare non una, ma ben due presidenze di parco. Quando si dice il caso!
Stessa musica per le Comunità del parco, liquidate già nel titolo del documento come "parlamentini" interessati solo ai soldi e non ai parchi, come se le due cose fossero per forza antitetiche. O i soldi perdono la loro volgare prosaicità solo quando finiscono nella Banca di Civitella Alfedena? Che la legge stabilisca puramente e semplicemente che in questi organismi siedano tutti i sindaci dei Comuni che fanno parte del parco non sembra turbare la sicurezza del Wwf, il quale protesta perché in qualche Comunità di sindaci ce ne stanno troppi.
Ma nelle Comunità i sindaci non sono né troppi né pochi; sono quelli previsti. Che qualcuno di questi sia ostile al parco è possibile; anzi, è sicuro. Ma i sindaci, piaccia o no, in Italia sono eletti dai cittadini. Possono quindi anche non piacere. Ma nessuno, neppure il Wwf, può pretendere di sostituirsi al voto degli elettori.
Sarebbe stato molto utile, invece, che l'indagine avesse cercato di fornire qualche elemento conoscitivo in più sulla partecipazione dei rappresentanti delle associazioni ai nuovi Enti di gestione dei parchi. E' questa infatti una delle maggiori e più significative novità della legge 394, specialmente per quanto riguarda i vecchi parchi nazionali, fino a ieri gestiti burocraticamente dal Ministero dell'agricoltura. Invece l'indagine su questo punto non dice niente. Si limita a registrare che in qualche caso i rappresentanti ambientalisti provengono da associazioni diverse dal Wwf e quindi sono sprovvisti delle necessarie competenze e conoscenze.
Quello della competenza è un tema che nell'indagine rispunta ad ogni piè sospinto; peccato però che lo si sia ridicolizzato. Se non sono competenti gli amministratori e non lo sono neppure certi rappresentanti di associazioni, non resta ovviamente che il Wwf, il solo, insomma, in grado di garantire, con tanto di "bollino bleu", questa rarissima merce. Sfugge evidentemente ai nostri amici del Wwf che oggi competenza significa soprattutto capacità di assicurare al parco gestioni efficienti, forti di una collaborazione tra più soggetti e culture, capaci di acquisire il consenso indispensabile.
Al fondo, gira e rigira, c'è un'insofferenza malcelata verso chi la pensa diversamente e che, solo per questo, è considerato "non competente" e, quindi, non abilitato. Si veda la descrizione ed il commento dell'incontro con i rappresentanti del Parco nazionale d'Abruzzo, con cui il Wwf ha concluso l'indagine. Non si è trattato semplicemente di un incontro di lavoro. E' la fine di un viaggio dolente tra parchi malati e moribondi. E' l'approdo nel porto sicuro di Itaca. Ma la pace finalmente ritrovata è anche qui turbata dal comportamento insospettato e imprevisto di alcuni membri del nuovo Consiglio di amministrazione che, tanto per cambiare, "spiccano per scarsa competenza", perché si oppongono all'operato del direttore e del presidente. Quale sia la materia del contendere non è detto, e forse neppure interessa.
Ciò che disturba, ed è intollerabile ed inammissibile, è che qualcuno possa (legittimamente) pensarla anche in maniera diversa dal presidente e dal direttore, senza per questo essere un pericoloso malfattore. Dispiace dover registrare posizioni così chiuse e pretenziose. Quel che non si capisce è perché si siano fatti tanti chilometri per riproporle. (R. M.)
Sentieri autoguidati nel Parco naturale Adamello-Brenta
Sono stati recentemente pubblicati, da parte dell'Ente parco, i primi quattro volumetti relativi all'illustrazione di altrettanti percorsi autoguidati. Essi fanno parte di un progetto più ampio comprendente 24 percorsi diversi che abbracciano l'intero territorio del parco, proponendolo ad una lettura ed ad una visitazione diversa ed emotivamente partecipata. Una passeggiata nella natura può risultare un'esperienza estremamente educativa ed arricchente, se solo ci si abitua all'osservazione. Per questo lo scopo del percorso autoguidato è di indurre a soste brevi ma significative nelle quali osservare, imparare ed in tal modo maturare un rispetto più coscienzioso per la natura. In ogni libretto sono riportate alcune informazioni e/o descrizioni del percorso proposto, relative a punti significativi dello stesso, evidenziati sul posto con dei cippi in legno numerati. Senza necessità di essere accompagnati da una guida si può diventare maestri di sé stessi, conservando un ricordo più nitido ed appagante dell'escursione compiuta. I percorsi sono essenzialmente di due tipi: "turistici", itinerari brevi e semplici su stradine e comodi sentieri ben segnati a quote medio-basse; ed "escursionistici", itinerari che si svolgono su sentieri di lunghezza superiore, anche in quota, e che possono comprendere brevi tratti che richiedono una qualche attenzione. Ogni libretto è completato, oltre che dalla descrizione della stazione e dalla cartina riportante il percorso, da belle immagini fotografiche, dai dati relativi ai tempi di percorrenza e dall'altimetria del percorso stesso.
I primi quattro percorsi realizzati riguardano:
- 1 - la "Val di Fumo", per scoprire gli stupendi aspetti morfologici di questa poco conosciuta valle glaciale
- 2 - la "Valle dello Sporeggio", per un incontro con numerose testimonianze della passata attività antropica in prossimità del regno dell'orso bruno
- 3 - la "Vallesinella", per un visita alle celebri cascate in un favoloso ambiente a pochi minuti da Madonna di Campiglio
- 4 - il"Lago di Molveno", per una suggestiva ed insolita visita al lago attraverso interessanti tracce di storia. (S. F.)
Due giorni di studio
Nella splendida cornice dei Monti Sibillini e precisamente nel Comune di Montemonaco si è tenuta, lo scorso 20-21 novembre, la seconda edizione dello stage Amministrare il parco, organizzato dal Coordinamento nazionale dei parchi e delle riserve naturali. Il fine ufficiale di questo incontro è stato quello di cogliere gli aspetti organizzativi e di funzionamento relativi ad una struttura gestionale di un'area protetta attraverso l'illustrazione delle esperienze dirette di coloro che da anni operano all'interno di tali strutture. Si è trattato, dunque, di due giornate di studi, confronti e dibattiti tra rappresentanti di aree protette e amministratori pubblici, provenienti da molte Regioni d'Italia. Hanno inoltre partecipato alcuni studenti universitari a prova del crescente interesse per tali tematiche anche tra i non "addetti ai lavori".
E' chiaro che non per tutti è stato possibile ottenere da questo incontro le risposte ai propri problemi gestionali, poiché ogni Regione, ogni zona "parco" ha un propria realtà territoriale, sociale, economica e culturale e non si possono trovare potenzialmente ed universalmente "buone" senza specificare tali differenze.
Fatta questa premessa, sono comunque emersi dei principi e degli elementi comuni a cui si può far riferimento.
In primo luogo si è evidenziata la necessità di guardare al parco come ad una "entità complessa con contraddizioni interne, fini manifesti (determinati dalla legge) e latenti in continua interazione con l'ambiente, alla ricerca di mantenere la struttura e perseguire i propri obiettivi". Non bisogna dimenticare che il parco non è un puro meccanismo messo in moto dalle istituzioni per realizzare la protezione della natura, ma è un'entità plurifunzionale dotata di una propria capacità di autodeterminazione soggetta comunque a vincoli. Emerge quindi un elemento fondamentale nella vita di un parco; le Comunità locali. Per svolgere la propria attività esso deve saper interagire, dialogare con il proprio ambiente e realizzare con queste Comunità uno "scambio di poteri" per almeno tre funzioni: primo, per usufruire delle loro competenze sulla conoscenza, il monitoraggio, e la gestione dei beni naturali (cosiddetti "saperi locali"); in questo modo esse contribuiscono a rendere effettiva la funzione di protezione della natura. Secondo, per ottenere un clima sociale favorevole (il "consenso") che permette al parco di lavorare serenamente senza la paura di essere delegittimato nelle sue decisioni; fondamentale è allora la "mobilitazione di valori" perché, attraverso questa, si può ottenere una legittimazione sociale alla quale possono seguire una legittimazione giuridica e maggiori risorse materiali, cioè maggiori possibilità di attirare finanziamenti ed operatori. Il parco verrà comunque riconosciuto anche dalle rappresentanze ostili ad esso (funzione di "parafulmine"). Terzo, il parco pur avendo una prevalente legittimazione dall'alto (Stato, Regione), ha bisogno del consenso degli amministratori locali. In questo modo si può ridurre l'incertezza dovuta ai meccanismi di consultazione e decisione, si possono sveltire i processi decisionali e a loro volta migliorare il clima sociale e le competenze sull'ambiente.
Gli Enti parco devono essere infatti considerati come strutture che agiscono con funzioni di coordinamento e di impulso per il territorio e nel rispetto di uno spirito di "leale collaborazione". Altro aspetto essenziale nella vita di un'area protetta è quello finanziario. Una prima considerazione è stata quella della mancanza di attenzione da parte dei parchi circa i possibili canali di finanziamento di cui possono beneficiare le aree sulle quali essi insistono e attraverso le quali è possibile promuovere processi di trasformazione favorevole alla promozione di economie sane e soprattutto compatibili (Life, fondi strutturali 5b, eccetera). Si è sostenuto, infatti, che in certi parchi tendono ad interpretare il proprio ruolo come un ruolo tecnico, settoriale, preposto ad un compito specifico, senza preoccuparsi invece di elaborare "politiche di area" che tengano conto di aspetti come il mercato del lavoro, la formazione, le opportunità di reddito, la domanda sociale di servizi, eccetera. Senza accorgersi in questo modo che la cura di tali aspetti implica il miglioramento del rapporto tra le comunità locali e l'ambiente.
Il parco non è da intendersi come un ufficio decentrato del Ministero o una filiale di un'azienda, ma come uno strumento finalizzato alla realizzazione di una politica di sviluppo relativa ai territori da esso interessati.
Necessario è inoltre incentivare l'analisi della "verifica della spesa", ossia valutare la qualità della spesa realizzata da un parco, per accertarsi che le risorse siano state utilizzate correttamente, che i modelli di intervento realizzati siano efficaci e quindi producano risultati positivi. Allora si dovrebbe parlare meno, o non solo, della quantità di risorse a disposizione e più invece della qualità del loro impiego, poiché le risorse in sé non sono garanzia di risoluzione dei problemi, ma ciò che conta è la capacità di utilizzarle correttamente.
Si è infine rilevato un senso di "disattenzione" per le problematiche legate alle aree protette in Italia, cosa grave perché è proprio in queste aree che si sperimenta quel modello di sviluppo compatibile che potrà poi essere "esportato" e a cui si dovrà fare riferimento per il futuro.
In conclusione, quindi, si può ben affermare che questo stage è stato senza dubbio un'esperienza positiva sia per il bagaglio di conoscenze direttamente ed indirettamente ricevute, grazie al confronto tra i vari modelli gestionali, sia per la possibilità avuta di scoprire, per quanti non lo conoscessero già, una delle zone più suggestive del meraviglioso Parco nazionale dei Monti Sibillini. Claudia Cesanelli (da "Il parco c'è" del notiziario del Parco del Conero)
La Conferenza di Gap
Nelle giornate del 5 e 6 di ottobre 1995 si è svolta a Gap la "prima conferenza internazionale delle aree protette alpine" che ha avuto l'obiettivo di mettere a confronto le problematiche delle aree tutelate all'interno del sistema geografico delle Alpi.
I Paesi interessati sono Francia, Svizzera, Italia, Austria (non presente per protesta contro gli esperimenti nucleari del governo francese), Germania, Liechtenstein e Slovenia, gli stessi che sono inseriti nella "convenzione delle Alpi". Le aree protette individuate nella ricerca dell'Istituto di geografia alpina dell'Università di Grenoble, che è stata presentata come base conoscitiva della conferenza, sono rispettivamente 18 per la Germania, 28 per la Francia, 82 per l'Italia (la maggior parte regionali), 83 per l'Austria, 66 per la Svizzera, 1 per il Liechtenstein e 11 per la Slovenia, suddivise secondo le categorie dell'Iucn in riserve naturali integrali, parchi nazionali, monumenti naturali, aree per la protezione di particolari specie naturali, aree di protezione del paesaggio e nelle quali sono stati fatti rientrare, non senza qualche difficoltà, i tipi di ambiente protetti dai vari Stati con differenti classificazioni e procedure istitutive e amministrative.
La linea di confine che delimita il territorio definito alpino comprende uno spazio differenziato che va dalla montagna vera e propria ad ambienti collinari e di pianura che arrivano alla linea dei laghi sia sul versante francese che svizzero e italiano, mentre in Austria si spinge quasi fino a Vienna. Inoltre si va da zone di abbandono delle attività economiche e scarsamente popolate, come il versante italiano delle vallate alpine, a zone dove sono presenti dinamiche di intenso sviluppo socio-economico, come l'intero territorio svizzero e austriaco, passando per situazioni intermedie come quelle della Francia, della Germania, del Liechtenstein e della Slovenia.
Da una ricerca condotta dal Dipartimento al territorio del Politecnico di Torino emergono dati più approfonditi da cui risultano le percentuali di territorio alpino tutelato: 46% per l'Italia, 23% per l'Austria e la Francia, 5% per la ex-Yugoslavia, 1% per la Germania e la Svizzera (quest'ultima al netto delle riserve cantonali e private gestite dalla Lega svizzera per la protezione della natura).
Va però sottolineato il fatto che tali percentuali variano fortemente se si considera l'intero territorio nazionale, il che vuol dire che la protezione della natura si concentra proprio nell'ambiente alpino e che, almeno per l'Italia, si indirizza verso aree a decremento demografico.
La dimensione dei parchi alpini si situa tra i 5000 e i 15000 ettari, dunque una dimensione media rispetto ai parchi di altri ambienti; la loro forma è in genere accorpata, ma il loro perimetro può essere molto esteso dovendosi adattare alla complessa morfologia delle vallate.
La maggioranza dei parchi alpini è stata istituita dopo gli anni settanta, anche se i principali parchi nazionali (Engadina, Stelvio, Gran Paradiso) sono dei primi anni del secolo.
Dal punto di vista della pianificazione del territorio sono stati più attivi i parchi regionali (diffusi specialmente in Francia e Italia), mentre i parchi nazionali hanno avviato con difficoltà questo processo solo negli ultimi anni o fanno uso di differenti forme regolamentari.
La Francia ha sviluppato forme di pianificazione che consistono in schemi direttori di indirizzo allo sviluppo socio-economico compatibile con l'ambiente, mentre la Svizzera tende a condurre una politica di tutela ecologica su tutto il territorio nazionale; l'Austria affida la protezione della natura a forme di pianificazione territoriale e urbanistica (zone di tranquillità, diffuse in tutti i Paesi di cultura tedesca); l'Italia spesso supplisce con la pianificazione delle aree tutelate alla mancanza di forme più estese di pianificazione territoriale.
Dal punto di vista delle forme amministrative, i parchi nazionali dipendono dal Ministero dell'ambiente in Francia, Slovenia e Italia, mentre in Germania e in Austria prevale la gestione da parte dei "Laender".
In questi due ultimi Stati, in Svizzera e in Slovenia è diffusa la formula della "protezione del paesaggio" che consente di utilizzare schemi di tutela leggera su ampi territori discretamente antropizzati. Le forme di pianificazione dei parchi nazionali tendono in genere ad individuare zonizzazioni che definiscono aree interne al parco di tutela integrale e aree periferiche ove sono favorite forme di sviluppo socio-economico compatibili con l'ambiente.
I parchi regionali, soprattutto in Francia, tendono a sviluppare queste ultime forme di gestione del territorio, mentre il Italia essi sono assimilabili alla categoria dei parchi nazionali.
Le aree per la protezione di particolari specie naturali, che nei vari Paesi prendono nomi differenti, sono invece proposte alla tutela e alla gestione di particolari situazioni ambientali; si ricordano in particolare le riserve della biosfera e la categoria dei "biotopi" dei quali è in corso di certificazione da parte dell'Unione europea un primo elenco, che avvia la formazione della rete ecologica europea "Natura 2000".
La conferenza è stata voluta per mettere a confronto le varie tematiche, per verificare la validità degli strumenti istituzionali e amministrativi, di pianificazione e gestione proposti dai vari Stati e per proporre ipotesi di sviluppo e valorizzazione del territorio alpino compatibili con l'ambiente naturale, con la consapevolezza che le aree protette ne costituiscono una rilevante percentuale territoriale.
Per questo la conferenza è stata articolata in una prima giornata di interventi generali che avrebbero dovuto portare un contributo all'approfondimento delle tematiche giuridiche e amministrative della protezione del territorio alpino nel suo complesso, oltre a riferire alcune esperienze di gestione di aree protette e di collaborazioni transfrontaliere; e una seconda giornata gestita a gruppi di lavoro per favorire un primo scambio di esperienze tra gli operatori delle aree tutelate. I gruppi di lavoro riguardavano i seguenti temi: la grande fauna di montagna, le specie scomparse e minacciate, gestione e protezione del bosco, gestione degli alpeggi e biodiversità, gestione dei siti naturali a forte frequentazione turistica, strumenti di informazione per il visitatore.
Il maggior interesse è stato rappresentato dalla possibilità di incontro e di scambio offerta agli operatori che vi hanno partecipato: da tutti i gruppi è emersa la necessità di individuare programmi comuni da sviluppare con scadenze regolari; in particolare è stato richiesto di attuare forme costanti di monitoraggio della fauna (gipeto, stambecco e altri grandi ungulati, lince, lupo, eccetera), che si mettano a confronto le forme di gestione delle foreste e delle attività agropastorali di montagna.
Per quanto riguarda le forme di fruizione e le proposte didattiche, scientifiche, culturali e informative si è suggerito di individuare alcuni punti già presenti tra le strutture dei parchi alpini ove presentare mostre itineranti e sviluppare circuiti informativi e formativi.
A questo proposito è stato votato un documento finale della conferenza volto a favorire un programma di scambi tra gli operatori delle aree protette, ad approfondire gli aspetti giuridici e amministrativi delle categorie di tutela, a preparare una lista delle ricerche in corso, a promuovere iniziative volte al coinvolgimento delle popolazioni locali e a forme di fruizione compatibili con l'ambiente alpino.
Il documento propone che la parte di ricerca sia svolta da alcuni istituti presenti alla conferenza (Lama dell'Università di Grenoble, Politecnico di Torino, Accademia europea di Bolzano, Istituto di botanica dell'Università di Innsbruck, Conservatoires botaniques francesi) in collaborazione con le strutture di gestione delle aree protette, mentre gli altri temi dovrebbero essere condotti direttamente da queste ultime.
Non è però stato accolto il loro invito a costituire una segreteria tecnica che segua l'attuazione dei programmi; da questo può risultare un rallentamento dell'attività di scambio e confronto, che viene lasciata alla libera iniziativa degli operatori, ai quali è stato semplicemente distribuito un elenco dei partecipanti.
Rimangono pertanto aperte tutte le problematiche che questa prima conferenza ha avviato, in primo luogo la verifica del ruolo che le aree protette possono svolgere nella ricerca di un modello di sviluppo compatibile per l'arco alpino, del quale rappresentano una rilevante percentuale territoriale.
Può essere perciò interessante, in preparazione di una seconda conferenza, approfondire le esperienze di valorizzazione di attività compatibili con l'ambiente sia naturale che antropizzato già condotte dalle aree protette, le forme di comunicazione che esse sono state in grado di sviluppare verso l'esterno, i rapporti che hanno saputo costruire con altre amministrazioni pubbliche (Comuni, Regioni, Laender, Istituti di ricerca, eccetera) e con i cittadini degli Stati, in modo da contribuire ad un loro interessamento ad affrontare il tema di un migliore sviluppo dell'ecosistema alpino da considerarsi nel suo complesso, per la sua ricchezza ecologica, di energia in senso lato, di opportunità socio-economiche compatibili con l'ambiente naturale e non soltanto come luogo di transito e di massiccio sviluppo turistico concentrato nel tempo e nello spazio.
La natura in pellicola
Il ricordo comune dei primi documentari naturalistici della nostra storia di teleutenti è legato a Walt Disney. Non alla multinazionale di Topolino & Co., ma proprio a lui in persona, con i suoi baffetti e gli occhi aguzzi, segno di furbizia e fiducia assieme.
A ben pensarci la storia era sempre la stessa. Un professore universitario naturalista - anzi il prototipo stesso di naturalista, con la giacca, le scarpe e la barba da naturalista - decide di studiare la tal razza in estinzione. Aereo che parte, casse di attrezzature, bei panorami dall'alto. Un po' di avventura, qualche rischio e alla fine ecco là l'esemplare in questione. Una bella siringa innocua (lo sottolineavano sempre che era innocua) piena di sonnifero fucilato nelle chiappe della povera bestia e poi la radiotrasmittente, un piccolo sacrificio per la scienza e per il suo bene. Altri paesaggi, dettagli di animali e alla fine le sue (di Walt Disney coi baffetti) belle considerazioni finali, sempre in studio, vicino ad un grosso mappamondo.
C'erano dietro a quei documentari un bel po' di ingredienti; un amalgama che solo oggi, a distanza, riesco a separare con chiarezza. Certamente prima di tutto, perché negarlo, l'amore per la natura, sempre però vista dall'uomo come essere superiore; la disponibilità di mezzi neanche tanto celata; una robusta impostazione cinematografica; l'epopea americana delle carovane di pionieri e non ultima l'eredità più o meno dichiarata dei grandi divulgatori, esploratori e naturalisti del passato, come John Muir e Robert Marshall. Che poi sono la versione americana dei nostri Sella, Piacenza e De Agostini, certo non meno versati anche sul fronte della produzione di foto e documentari.
Veniamo a storie più recenti. Circa due decenni orsono scoppia il boom dell'ecologia. Nascono le associazioni naturalistiche, le riviste di settore, i primi libri; e ci comperiamo il primo teleobiettivo. Non molto tempo dopo sono nate le videocassette. O meglio, l'editoria ha avviato cautamente la divulgazione di queste tematiche attraverso documentari in videocassetta, anche se quasi sempre come allegati.
La paternità è ancora una volta americana, con le edizioni di National Geographic in testa, seguite a ruota dai cortometraggi della BBC. Gli argomenti sono quelli classici del "mito della natura": grande Nord, Africa, foresta Amazzonica. Dalla tribuna televisiva il grande promotore, divulgatore (e anche conoscitore) è Piero Angela. Poi, poco alla volta, cominciano a comparire soggetti italiani: parchi, aree di interesse naturalistico, animali di casa nostra. Il merito, bisogna riconoscerlo, va alla RAI, che ha cominciato a produrre e ad acquistare documentari riguardanti argomenti locali. Per esempio, decine di video sono passati nella trasmissione Geo, poi imitata da programmi analoghi su altre reti. Oggi si può dire che esistano documentari di ogni più sperduta località, destinati per lo più alla diffusione locale, frutto dell'ingegno italico di centinaia di produttori televisivi artigianali. Il discorso si sposta quindi alla qualità dei prodotti sul mercato che è determinata giocoforza dal budget a disposizione, il quale a sua volta dipende dal numero di copie vendute. Quanto alla possibilità di cedere diritti per passaggi televisivi, qui si entra in una sorta di lotteria con infinite possibilità di proporre e rarissime possibilità di ottenere. Resta il sogno di trovare lo sponsor, pubblico o privato che sia. Qualche volta i sogni si avverano.
Il problema sta nel fatto che un buon documentario naturalistico è costoso. C'è il disagio di lavorare in zone impervie con lunghi trasferimenti a piedi carichi di attrezzature. C'è la variabile del clima che può dilatare i costi di produzione. E comunque anche col bel tempo seguire gli animali richiede giorni di appostamenti per pochi minuti di riprese. E poi c'è un'altra cosa: i panorami, la natura, persino gli animali di per sé non fanno spettacolo, direi quasi che annoiano dopo un po'. Per avere delle riprese spettacolari bisogna per così dire lavorarci su, metterci un pizzico di fiction, utilizzare l'elicottero e costosi sistemi di ripresa, inventare situazioni interessanti, condire il tutto con un montaggio incalzante e musiche accattivanti. A parte tutto questo la produzione di documentari sull'ambiente presuppone una base scientifica rigorosa e una coscienza naturalistica onesta. Cioè, per spiegarsi meglio, al produttore serio che ha fatto tutto per bene e riesce ad offrire al pubblico qualcosa di divertente, naturalmente senza la pretesa di accontentare tutti, rimane comunque un interrogativo. La divulgazione con sistemi di massa come lo è il video quanto incide sul patrimonio naturale e sulla sua tutela e conservazione?
Ricordo uno dei documentari presentati da Walt Disney di cui si parlava all'inizio: un piccolo cerbiatto era rimasto solo, abbandonato dalla mamma cerbiatta per non so quale motivo. La prima cosa che pensai di fare fu quella di partire alla ricerca di cerbiatti da salvare portandomi dietro un biberon nello zaino. Poi, dopo tanto empo, il direttore di un parco mi spiegò che era la prima cosa da non fare. Giorgio Vivalda (presidente della Vivalda Editori e direttore di Pubbliviva)
L'Alto Garda Bresciano: un parco un po' speciale
A maggio per iniziativa del Coordinamento dei parchi e della Regione Lombardia d'intesa con la Comunità montana dell'Alto Garda Bresciano a Gargnano sarà ricordata la figura e l'opera di Valerio Giacomini in un convegno che vedrà riuniti per tre giornate uomini di Università, esperti, rappresentanti delle istituzioni ed amministratori.
Quello dell'Alto Garda Bresciano è un parco al quale Giacomini aveva lavorato con particolare passione tanto che aveva scelto quel territorio per trascorrervi gli ultimi anni.
La singolarità di questa area protetta non sta però solo in questo fatto: pur così significativo al punto che essa figurava, con poche altre, tra quelle riportate nel libro Uomini e parchi.
Giacomini riteneva infatti che nel caso dell'Alto Garda ci si trovasse di fronte ad un territorio meritevole di una particolare tutela e che esso coincidesse interamente con l'area dei 9 Comuni che costituiscono la Comunità montana. In sostanza si trattava di un parco che poteva essere gestito dalla Comunità montana in quanto le due perimetrazioni venivano a coincidere perfettamente. A prima vista, almeno detto così, si potrebbe pensare che questa idea in fondo mirava semplicemente ad evitare inutili doppioni. Perché fare due enti laddove uno sarebbe bastato a gestire lo stesso territorio? Ma questa coincidenza - qui sta la singolarità di cui parlavamo - non era dovuta a meri fattori per così dire ' amministrativi'. C'era coincidenza in quanto nella visione e impostazione di Giacomini il parco doveva includere anche i centri abitati e non esclusivamente gli ambienti naturali (come allora era in voga fare), perché gli 'uomini' con le loro attività e la loro presenza non erano 'altra' cosa rispetto alla natura e quindi ai parchi.
L'Alto Garda Bresciano per Giacomini assumeva quindi il valore di una scelta assolutamente innovativa, molto coraggiosa se si pensa alle opinioni prevalenti allora sui parchi. Ricordo anch'io le discussioni appassionate per altri parchi che in quegli anni furono concepiti e talvolta anche istituiti e che quasi sempre escludevano i centri abitati dalle perimetrazioni. Altra rilevante novità è che a chiedere l'istituzione del parco era la stessa Comunità montana, un ente che al pari di molti Comuni, se non di più, ha sempre guardato con una certa non nascosta diffidenza ai parchi ritenuti portatori di vincoli per l'agricoltura.
Per tutte queste favorevoli circostanze già nell'81, si veda Uomini e parchi, fu predisposto un disegno di legge regionale che faceva sua questa impostazione di Giacomini in cui giustamente si sottolineava che era il primo caso in Italia (non mi risulta che altri se ne siano avuti neppure successivamente) in cui una Comunità montana proponeva di istituire sul suo territorio un parco regionale. L'approvazione della legge però tardò anni nonostante questo eccezionale 'sostegno' istituzionale, tanto è vero che si dovette aspettare fino al settembre dell'89.
La legge affida alla Comunità montana i poteri e le funzioni dell'ente parco prevedendo anche una pianta organica dotata di figure professionali insolite per un organo che, come è noto, non ha oggi funzioni di programmazione.
Unico caso probabilmente in Italia la Comunità montana dell'Alto Garda Bresciano riassume in sé poteri del tutto 'speciali' quali sono quelli oggi riconosciuti ad un ente parco a cominciare dalla definizione e adozione di piani territoriali a carattere sia generale che di settore. La situazione appare tanto più eccezionale se si considera che con l'approvazione della legge 394 e la 142 i casi di gestione di aree protette da parte di enti locali con strumenti che non siano o i consorzi (in deciso calo) o enti autonomi (in aumento) sono andati via via riducendosi. In conseguenza di questa inversione di rotta dovuta anche alle non brillanti prove offerte dalle Comunità montane nei non numerosi casi in cui ad esse era stata affidata la gestione di parchi, oggi sono davvero poche le situazioni in cui si può ragionevolmente prevedere che alle Comunità montane sia riconosciuta la titolarità di un parco.
L'Alto Garda è dunque una di quelle eccezioni che confermano la regola e che proprio per questo merita una particolare attenzione e menzione. L'aspetto forse più interessante oggi non sta tanto nell'inclusione dei centri abitati nel parco, perché su questo punto le cose sono notevolmente cambiate dai tempi in cui Giacomini mise mano al lavoro, ma nel fatto che la gestione dell ' area protetta da parte della Comunità montana comporta una profonda trasformazione di carattere istituzionale di quest'ultima. Il parco in sostanza richiede alla Comunità montana di somigliare sempre meno alle sue consorelle e di assumere sempre di più i caratteri e la fisionomia di un ente parco.
E' una metamorfosi che non solo non toglie niente alla Comunità montana ma che al contrario le aggiunge qualcosa in fatto di poteri, competenze, responsabilità. Il che conferma che per gestire un parco oggi, anche in presenza di un territorio non circoscritto agli ambienti naturali, occorre non un ente o strumento qualsiasi, ma un organo dotato di 'speciali' poteri, perché 'speciale' è la realtà di un'area protetta. (R.M.)
Parchi e finanziaria
Le esigenze di una coerente politica per i parchi escono dalla complessa vicenda della manovra finanziaria un poco meglio di come vi erano entrate.
- a) E' rimasto purtroppo il taglio del 20 per cento per una serie di capitoli relativi ai parchi storici e alla legge sulle aree protette (una riduzione di circa 10 miliardi) ma siamo riusciti ad inserite nel maxi emendamento del Governo (riprendendo il nostro emendamento) un finanziamento aggiuntivo di 48 miliardi per la legge-quadro per le spese in conto capitale (tabella D, cap. 7410 del Ministero dell'ambiente, cioè il programma triennale per le aree naturali protette).
Il saldo è positivo.
- b) Restano purtroppo i blocchi all'attività della segreteria tecnica (via via smantellata) e alle piante organiche degli Enti parco (che vedono oggi 30 dipendenti per i nuovi parchi...).
L'insieme delle disposizioni rende comunque possibile costituire finalmente un ufficio parchi (collegato ad un'agenzia servizi) per il coordinamento centrale; mentre un adeguato coinvolgimento di Regioni ed Enti locali può sbloccare la presenza del personale minimo indispensabile.
In tal senso, il Ministero deve recuperare un ritardo "politico" di attuazione e stimolo.
Le altre risorse sono confermate e il loro corretto rapido utilizzo va accelerato.
Accanto alla manovra vera e propria sono emerse altre questioni che la sessione finanziaria ha permesso di chiarire.
- c) La dinamica dei "residui passivi" stava cancellando l'impegno di ben 218 miliardi di lire destinati ad interventi nei parchi nazionali (programma triennale, lavori socialmente utili).
La Camera il 19 dicembre ha votato un nostro ordine del giorno (presente e concorde il Governo) che chiede il recupero o la reiscrizione in bilancio dello stanziamento entro la fine dell'anno.
In sede di reiterazione del decreto legge 445/95 tale obiettivo è conseguibile subito (scade il 27 dicembre). Valerio Calzolaio (vicepresidente Commissione ambiente della Camera dei deputati)
- Difficoltà e prospettive nella gestione di un nuovo parco nazionale
- A quattro anni dall'entrata in vigore della legge-quadro sulle aree naturali protette, nonostante gravi difficoltà legate alla prima fase di avvio dei nuovi parchi nazionali, l'esperienza accumulata induce a qualche riflessione.
Ogni presidente si è trovato al centro di un vuoto cosmico fatto della più totale assenza di strumenti operativi. Anche perché quelle stesse Regioni che avrebbero dovuto contribuire all'attenta gestione del proprio territorio, sovente non hanno consentito neppure il comando di alcuni dipendenti presso gli Enti parco.
E' sostanzialmente mancata quella fase straordinaria di impegno della pubblica amministrazione, necessaria all'avvio di una politica volta a rendere immediatamente riconoscibile il parco sul territorio. Infatti se un ricercatore europeo, o peggio ancora americano, dovesse studiare la situazione italiana dalla sola rassegna stampa sulle aree protette resterebbe allibito.
Sembra quasi non si parli d'altro che di nomine, di procedure e di vincoli vari. E questa, purtroppo, è la sensazione che permane in molti dei non "addetti ai lavori", con le conseguenze tecnico-politiche che abbiamo visto: ignoranza dei problemi reali e drastica riduzione dei già esigui stanziamenti a favore dei parchi. Mentre, al di là di quel che appare sulle cronache locali, la realtà di questa prima fase di applicazione della legge è stata caratterizzata dall'impegno di alcune persone generose che hanno assunto l'onere di divenire presidenti o membri degli Enti parco, sopperendo con il proprio impegno alle carenze e alle incertezze della stessa pubblica amministrazione. Basti pensare, infatti, che alcuni di questi presidenti svolgono ancora di fatto anche le funzioni di direttore.
Ma, posto che si superino le insidie della legge finanziaria, le disattenzioni del Parlamento, gli ostacoli frapposti dal difficile rapporto Enti parco-Regioni, quali sono le prospettive e i problemi che ci troveremo ad affrontare nel 1996?
Il primo è sicuramente posto dall'errata inclusione degli Enti parco nella tabella IV della legge n. 70/75. Nelle aule parlamentari, in sede di discussione del disegno di legge Ceruti emergevano infatti due tesi contrapposte: o costituire amministrazioni innervate in un Ministero centrale, agricoltura o ambiente, o seguire il modello degli Enti autonomi del Gran Paradiso e Abruzzo.
Come è a tutti evidente si è affermata la ragionevolezza dell'efficacia di automi enti di gestione dei nuovi parchi nazionali. Nella foga di utilizzare un modello positivo, purtroppo, si è finito per mutuare anche questa legge n. 70/75 che è assolutamente inadatta a modemi criteri di gestione di un'area protetta. Considerare, infatti, un Ente parco quale un semplice gestore del trasferimento della spesa pubblica, vincolandolo al solo obbligo del pareggio di bilancio, è sicuramente molto lontano dalla volontà di conseguire importanti risultati di conservazione della natura e del territorio, uniti ad efficacia amministrativa. E non basta.Mentre il D. Lgs. 157/95, in attuazione della direttiva 92/50/Cee in materia di appalti pubblici, fissa il limite di 200.000 Ecu, Iva esclusa, per l'affidamento di servizi, il Dpr n. 696/79, apposito regolamento di contabilità degli enti pubblici non economici inclusi nella famigerata tabella IV della legge n. 70/75, attesta il limite della trattativa privata a soli 50 milioni lordi.
Appare evidente, pertanto, che gli Enti parco non potranno scegliere i soggetti cui affidare studi e ricerche di una certa complessità, se non ricorrendo alla licitazione privata. Ora, se in termini di trasparenza amministrativa questo può essere logico, per l'ordinaria gestione della cosa pubblica appare assolutamente infondato e inadatto per azioni mirate alla conservazione della natura in territori "delicati" e sovente poco studiati. E' evidente che il piano del parco ed il piano socio-economico di un territorio orograficamente complesso e articolato quale quello delle Dolomiti Bellunesi non potrà essere realizzato entro tali risibili termini di spesa. Poiché lo stesso dpr n. 696/79 inibisce la frammentazione e la ripetitività dell'incarico, non resta altra possibilità della gara pubblica. Ora, è sempre possibile che la gara sia vinta da un soggetto professionalmente capace e motivato, come peraltro è possibile che venga aggiudicata a una società capace solo di produrre fantascientifici sistemi di studio del territorio basati su una non sempre sufficiente analisi delle complessità ecologiche e sociali dell'ambito analizzato.
Unica soluzione individuabile è, dunque, quella della costituzione di un ufficio di piano all'interno del singolo Ente parco che coinvolga le risorse disponibili ed attivi alcuni rapporti di collaborazione estema, al fine di:
- a) predisporre il "capitolato tecnico d'appalto" per indire la gara di assegnazione della redazione del piano (anche con riferimento al piano socio-economico se la Comunità del parco lo ritenesse opportuno)
- b) coordinare le azioni di studio e realizzazione dello stesso
- c) promuovere le intese di programma con le amministrazioni interessate al fine di dare concreta attuazione a quanto redatto.
In tal senso occorre considerare che il legislatore ha identificato nel piano uno strumento operativo teso a ridefinire quanto disposto dal Ministero dell'ambiente in sede di perimetrazione e regolamentazione dei nuovi parchi nazionali.
Il comma 3 dell'articolo 12 della legge 394/91, infatti, indica in soli sei mesi la predisposizione dello strumento principe di programmazione e gestione dell'area protetta. Certo, tale termine è ordinativo e non perentorio, ma un'indicazione legislativa è comunque in esso contenuta.
Si potrebbe realizzare, pertanto, uno strumento di programmazione essenziale, teso eminentemente ad identificare l'estensione e la zonizzazione più consona ad ogni singola realtà, con le indicazioni sulle principali aree critiche e/o vulnerabili. Rimandando, di fatto, al completamento di un corposo piano di indagini conoscitive e di ricerche scientifiche la predisposizione di uno strumento più completo ed organico. Del resto la stessa indicazione del successivo articolo 6 sembra richiamare tale necessità/possibilità.
Appare, quindi, fondamentale che nell'ufficio di piano afferiscano le competenze tecniche presenti nelle pubbliche amministrazioni che hanno competenza sul territorio, la Regione e la Provincia in primo luogo.
Il problema principale di un piano di tale concezione sarà, del resto, quello di delegificare le norme collidenti di livello locale e/o regionale, stabilendo le modalità per governare il territorio protetto senza ulteriormente complicare la vita dei cittadini. Sarà quest'ufficio di piano, probabilmente, a costituire quel primo embrione di "sportello unico" delle autorizzazioni nel parco di cui ormai si parla inefficacemente da troppi anni. In una prima fase, se gli Enti parco saranno messi in grado di funzionare, potrebbe occuparsi della raccolta e gestione degli iter autorizzativi. In una seconda fase, espletate le elezioni politiche, individuato un Governo con una chiara linea amministrativa per i parchi, si potrebbe pensare a provvedimenti legislativi più corposi che rendano più semplice gestire tutti i vincoli ambientali di un territorio. Pensando, ad esclusivo titolo di esempio, al passaggio delle competenze inerenti all'applicazione della legge Galasso all'Ente parco competente per territorio. Con l'innegabile vantaggio di una gestione più coerente ed organica delle aree protette e di un'auspicabile semplificazione amministrativa che favorisca la partecipazione ed il consenso dei cittadini a questa complessa ma importante fase di costruzione di un serio sistema di parchi e riserve del Belpaese. A cura di Nino Martino (direttore) e Luisa Fertonani (consulente del Parco nazionale Dolomiti bellunesi)
Se il direttore perde le staffe
La presenza del direttore del servizio conservazione e natura agricola si segnala ormai un po' dappertutto.
Dibattiti, tavole rotonde, collegamenti televisivi lo vedono da un po' di tempo immancabile ospite. Il suo ufficio, lo sappiamo, giustifica ampiamente queste frequenti apparizioni pubbliche. Non di questo quindi siamo sorpresi. Colpisce semmai il suo comportamento in queste sempre più frequenti sortite.
Che egli cerchi di parare le critiche che generalmente vengono rivolte al suo ufficio e al Ministero è abbastanza naturale e normale. E che lo faccia con difese a riccio, non sempre giustificate o sostenibili dinanzi alla forza dei fatti, è un po' meno ovvio ma pur sempre comprensibile sebbene non condivisibile. Ma il dottor Agricola ormai non si limita e non si accontenta più di fare catenaccio. Ad una difesa blindata dell'operato ministeriale, che nelle versioni del dottor Agricola non fa mai una grinza, si accompagna sistematicamente e puntualmente il rovesciamento delle responsabilità su altri. E lo fà senza tanti riguardi e scrupoli. Anzi, spesso lo fà con delle vere e proprie sfuriate che lasciano l'uditorio interdetto se non altro per il venir meno di qualsiasi ' aplomb ' .
I soldi del piano triennale si sono persi in giro? Non si accusi il Ministero dell'ambiente che ha le carte perfettamente in regola. I cattivi stanno al Ministero del tesoro che bloccano tutto. Ma il Ministero dell'ambiente ha fatto e fà qualcosa, se le cose stanno veramente così, per rimuovere il blocco? Mistero. Su questo Agricola regolarmente sorvola o svicola.
La legge finanziaria prevede l'assurdo taglio del 20% dei finanziamenti per i parchi? Agricola in diretta dal suo ufficio non si scompone. La colpa è del Governo (vero) e del Parlamento (meno vero perché al momento della dichiarazione ancora non si era pronunciato). Insomma è tanta l'abitudine a scaricare sugli altri che non ci si prende più la briga neppure di verificare se è vero. Naturalmente neppure in questi casi il direttore ha saputo dirci cosa il Ministero ha fatto per 'salvare' il 20% dai tagli.
Il focoso direttore su questo tace. In compenso si permette di bacchettare il coordinamento dei parchi ed alcuni presidenti di parchi nazionali 'colpevoli', nientemeno, di avere aderito ad un'iniziativa a sostegno della 394. A che titolo possa farlo rimane ovviamente un mistero.
Più facile invece è capire le ragioni di tanta stizza. Il dottor Agricola non può tollerare evidentemente di essere contraddetto e soprattutto che qualcuno si prenda addirittura la libertà di dirgli senza peli sulla lingua o timori reverenziali che certe iniziative del Ministero, come la famosa mostra per i soli parchi nazionali (ma anche altre 'pensate' non proprio brillanti), sono sbagliate. E che il Ministero farebbe meglio ad occuparsi e preoccuparsi di altre cose tenendo conto di altre richieste e proposte.
Da qui la non repressa rancorosità nei confronti degli incauti presidenti ai quali il nostro direttore ha ricordato loro - senza arrossire - che come 'enti statali' non possono prendersi certe libertà. A qualche vecchio funzionario del Ministero dell'agricoltura saranno fischiate le orecchie e luccicati gli occhi al ricordo dei 'bei tempi' quando un direttore di parco doveva chiedere 'l'autorizzazione' a Roma per partecipare ad una qualsiasi riunione di lavoro. Ma quei tempi, anche se il dottor Agricola sembra ignorarlo o dimenticarsene un po' troppo spesso, sono morti e sepolti e non saranno le sue reprimende a riportarli in auge.
E' certo grave che a fronte di una situazione che vede non convocato dal '93 il comitato per le aree protette e la consulta tecnica snobbata e trattata con assoluta sufficienza, il direttore del servizio conservazione e natura anziché operare con spirito di 'leale collaborazione' ricerchi e provochi scontri e polemiche che neppure un ministro si permetterebbe mai e mai infatti si è permesso.
Per questo vorremmo richiamarlo semplicemente al senso della misura. (R.M.) |