Federparchi
Federazione Italiana Parchi e Riserve Naturali


PARCHI
Rivista del Coordinamento Nazionale dei Parchi e delle Riserve Naturali
NUMERO 18 - GIUGNO 1996


La legge sulle aree protette:
luci ed ombre dopo quattro anni di gestione.
Mario Di Fidio - Regione Lombardia, Servizio tutela ambiente naturale e parchi

1. Il caso lombardo come motore del cambiamento

Negli ultimi mesi, il dibattito sulle aree protette si è riaperto con due momenti di vivace confronto tra Stato, Regioni e associazioni ambientalistiche: il convegno dell'Anarf (Firenze 5-6 ottobre 1995) e la tavola rotonda della rivista Verde Ambiente (Roma, 7 dicembre 1995). Le reazioni alle critiche ed alle proposte di modifica della legge 394/91 avanzate, tra pochi altri, da chi parla sono state in larga maggioranza di sorpresa, per non dire di stizza. Tuttavia le argomentazioni allora avanzate, ma ancor più probabilmente - l'evoluzione della situazione politica debbono pur avere indotto qualche dubbio e riflessione se ora ci ritroviamo a dibattere precisamente il tema che ha fatto scandalo. Di questo non posso che essere lieto, perché è precisamente il risultato che mi proponevo: far riflettere, scuotendo anche in modo brusco talune certezze, sul fatto che la legge 394/91 non ha un valore assoluto, ma relativo, ossia non è cosa buona in tutte le situazioni e comunque rappresenta una tappa e non il traguardo finale.
Debbo tuttavia constatare che ancora pochi sono disposti a riconoscere qualche ombra, prevalendo largamente il trionfalismo delle luci e lo stereotipo della legge ottima, ma purtroppo inapplicata. A me tocca dunque l'onere di sottolineare le ragioni che spingono ad un cambiarnento che non sia solo di facciata. Oggi la Giunta regionale della Lombardia ha approvato un progetto di legge che prevede la parziale fuoriuscita del sistema delle aree protette lombarde dalla legge 394/91. Il caso lombardo, con tutta la sua complessità e difficoltà di omologazione al modello statale delle aree protette, viene dunque portato all'attenzione generale ed anche di questo non posso che essere lieto. Date le sue dimensioni, esso è comunque sempre stato di rilevanza nazionale, anche se pochi fuori dalla Lombardia se ne erano accorti. Ma ora l'evoluzione in corso del modello delle aree protette lombarde è di tale portata, e per molti versi così "scandalosa" per gli equilibri generali, che si pone come uno dei principali motori del cambiamento. Penso sia quindi utile riassumere i momenti fondamentali della posizione lombarda rispetto alla legge 394/91 e le attuali, coerenti decisioni. Devo innanzitutto sottolineare la moderazione e il senso di responsabilità della Lombardia, che solo ora, dopo quattro anni, manifesta apertamente il suo dissenso nei confronti di un sistema normativo che la penalizza. Non abbiamo mai negato le potenzialità della legge 394/91, ma soprattutto a beneficio di quelle Regioni che hanno iniziato a costituire aree protette dopo il 1991. La Lombardia aveva già vent'anni di esperienza alle spalle e dalla nuova legge rica vava pochi vantaggi e molti problemi.
Consapevoli dell'esigenza di un rodaggio iniziale e per non mettere in difficoltà lo Stato e le altre Regioni, non abbiamo chiesto subito di modificare la legge-quadro per risolvere i problemi lombardi. Ma anzi ci siamo sforzati di trovare soluzioni di compromesso, che, pur non essendo ottimali per le nostre esigenze (ed anzi comprimendo il sistema lombardo in una veste troppo stretta), salvassero il collegamento del sistema stesso a quello nazionale, in attesa di assetti più soddisfacenti.
Per due volte il Consiglio regionale della Lom bardia (ll.rr. 137/93 e 137 bis/95) ha tentato la strada del compromesso e per due volte lo Stato, rinviando le leggi regionali di adeguamento, ha sbarrato questa strada, dimostrando miopia ed arroganza. Gli ultimi sondaggi informali (autunno 1995) per esplorare un estremo tentativo di intesa hanno dato esito negativo. La logica conseguenza, come avevamo avvertito a Firenze nell'ottobre 1995, è che la Lombardia oggi è costretta ad uscire dalla legge 394/91, ma questa volta - si badi bene - non si tratta di un compromesso, bensì dell'affermazione coerente di un'identità, che va ben oltre la questione della caccia, nell'ambito di un programma preciso di riforma normativa, programmatoria ed organizzativa, definito nel documento strategico approvato con deliberazione 17/5/2995, n. 6/4762. Questa è una di quelle decisioni da cui non si torna indietro.
Il progetto di legge presentato dalla Giunta regionale prevede la riclassificazione dei parchi regionali, articolati nelle classi dei parchi fluviali, montani, agricoli, forestali e di cintura metropolitana. Successivamente, nei tempi dettati dal legislatore regionale, si prevede il parziale rientro nella legge 394/91 mediante definizione, con lo strumento del piano del parco regionale, di aree a parco naturale aventi le caratteristiche e soggette alla disciplina della legge stessa, con particolare riferimento all'esercizio venatorio.
Questo impegno della Regione Lombardia, che intende continuare a costruire un sistema di aree protette funzionale alle sue necessità, non significa affatto isolamento dal resto del Paese, ma coerenza che deriva dalle proprie buone ragioni e coraggio nell'aprire nuove strade nell'interesse di tutti.
Esso comporta ovviamente anche la richiesta di modificare la legge 394/91, per garantire all'intero sistema delle aree protette lombarde un giusto riconoscimento da parte delle leggi dello Stato. Ma questa richiesta non si pone più in termini di urgenza per la Lombardia. Deve iniziare una nuova stagione di discussione più serena, in cui tutti si sforzino di capire meglio le ragioni degli altri per un progresso generale della politica di difesa della natura e del paesaggio in Italia. E semmai la necessità di riaprire e chiudere presto la discussione deve essere valutata nell'interesse di tutto il Paese.

 

2. Perché non si deve avere paura del cambiamento

La diffusa ostilità nei confronti di ogni ipotesi di modifica della legge 394/91 dipende da complesse ragioni, a cui mi sforzerò di dare una risposta.
Spesso nei nostri convegni e tavole rotonde si fa, più o meno consapevolmente, il gioco di chi è più ambientalista degli altri. Anche se per la mia storia personale a questo gioco potrei avere qualche titolo anch'io, esso non mi è mai piaciuto, perché mi sembra che alimenti più che altro la vanità e presunzione dei singoli, ma sia sterile o addirittura fuorviante sul piano dell'analisi oggettiva e razionale dei problemi.
Si dà troppo frettolosamente per scontato che chi difende il quadro attuale della legge sia per ciò stesso schierato a difesa dei parchi e chi lo vuole cambiare schierato contro: si tratta di una visione manichea, di un dogma ideologico contraddetto clamorosamente dalla realtà.
Il caso lombardo fa scandalo proprio perché contraddice il dogma: in Lombardia sono le forze antiparco ad utilizzare la legge 394/91 come il principale grimaldello per scardinare il sistema dei parchi regionali costruito con tanta fatica da un'intera generazione, in particolare ridimensionando aree strategiche, ma che non hanno requisiti di alta naturalità.
Chi si stupisce del fatto che la stessa legge in alcune zone d'Italia sia combattuta ed in altre difesa dalle stesse forze dimostra di confondere gli strumenti con i valori. I meccanismi della legge 394/91 sono strumenti che, al mutare delle condizioni locali, possono cambiare segno, trasformandosi da positivi a negativi.
Questa situazione si è determinata a motivo della forte diversità esistente tra le Regioni del nostro Paese. La Lombardia non è omologabile non solo perché ha scelto, nell'ambito della sfera di autonomia riconosciutale dalle stesse leggi vigenti dello Stato, di sperimentare una propria via nella costruzione dei parchi, ma anche e soprattutto perché, a causa del suo sviluppo socioeconomico, ha esigenze oggettivamente diverse da quelle di altre Regioni.
Questa esperienza non contraddice le altre, ma anzi arricchisce il quadro complessivo con nuovi contenuti. Di fronte ad una diversità che non è una devianza, mi sembra che il vero ambientalismo, per le sue radici profonde, dovrebbe avere un atteggiamento di attenzione e valorizzazione e non già di intolleranza e rifiuto.
Ma, come si è già accennato, la diversità del modello lombardo va ben oltre la concezione delle aree protette regionali, perché propone la sua integrazione a rete con sistemi di aree protette provinciali e comunali e la definizione di nuovi strumenti di difesa, gestione e sviluppo della natura e del paesaggio su tutto il territorio, con una forte valorizzazione degli Enti locali, nell'ambito di una nuova legge-quadro, di cui le aree protette costituiranno un titolo. Il programma approvato dalla Giunta regionale propone inoltre una revisione organica dei rapporti Stato-Regioni ispirata ai principi federalisti.
Per realizzare un programma così impegnativo è necessaria una forte spinta propulsiva al cambiamento. Al di là dei contenuti delle singole proposte, su cui oggi si può solo avviare una di scussione, è importante riflettere sulla disponibilità delle forze ambientaliste a muoversi nella direzione di radicali cambiamenti. Mi sembra francamente che essa sia ancora scarsa, soprattutto a motivo di un atteggiamento diffuso di diffidenza nei confronti del processo di trasformazione in atto nel Paese, caratterizzato dal passaggio dalla la alla 2a Repubblica.
In una situazione politica in forte movimento come quella attuale dell'Italia, chi sceglie di stare fermo limitandosi alla difesa degli assetti esistenti, a mio parere si colloca da solo in una posizione di svantaggio. Ma soprattutto è la concezione di un ambientalismo statico che deve essere rifiutata.
Il vero ambientalista è dinamico, non si accontenta mai delle posizioni acquisite, ma va continuamente alla conquista di nuovi territori ed è in ansia, perché sa che il tempo potrebbe lavorare non contro di lui (destinato comunque ad acquistare più peso) ma contro gli obiettivi che gli stanno a cuore, nel senso che i problemi ambientali di domani, se non si interviene tempestivamente, saranno probabilmente più gravi di quelli di oggi.
Nessuno oggi ha parlato dell'esigenza di difendere la natura ed il paesaggio su tutto il territorio con strumenti efficaci. Forse molti ambientalisti si accontentano di costruire il migliore dei mondi possibili (secondo il loro modello) nel 10% del territorio nazionale costituito a parco e forse in questa aspirazione, a conti fatti modesta, hanno anche alleati che ambientalisti non sono.
I cambiamenti in atto nella transizione tra la la e la 2a Repubblica possono essere anche un'occasione di rilancio della politica ambientale, e per questo è necessaria una ricognizione lucida e realistica, ma non faziosa e preconcetta della situazione.
E' vero che i processi, gli interessi ed i comportamenti contrari alla difesa dell'ambiente sono ancora assai diffusi nella società, ma è anche vero che si va estendendo progressivamente una nuova cultura ambientale, soprattutto presso i giovani, che moltiplica le potenzialità di collaborazione nei vari ceti sociali e gruppi politici, sia pur con sensibilità e proposte diverse, che vanno valutate con obiettività e possono arricchire sinergicamente la politica ambientale. L'ambientalismo deve essere trasversale rispetto alla politica.
Mi piacerebbe un ambientalismo che facesse proprio il detto evangelico: li conoscerete dai loro frutti. I frutti ambientali della la Repubblica li conosciamo: nessun altro grande Paese europeo ha sperimentato negli ultimi 50 anni una perdita così devastante e dolorosa del proprio patrimonio naturale e paesistico. I frutti ambientali della 2a Repubblica non li conosciamo ancora, ma dipendono anche da noi: l'ambientalismo non può restare ai margini di un grande movimento per la riforma dello Stato.
Per crescere bisogna anche saper riconoscere i propri errori e purtroppo il clima che ho respirato oggi - tranne voci isolate che esprimono dubbi - è di un'autocelebrazione che mi sembra fuori dalla realtà. Dobbiamo invece avere il coraggio di riconoscere che perfino le nostre realizzazioni migliori, frutto di battaglie e di passione civile, hanno dei limiti e devono essere corrette. L'autocritica non è una manifestazione di debolezza, ma di maturità.
Innanzitutto c'è stato un difetto di metodo nell'aver sottovalutato la complessità del fattore umano: spesso abbiamo trascurato interessi, tradizioni, sentimenti e se vogliamo anche pregiudizi e risentimenti di chi, come le popolazioni locali, veniva da noi chiamato a svolgere un ruolo da protagonista nella realizzazione dei parchi, e siamo rimasti male quando ci hanno rifiutato. Mi piacerebbe un ambientalismo meno astratto, che sapesse lavorare maggiormente con la gente e definire i suoi obiettivi in un giusto ordine di priorità. Il problema della caccia non è l'unico e neppure il più importante e perciò è assurdo che continui a monopolizzare l'attenzione generale, consumando tempo ed energie preziose. C'è un eccesso di settorialità negli interessi di una parte del movimento ambientalista, che è impolitico, perché può far vincere le battaglie ma perdere le guerre. Mi piacerebbe un ambientalismo che mettesse al primo posto i problemi degli interventi per la riqualificazione del territorio, i servizi di fruizione culturale e ricreativa dei cittadini, le nuove tecnologie, professioni ed attività economiche alternative per creare nuovi posti di lavoro nei parchi, facendo appello soprattutto alle capacità creative delle giovani generazioni. Se non riusciremo a dare risposte credibili in tempi ragionevoli a questi problemi, è fatale che l'esperienza dei parchi subisca una crisi di rigetto.

 

3. Principi di un possibile programma di riforma della legge 394/91

Nell'autunno scorso ho avanzato la proposta di avviare un confronto su modifiche della legge 394/91 ispirate a principi federalisti, attirandomi la violenta reazione di molti che mi hanno accusato di voler riaprire una stagione di con flitti tra lo Stato e le Regioni, fortunatamente ormai da tempo chiusa. Ancora nella riunione di oggi ho ascoltato interventi di totale chiusura nei confronti di quello che sta diventando il principale problema del nostro Paese.
Mi chiedo in quale parallelo mondo virtuale vivano i miei interlocutori. Da anni in Italia il confronto tra localisti e centralisti ha assunto punte di un'asprezza ineguagliata in tutta la nostra storia unitaria. Quasi tutti i partiti oggi fanno a gara nel proporre riforme dello Stato di stampo federale. Di fatto la stagione delle deleghe e dei trasferimenti di competenze statali alle Regioni e delle attribuzioni dirette a Province, Comunità montane e Comuni si è riaperta alla grande con lo specifico decreto legislativo unico in attuazione della legge finanziaria 1996, attualmente in corso di discussione.
Non si capisce perché proprio la materia delle aree protette dovrebbe essere isolata da una di scussione sulla riorganizzazione dello Stato che non è mai stata così estesa e radicale. Sono convinto - e lo dico da italiano che ama il suo Paese e lo vuole unito - che un'unità più articolata sia necessaria ed utile anche e soprattutto nel settore del territorio e dell'ambiente e quindi della natura e del paesaggio e delle aree protette.
Alcuni osservatori hanno usato l'immagine del pendolo nei rapporti Stato - Regioni, dove i due estremi sono il D.P.R. 616/77 che definì il 2°, corposo trasferimento di competenze alle Regioni, segnando il momento del massimo regionalismo, e la legge 142/90 sulle autonomie locali e la coetanea legge 394/91 sulle aree protette, che hanno caratterizzato il massimo centralismo di ritorno.
Chiaramente il pendolo sta ora tornando dall'altra parte. Ma questa immagine rivela anche un'incertezza e un gioco delle parti in cui sostanzialmente il nostro Paese ha perso tempo prezioso, in un mondo i cui movimenti non sono così graziosamente pendolari. Siamo costretti dalla storia a riaprire la discussione sulle competenze Stato-Regioni, ma dobbiamo chiuderla presto per consentire finalmente all'Italia di lavorare in concordia e riprendere il posto che le spetta in Europa e nel mondo.
In una prospettiva federale, nell'intera politica ambientale i poteri dello Stato dovrebbero a mio avviso caratterizzarsi soprattutto per le decisioni strategiche, mentre le competenze operative tranne poche giustificate eccezioni - dovrebbero essere trasferite alle Regioni, consentendo a ciascuna di queste un ampio margine di autonomia nell'organizzazione dei propri Enti locali, coerente con le specifiche identità ed esigenze territoriali e socio-economiche.
La discussione non può essere limitata alla pur importante questione di parchi nazionali. Chiediamoci piuttosto se l'impianto complessivo della l.n. 394/91 sarebbe compatibile con qualsiasi modello di Stato federale; la risposta non può che essere negativa. La legge infatti attribuisce allo Stato molte funzioni di intervento diretto e di amministrazione attiva (sistemi informativi - territoriali, programmazione generale delle aree protette, ripartizione delle risorse, sorveglianza) che in uno Stato federale dovranno comunque essere decentrate.
La pesantezza e la macchinosità delle procedure finanziarie, che passa attraverso la valutazione dei singoli progetti, appare già oggi da tutti i punti di vista indifendibile, perché in netto contrasto con la stessa nuova politica finanziaria dello Stato. La presenza capillare sul territorio del Corpo forestale dello Stato con compiti di sorveglianza e - a mio avviso - anche l'applicazione su aree vastissime della figura giuridica dei parchi nazionali controllati dal Ministero dell'ambiente, non possono non essere imbarazzanti nella prospettiva federale.
Certamente una radicale riforma della legge 394/91 in senso federalista non è senza problemi. Si deve riconoscere con franchezza che, se oggi le Regioni del centro-nord sarebbero in grado di gestire le aree protette (inclusi i parchi di interesse nazionale) in modo più efficiente dello Stato, molte Regioni meridionali si trovano in difficoltà. Ma ciò non giustifica la persistenza di forme di centralismo ottuso, che mortificano e soffocano le energie e potenzialità delle Regioni più mature.
Piuttosto il ritardo delle Regioni meridionali sollecita la definizione di diversi meccanismi correttivi e solidaristici. Innanzitutto si può pensare di attribuire in partenza a tutte le Regioni la stessa larga autonomia, salvo rafforzare l'assistenza dello Stato nei confronti delle Regioni meridionali e gli stessi poteri sostitutivi in caso di inadempienze.
Ritengo anche che si debbano decisamente rafforzare i rapporti tra le Regioni settentrionali e quelle meridionali, che sono oggi del tutto insuffficienti, soprattutto se paragonati ai rapporti allacciati con altre Regioni europee. Nella prospettiva di una Camera delle Regioni, occorre costituire Comitati regionali permanenti sulle varie tematiche ambientali, incluse la natura ed il paesaggio, che alimentino programmi e proposte di legge comuni. Inoltre ciascuna Regione del nord potrebbe gemellarsi con una del sud su singoli temi (ad esempio: Lombardia e Campania, accomunate dalla presenza di grandi aree metropolitane) .
Accanto al rapporto Stato-Regioni, è importante ridefinire il rapporto Regioni-Enti locali. Finora il dibattito sulle aree protette ha nettamente privilegiato i ruoli dello Stato e delle Regioni, che si riflettono nei parchi omologhi, trascurando complessivamente il ruolo degli Enti locali, anche se con alcune significative eccezioni come quella della Lombardia, dove tutte le aree protette regionali sono state affidate in gestione agli Enti locali. Ma soprattutto sono stati trascurati l'esigenza di reti locali di aree protette, d'interesse provinciale e comunale e il problema più generale della tutela diffusa della natura e del paesaggio, che esce dalla stessa concezione giuridica delle aree protette e postula quindi una revisione ben più radicale della legge 394/91, secondo le indicazioni contenute nel documento programmatico della Regione Lombardia.
Queste prospettive portano a rivalutare decisamente il ruolo degli Enti locali, i quali non hanno torto quando lamentano una sottovalutazione o addirittura una prevaricazione nei loro confronti. Ma questo problema non può giustificare l'ennesima operazione centralista dello Stato, quale sarebbe l'inserimento dei rappresentanti degli Enti locali nel Comitato nazionale delle aree protette. Il legislatore nazionale ha altri mezzi per favorire una crescita del sistema verso il basso, lasciando più correttamente alle singole Regioni, nel rapporto collaborativo con i propri Enti locali, la scelta degli strumenti e delle forme organizzative più idonee.
Si può certo affermare che la legge 394/91 ha introdotto in taluni settori il principio di cooperazione, e questa è cosa buona. Ma a tale principio deve essere affiancato, con ben altra estensione e coerenza, il principio di sussidiarietà, sia nei rapporti Stato/Regioni che nei rapporti Regioni/Enti locali.