PARCHI | ||
Rivista del Coordinamento Nazionale dei Parchi e delle Riserve Naturali NUMERO 18 - GIUGNO 1996 |
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La protezione dell'ambiente costiero Silvano Riggio * |
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Usi produttivi e improduttivi della fascia costiera Oceanologi e biologi marini sanno bene che, a dispetto della sua apparente uniformità, il mare è un sistema complesso, non meno differenziato ed articolato della stessa terraferma. Nel sistema terra-mare la fascia costiera è il luogo critico, almeno dal punto di vista della gestione delle risorse. Essa è per definizione l'interfaccia al limite fra terra, acqua ed atmosfera ristretta a non più dell'l% dell'intera superficie oceanica, ma nella quale si addensa oltre il 90% della vita marina: al loro confronto il 99% delle acque più al largo sono pressoché sterili, tanto da essere un "liquido deserto". Non ha senso parlare di protezione del mare senza considerare in primis il ruolo della fascia costiera e la sua condizione "subordinata" rispetto all'entroterra. Il mare si gestisce quindi proteggendo soprattutto il confine con la terra emersa e pianificando razionalmente la distribuzione e lo sviluppo delle attività umane. Un corretto programma di organizzazione del territorio applica le leggi cardine dell'ecologia moderna e soprattutto realizza il principio della contiguità nel mosaico territoriale di fasce "produttive" (soggette cioè allo sfruttamento delle risorse e perciò "inquinanti" o nocive per l'ambiente) e di zone "improduttive" ("non inquinanti"), sottratte allo sfruttamento e soggette a tutela. In quest'ottica i parchi marini si inseriscono come aree di particolare biodiversità e dall'interesse paesaggistico eccezionale, da conservare intatto, ma anche da adibire ad osservatorio privilegiato per lo studio di un ambiente in condizioni naturali o controllate. |
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Tutela del mare e maricoltura "Attività produttive" - e quindi inquinanti della fascia costiera sono: la portualità, le industrie litoranee, la pesca, il turismo di massa e la maricoltura. Quest'ultima è forse la più insidiosa, in quanto artatamente propagandata come "non inquinante" e compatibile con il mantenimento di alti standard ambientali1. Obiettivo della maricoltura (che comprende le varie forme di piscicoltura, molluschicoltura e crostaceicoltura) è stato in tempi non lontani l'incremento delle biomasse a qualsiasi "costo ambientale" con l'acquisizione di reddito immediato: d'altronde è giusto che sia così (anche l'agricoltura industriale è inquinante, e purtroppo necessaria!), ma con juicio!. Essa si compone di un insieme di operazioni che hanno luogo a tutto discapito della biodiversità e della conservazione dello statu quo ambientale. Se gli impianti sono realizzati in aree costiere inadatte e condotti al di fuori di certe regole, le conseguenze negative sono inevitabili. Le più evidenti sono: l'aumento della torbidità, l'inquinamento delle acque e dei fondali, il guasto del paesaggio, l'abbassamento della diversità con le inevitabili perdite economiche e l'abbassamento della qualità della vita. Quando i gabbioni per gli allevamenti vengono impiantati presso i posidonieti, il risultato è la distruzione di questi ultimi, con la conseguente erosione dei fondali, la loro contaminazione, e con danni irreversibili alla pesca costiera. Altri pericoli sono l'inquinamento genetico conseguente alla fuga di esemplari "addomesticati", e la diffusione di parassitosi nelle popolazioni selvatiche. Non potrebbe essere diversamente, visto che dal punto di vista termodinamico l'acquacoltura fa parte dei processi ad entropia positiva (o entropicamente positivi), mentre la conservazione dell'ambiente è un processo negentropico. Un accordo fra i due opposti principi di gestione del territorio è apparentemente impossibile, ma lo sforzo congiunto di maricoltori ed ecologi permette di abbassare i costi ambientali sacrificando un po' dell'una e un po' (o molto) dell'altra. Esistono anche ecosistemi nei quali l'uso moderato delle risorse non ha esiti distruttivi. Fra essi sono le lagune costiere, le antiche risaie indocinesi, le saline, alcuni spots ai margini delle masse continentali vivificati da fenomeni di upwelling, gli atolli dei tropici e qualche ecosistema agricolo delle nostre regioni coltivato per secoli con tecnologie tradizionali che andrebbero recuperate e riproposte in chiave attuale. |
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I parchi marini Alla luce delle cognizioni attuali, un parco marino dovrebbe essere un "mesocosmo" di dimensioni ottimali, sistema di riferimento per processi che hanno luogo senza l'intervento diretto dell'uomo, ma sotto il monitoraggio costante delle principali variabili biotiche ed abiotiche2; in altri termini, un modello dell'ambiente naturale calibrato sulla mesoscala. Oltre che principio di ecologia, l'incompatibilità della conservazione dell'ambiente con lo sfruttamento delle risorse è un dettame di legge, codificato nella ripartizione in zone a gestione diversificata: la "zona A" rappresenta l'area di maggiore interesse naturalistico; essa è accessibile soltanto per ragioni di ricerca scientifica e vi è interdetta qualsiasi attività di sfruttamento o ricreativa; in pratica rappresenta un "mesocosmo" utilizzabile come laboratorio ecologico di pieno campo. La "zona B", che normalmente confina con la zona A, prevede lo svolgimento di attività limitate di sfruttamento, generalmente concesse ai soli residenti. Queste sono controllate dalle autorità del parco e devono indirizzarsi allo "sviluppo sostenibile". Le possibilità gestionali si ampliano nella "zona C", ma sempre nel rispetto dell'ambiente. La "zona D", ai limiti dell'area protetta, apre la transizione verso la libera fruizione. In una riserva-tipo risulta così una "ripartizione embriciata" dello specchio d'acqua, nella quale la "zona A" è in genere la più interna (o al massimo è marginale), circondata da una vasta "zona B" a sua volta inglobata in una "zona C" estesa su un'area decisamente maggiore della precedente. Non ha senso istituire zone A su grandi aree, del tipo di quelle in uso nei parchi terrestri. In questi ultimi, infatti, una semplice recinzione basta ad isolare (a volte) efficacemente l'area di "tutela integrale" (ma non sempre!). Resta beninteso aperto il problema dell'invecchiamento genetico delle specie all'interno di un'area limitata, con conseguenze sulla loro stessa sopravvivenza. Nell'ambiente marino non esistono "spots" isolati, dato che l'acqua non ammette confinamenti ermetici e consente la rapida diffusione delle sostanze in soluzione o galleggianti. Inoltre le correnti trasportano passivamente gli sciami delle disseminule planctoniche: nessun luogo sommerso resta pertanto immune da "contaminazioni" chimiche o biologiche, specie se situato sotto costa. Oltre a non portare vantaggi sul piano della tutela, l'ulteriore estensione della zona A finisce per essere impopolare, in quanto accentua gli aspetti proibizionistici e punitivi del parco, senza sottolinearne i lati positivi. Sarebbe piuttosto auspicabile la cauta apertura all'uso balneare controllato, in considerazione del minimo danno all'ambiente causato dai bagnanti3. Importantissima è invece la scelta del sito, che, oltre ad essere in buone condizioni esso stesso, deve soprattutto riflettere l'assenza di fenomeni di degrado nell'entroterra, la mancanza di scarichi inquinanti e/o di fonti di torbidità (esempio: discariche, foci fluviali, pendii dissestati, eccetera). Scogliere artificiali composte da elementi di calcestruzzo o da relitti di navi possono essere installate sul limite esterno della "zona A", allo scopo di delimitare quest'ultima e proteggerla dalle incursioni dei pescherecci a strascico4. Reefs artificiali e FADs5 possono ancora essere immersi nelle zone B e C a fini protettivi, di ricerca e monitoraggio, oltre che di recupero dei fondali degradati. E' ovvio che tali iniziative si fondano su una perfetta conoscenza dell'habitat nonché su un'accurata pianificazione dell'ambiente. In questo senso almeno va interpretata la possibilità di incentivazione di un ripopolamento, prevista dall' articolo 1, punto 7, della legge 41 . Sotto questo aspetto le riserve naturali italiane, che sono le più recenti, si differenziano in misura sostanziale dai "cantonnements" francesi, che hanno il fine di migliorare la pesca. La stessa indeterminazione caratterizza le aree protette spagnole e quelle della ex Yugoslavia. |
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Riserve marine ed aree di ripopolamento Sulle misure per la protezione dell'ambiente marino regna una grande confusione non solo nella massa del pubblico, ma fra gli stessi addetti ai lavori. A prescindere dal frequente qui pro quo che vede nei parchi l'unica misura per la conservazione, non si distinguono facilmente i provvedimenti per la tutela dell'ambiente da quelli intesi al miglioramento delle produzioni ittiche e della pesca. Un equivoco frequente, già accennato coi "cantonnements" francesi, ma di cui fa giustizia la legge quadro italiana 979/1982, è la confusione fra riserve marine propriamente dette (e parchi), zone di tutela biologica ed aree di ripopolamento . Va anzitutto sottolineato che le riserve marine sono intrinsecamente destinate ad un ripopolamento passivo, in virtù dell'effetto favorevole che la sospensione della pesca ha sull'aumento delle popolazioni (vedi al proposito il tentativo condotto dall'ITPP nel Golfo di Catellammare). Non vale tuttavia il concetto inverso, in quanto le aree di ripopolamento attivo non possono essere considerate riserve naturali. Ciò perché in questo caso il ripopolamento è conseguenza di una serie di interventi esterni consistenti nella semina di avannotti, nella posa eventuale di habitat e di barriere artificiali anti strascico, nella somministrazione di alimento, eccetera, tutti fatti che alterano la fisionomia e l'idrologia dei fondali. Le riserve marine inoltre vanno localizzate in aree marine oligotrofiche, dalle acque limpide, mentre le zone di ripopolamento andrebbero ubicate in acque da meso- ad eutrofiche, ad alta produttività biologica e a bassa trasparenza. Le zone di ripopolamento possono porsi ai limiti od in prossimità delle riserve marine, ma non possono sostituirsi a queste ultime. E' opportuno che la scelta di entrambe sia operata secondo una visione coordinata della gestione dell'ambiente costiero in modo che le aree di protezione integrale, le zone di ripopolamento e gli specchi d'acqua destinati alla pesca e/o maricoltura si integrino in un sistema articolato privo per quanto possibile di interazioni dannose all'ambiente ed alla produttività biologica3. |
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Requisiti delle aree da tutelare Ritomando al tema iniziale, va nuovamente sottolineato che l'istituzione di aree protette da sola non risolve il problema della conservazione dell'ambiente costiero; al più serve a salvare dalla speculazione e dal degrado alcuni biotopisimbolo caratterizzati dal prevalente interesse biologico e paesaggistico. Questi, in particolare, dovrebbero assurgere al ruolo di "parchi", comprensivi, secondo Cognetti (1990), della fascia sommersa e dell'entroterra. E' indubbio che essi devono possedere requisiti paesaggistici e, in egual misura pregi scientifici e culturali talmente importanti da fame al contempo dei biotopi unici, simbolici - in quanto espressivi dei valori ambientali e culturali di un'intera regione - e vulnerabili (suscettibili cioè della perdita irrimediabile delle caratteristiche di unicità e di interesse in seguito ad interventi impropri o inadeguati). E' chiaro che i biotopi con caratteristiche talmente particolari sono necessariamente un numero molto limitato, e la maggior parte di essi sono da tempo località di grande richiamo turistico, fortemente antropizzate e pertanto poco gestibili dal punto di vista protezionistico: per quasi tutti il requisito della vulnerabilità è purtroppo superato, mentre per la maggior parte si pone il problema del risanamento e del restauro paesaggistico. Un loro elenco esemplificativo potrebbe includere il promontorio di Portofino; l'isola d'Elba; Capo Palinuro; Capo Caccia e il Golfo di Orosei; lo scoglio di Vervecie e le isole dei Galli; Stromboli9 - Panarea; la costa di Naxos con la spiaggia di Mazzarò; le isole Egadi; le coste del Gargano; le isole Tremiti; il Delta del Po; la laguna veneta; Miramarel°. Si tratta, come si vede, di non più di una quindicina di aree, in gran parte incluse nell'elenco ministeriale, e note universalmente. Quasi tutte evocano colte reminiscenze letterarie e suscitano immagini romantiche che l'attuale stato delle acque e l'assalto turistico fanno apparire anacronistiche ed appannate da una spessa vernice retorica. Alla stregua dei grandi beni monumentali e delle località archeologiche, la funzione principale di parchi e riserve dovrebbe essere l'educazione ambientale e la divulgazione della cultura ecologica. Per tale scopo le aree tutelate devono essere anzitutto attrezzate per la didattica e la formazione, devono condurre la sperimentazione e la ricerca sulla conservazione della diversità e il miglioramento del paesaggio. La protezione dell'ambiente tout court nasce piuttosto dalla pianificazione del territorio, che va sviluppata anche e soprattutto nelle aree urbane ed in quelle più spiccatamente "produttive" (cioè agricole ed industriali) al fine di migliorarne la vivibilità: tanto più tale concezione è valida per il mare e la fascia costiera. In una tale visione della gestione territoriale è essenziale la formazione degli specialisti in scienze ambientali (e a tal fine bisogna anche sottolineare che sia il corso di laurea in scienze biologiche che il più "moderno" in scienze ambientali sono del tutto inadeguati) e la sapiente applicazione dei principi di gestione del territorio. |
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Criteri di scelta Cruciali sono i criteri per la scelta delle aree da destinare a riserve marine, oggetto di numerosi convegni (ad esempio: i convegni di Castellabate, Salemo del 1973, del Grstss di Firenze e di San Teodoro del 1989; la Tavola rotonda del Convegno Uzi 1990, il Convegno Sibm di Cagliari del 1991, eccetera) e di pubblicazioni scientifiche. In ogni sede è stato ribadito il concetto della differenza delle aree marine rispetto a quelle terrestri, che impone l'adozione di parametri di valutazione non corrispondenti a quelli normalmente applicati nella protezione dei biotopi di terraferma. Una corretta scelta dei siti per l'istituzione di riserve marine va inquadrata all'interno di una pianificazione della fascia costiera che dovrebbe prendere in esame sia lo stato dei litorali, sia l'intensità del disturbo ambientale e gli usi attuali. Il diverso valore naturalistico dei biotopi suggerisce l'adozione di una vasta gamma di misure di tutela dell'ambiente marino, che configurano modelli gestionali aggiuntivi a quello di "parchi" e "riserve", e che verranno più diffusamente descritti in seguito. |
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Parametri abiotici di riferimento Criteri universali di giudizio sono a mio avviso la morfologia costiera e la natura dei substrati, a loro volta cause pilota della diversità biologica. La morfologia costiera può ricondursi al grado di "frastagliatura" del litorale, intesa come rapporto perimetro costiero/area di terraferma piuttosto che come perimetro tout court. In termini più attuali essa andrebbe valutata come dimensione frattale dell'interfaccia mare-terra. Esaminiamo in dettaglio entrambi i criteri. |
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La morfologia delle isole Per quanto riguarda le isole, un fattore cruciale è certamente la forma o piuttosto la forma geometrica approssimata. Le isole dal perimetro circolare, in genere coni vulcanici, hanno una minima eterogeneità spaziale, alla quale dovrebbe associarsi una biodiversità dipendente soltanto dalla natura dei substrati e da fattori biogeografici. Ciò in virtù della gradualità di transizione dei fattori ambientali da un versante all'altro, dell'esposizione omogenea ai venti e all'idrodinamismo. Bisogna aggiungere che la presenza di spigoli, oltre a separare versanti caratterizzati da diverso idrodinamismo, causa la formazione di vortici e turbolenze che sono un ulteriore apporto di energia ed aumentano le probabilità di impatto delle disseminule planctoniche sui substrati costieri. In termini più rigorosi, da un'isola (ed "isole" sono a rigore anche le secche e le barriere artificiali) a geometria circolare potrebbe attendersi una diversità anche elevata (a seconda delle condizioni oceanologiche e biogeografiche), ma sostanzialmente uniforme in tutti i distretti, a meno di "interruzioni del continuum spaziale", quali grotte, spuntoni sommersi, rifugi vari. Esempi di isole ad eterogeneità minima sono Pantelleria ed alcune delle Eolie: Alicudi, Filicudi, Stromboli. L'eterogeneità spaziale aumenta grandemente nelle isole a forma quadrata o rettangolare, e, fra queste ultime, si accentua ulteriormente in quelle con l'asse maggiore disposto in senso meridiano in seguito all'instaurarsi di un gradiente latitudinale di variazione dei parametri climatici. La più alta eterogeneità spaziale andrebbe pertanto ascritta alla Sardegna e alla Corsica, e particolarmente a quest'ultima, dove il rapporto fra l'area di entroterra e il perimetro costiero raggiunge i valori più significativi (Riggio, 1989). Volendo portare avanti le conseguenze di tali elucubrazioni, si può ipotizzare che, se la natura geologica delle due isole fosse prevalentemente carbonatica e se la loro latitudine fosse più a sud, entrambi sarebbero un eden di biodiversità! In base ai ragionamenti seguiti, il massimo dell'eterogeneità spaziale va attribuita alle isole poligonali fortemente intagliate: è facile individuare fra queste l'isola d'Elba, le isole Pontine, le Tremiti, Favignana, Malta e Lampedusa. Tutte sono caratterizzate dalla forma irregolare e dalle numerose insenature. In particolare l'Elba, Favignana e Lampedusa hanno forma rettangolare profondamente intagliata; Malta e Lampedusa, di natura calcarea, sono incise da profondi fiordi che ne hanno determinato l'ottima portualità e la presumibile alta biodiversità. |
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Il ruolo dei substrati: le rocce carbonatiche La natura geologica ha una diversa valenza a seconda che si tratti dell'ambiente sommerso o di quello di superficie. Va sottolineata la frequente non corrispondenza o addirittura l'inversione di valori fra il bene paesaggistico della terra ferma e l'interesse biologico dei fondali marini. Molto spesso i due parametri sono antitetici, e il loro contrasto può indurre errori grossolani di valutazione: a paesaggi costieri dotati di grande valore estetico (e dalla biodiversità elevata) spesso corrispondono fondali instabili di scarso o nullo interesse (dalla biodiversità bassa), e viceversa (vedi ad esempio: la costa tirrenica compresa fra Cefalù e Capo Milazzo, gran parte delle coste della Calabria tirrenica, eccetera). Le rocce carbonatiche - dolomie, calcari e calcareniti - sono certamente le più idonee ad ospitare comunità bentoniche ad elevata diversità. Scendendo nel particolare, i substrati dei siti ad alta diversità, vocati alla creazione di un parco marino, sono caratterizzati da substrati rocciosi che offrono maggiori probabilità di fissazione e sopravvivenza alle disseminule meroplanctoniche. Il loro attacco ha luogo in funzione della "rugosità" delle superfici, come dimostrano i risultati di prove sperimentali e i numerosi studi sul fouling. In tal senso le rocce carbonatiche, soprattutto le calcareniti, le dolomie e i calcari, sono le più ricche di asperità e microfessure. Inoltre i substrati carbonatici, alcalini, sono facilmente corrosi dalle secrezioni acide degli organismi fossori ed il labirinto di tubi e gallerie scavato al loro interno permette lo sviluppo di ricche "infaune" o "faune endolitiche" come quelle dominate dai datteri di mare, dalle foladi, dalle spugne corrodenti come le Cliona, dai fiscosomi, eccetera. Non va trascurato neanche il rilascio dal substrato di ioni alcalini, che facilitano la crescita delle biocostruzioni. Un esempio di questa capacità sono le piattaforme a vermeti delle coste della Sicilia nord-occidentale e le formazioni analoghe del sud della Spagna e di Israele'2. Ottime conferme sperimentali sono date dagli spesso vituperati studi sul fouling e sulle barriere artificiali. All'esuberanza degli insediamenti bentonici fa contrasto la nudità e l'asperità delle emergenze carbonatiche di superficie, che si protendono sul mare per lo più prive o quasi di vegetazione. Con l'accentuazione geometrica dei profili ripidi e delle linee rette dell'erosione essi danno luogo a paesaggi aspri, fortemente coinvolgenti sul piano emotivo, che tuttavia nella parte sommersa sono autentici scrigni di biodiversità. L'aridità dei carbonati è un fattore selettivo potente nei confronti delle piante terrestri, che si adattano alle condizioni microambientali più difficili attraverso l'evoluzione di genotipi specializzati: molti sono "endemismi" caratterizzati dalla distribuzione puntiforme e costituiscono pertanto motivazioni primarie per l'istituzione delle riserve terrestri. Per i motivi suddetti tutte le emergenze carbonatiche sono potenzialmente degne di protezione, tanto in superficie quanto nelle parti sommerse, e sono in ogni caso luoghi di immenso valore paesaggistico. Sia l'intagliatura geometrica delle rocce e il carsismo che la trasparenza del mare, riflessa dal colore chiaro delle sabbie, creano un atteggiamento di attrazione verso il mare, che non si ritrova con substrati vulcanici o granitici, e che in parte spiega i costumi marinari di tante popolazioni meridionali. Vale la pena di ricordare che i biotopi più rappresentativi della natura mediterranea e dell'arte classica sono proprio su substrati carbonatici: Cala Gonone, l'isola di Capri, la penisola sorrentina, Capo Palinuro, Siracusa, Eraclea Minoa, l'acropoli di Atene, eccetera. E' difficile associare l'idea di armonia delle forme e di splendore dei colori a contesti naturali che non siano calcarei, nonostante o proprio in virtù della loro aridità. |
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Le rocce effusive Seguono per ordine di rugosità le rocce vulcaniche effusive, dalla superficie tormentata in seguito alla degassificazione delle masse magmatiche; quindi i tufi di maggior compattezza (la maggior parte dei tufi è poco stabile). Esempi di tali substrati si ritrovano sui fondali di Ustica e di Linosa, mentre splendidi tufi concrezionati caratterizzano le isole Ponziane, Linosa e i fondali flegrèi. Al contrario, i basalti, e soprattutto i basalti antichi, offrono grande resistenza alla colonizzazione ed appaiono per lo più nudi sia in superficie che sott'acqua. La loro bellezza è legata al pattem di solidificazione ed alla stratificazione regolare delle colate. Sulla terraferma le rocce vulcaniche sono senza dubbio fra le più ricche di verde e di vegetazione e danno luogo a paesaggi lussureggianti anche in regimi di bassa piovosità o di aridità pronunciata: a verificare quest'affermazione basta il confronto fra Pantelleria e le isole Egadi, oppure fra Linosa e Lampedusa (la prima vulcanica, la seconda calcarea). Nelle isole vulcaniche tuttavia mancano l'armonia delle forme, gli effetti luminosi e la "cultura del paesaggio" che invece esaltano i calcari. Il senso di attrazione esercitato dai substrati carbonatici cede il posto a reazioni di timore o sgomento, che hanno anch'esse valenze estetiche, anche se distorte verso l'orrido. |
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I substrati metamorfici La bassa rugosità dei graniti e delle rocce silicee in genere rende problematico l'insediamento larvale, e pertanto gran parte dei substrati metamorfici appaiono pressoché nudi o ricoperti da uno spessore limitato di organismi. Soprattutto manca l'infauna, a causa della difficoltà della corrosione chimica. Particolarmente nude sono le superfici degli scisti cristallini sulle quali si attaccano soltanto forme pioniere o patine sottili di alghe filamentose. Anche in questo caso valgono le considerazioni precedenti, relative alla ricchezza della coltre vegetale delle coste emerse, in contrasto con la relativa nudità dei substrati sommersi. L'Arcipelago toscano, le isole sarde e gran parte della Calabria tirrenica sono rappresentanti tipici di questa natura geologica, nella quale la bellezza della terraferma supera l'interesse dei fondali, spesso uniformi e deludenti. I parchi marini vanno istituiti più nell'interesse del paesaggio costiero che di quello sommerso. |
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I substrati argillosi L'incoerenza delle argille, delle marme e gessi, costituenti principali dei substrati flyschioidi che caratterizzano parte dei litorali peninsulari e quasi tutta la Sicilia meridionale, impedisce di fatto la colonizzazione bentonica e dà luogo soltanto a spianate fangose di sedimenti fini, colloidali, apparentemente privi di vita. Le acque sovrastanti si intorbidano coi movimenti del mare e la produttività primaria è scarsa. La copertura vegetale della costa emersa, a seconda del sito e dell'intensità delle precipitazioni, può invece essere densa e rigogliosa, contrastando vivacemente con l'abioticità dei fondali. In zone fortemente degradate della Calabria jonica e sulle pendìci inaridite del versante africano della Sicilia, la sequenza spettacolare di colline solcate da calanchi assume connotati paesaggistici molto suggestivi, ancorché legati al degrado. In tali casi è necessario proteggere l'ambiente litorale, mentre non esistono motivazioni valide per la tutela dell'ambiente marino tout court. La sua protezione è soltanto in funzione del paesaggio costiero e dell'eventuale ulteriore degrado. |
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L'integrità degli ecosistemi dell'entroterra Il punto (1) va considerato condicio sine qua non per la salvaguardia degli ecosistemi costieri. Non ha infatti senso proteggere uno specchio d'acqua apparentemente sano, ma situato a valle (anche se a notevole distanza) di sversamenti fognari di qualsiasi tipo, o investito da correnti più o meno eutrofizzate (quelle ad esempio provenienti da aree portuali o da impianti di maricoltura). Tutti i fenomeni di degrado o di instabilità dell'entroterra causano danni all'ecosistema marino: l'erosione accentuata infatti moltiplica il trasporto a valle di materiali particolari contenenti percentuali variabili di colloidi organici o argillosi e di particelle siltose che hanno un impatto distruttivo sull'ambiente costiero. Il dissesto idrogeologico conseguente agli incendi boschivi o alla costruzione di grandi opere cementizie contribuisce al degrado anche per effetto dell'inibizione dei processi metabolici del suolo. Nelle foreste mature (ma anche nelle praterie ben conservate) la vegetazione stabilizza il bilancio dei nutrienti del suolo, favorendo l'accumulo in formna stabile (insolubile) dei nutriliti in eccesso e solubilizzando, nelle concentrazioni ottimali con processi a feedback negativo, soltanto quelli occorrenti al momento: la secrezione di sostanze chelanti (esempio: l'acido malonico e i suoi derivati) attraverso gli apici radicali, ad esempio, converte l'azoto nitrato, - NO3 -. in ione ammonio, NH4+, pochissimo solubile. Gli ioni ammonio "aderiscono" debolmente ai siti liberi del reticolo cristallino delle argille e dei composti dell'humus, costituendo una preziosa riserva alla quale i vegetali attingeranno nei periodi di massimo bisogno, attraverso processi di scambio ionico (in genere con l'emissione di H+). Fenomeni analoghi permettono l'utilizzazione degli altri nutriliti fondamentali. Quando tali controlli (a feedback negativo) saltano in seguito alla deforestazione o all'impatto di pioggie acide, l'azoto nitrato e gli altri nutrienti vengono dilavati con il ruscellamento e finiscono per arricchire le acque costiere: all'ulteriore impoverimento ed instabilità degli ecosistemi a monte corrisponde una forte eutrofizzazione degli specchi marini e d'acqua dolce a valle. Ciò in aggiunta al disturbo provocato dall'aumento del silting. Quest'ultimo fenomeno diventa particolarmente grave ed importante nel caso delle discariche litoranee di materiali terrosi, di macerie e di sfabbricidi dovuti a costruzioni o allo sbancamento di terreni, e a tutto ciò che si riferisce all'edilizia in genere. Le masse di materiali siltosi e di colloidi si distribuiscono su grandissime superfici e restano in sospensione per lungo tempo, depositandosi molto lentamente sui fondali costieri e del largo, dove formano coltri spesse ed impermeabili. Per effetto del metabolismo microbico la concentrazione di ossigeno disciolto dei sedimenti diminuisce drasticamente: si instaura in tal modo un sistema anossico riducente, ad Eh negativo e con formazione di metano, idrogeno solforato, mercaptani ed altre sostanze idrogenate che eliminano le forme di vita aerofile. Le uniche forme di vita restano quelle anaerobie, e l'ambiente precipita nell'abioticità . Una tale situazione si è verificata nel Golfo di Palemmo. Danni non minori rispetto a quelli succitati producono gli scarichi fognari anche se sottoposti a processi di trattamento: le acque trattate sono infatti ricche di nutrienti inorganici (o di biostimolanti in seguito a trattamenti avanzati con impianti dotati di un terzo stadio) ed eutrofizzano non meno degli scarichi non trattati. Fenomeni uguali di degrado sono legati all'installazione non corretta di condutture sottomarine per l'allontamento dei liquami: l'unica soluzione allo smaltimento delle acque usate è il loro riuso sulla terraferma, accoppiato alla riforestazione. |
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La biodiversità Il punto 2, importanza della biodiversità, sottolinea una differenza sostanziale del biota marino rispetto all'ambiente terrestre, che motiva l'opposta disposizione mentale dei "protezionisti del mare" rispetto ai "protezionisti della terra ferma". Il ritrovamento e la conservazione di specie rare (oltre che di paesaggi) sono stati infatti il primum movens per l'istituzione dei primi parchi naturali; lo stesso principio non è applicabile in mare dove ha poco o nessun senso la ricerca di improbabili endemismi, che invece rivestono un ruolo primario nella valutazione degli ambienti terrestri. L'immensità degli spazi oceanici e la funzione di "nastri trasportatori" su lunghe distanze delle correnti marine, impediscono la formazione di popolamenti isolati e danno luogo ad una "panmissi" che rimaneggia in continuazione i patrimoni genetici degli organismi con stadio di sviluppo planctonico. Una conseguenza pratica della "panmissi" oceanica è l'inutilità o la stessa nocività della protezione di certe specie a strategia "r", dotate di larva planctonica ad alta longevità: la tutela o lo stesso ripopolamento reclamati da certe associazioni naturalistiche, per esempio per il riccio di mare (Paracentrotus lividus), rischiano di avere conseguenze nefaste per l'ambiente bentonico. I ricci di mare, infatti, sono brucatori instancabili, capaci di azzerare in breve tempo intere coperture algali, sicché una loro proliferazione incontrollata finisce per diserbare e corrodere la superficie delle coste rocciose fino a fame degli autentici "litosuoli" sottomarini, denudati alla stregua dei deserti di terra ferma. Ben noto è al proposito il degrado delle coste californiane seguito alla distruzione della popolazione di lontre marine, cacciatrici dei ricci. In assenza dei loro predatori naturali, è bene incentivarne la pesca ed il consumo su larga scala. La caccia attivissima che viene data al Paracentrotus lividus e al meno comune Sphaerechinus granularis lungo i fondi costieri della Sicilia garantisce efficacemente la sopravvivenza sia dei posidonieti che delle cinture a cistoseire, e con essi la stabilità degli ecosistemi dell'infralitorale. Soltanto i gruppi sistematici privi di stadio larvale pelagico, come sono, per esempio, certi policheti, molluschi ed i crostacei peracaridi (isopodi, anfipodi, cumacei, misidacei, tanaidacei), sono in grado di differenziare un gran numero di forme che possono isolarsi fino a formare endemismi puntiformi. Casi specifici di formazione e concentrazione di endemismi marini sono le aree semichiuse, dominate da uno o più fattori ambientali, come sono porti e lagune marine, a condizione che la salinità non scenda sotto certi valori critici. Nel caso che la salinità, soprattutto in inverno, tocchi valori inferiori al 32-33%, buona parte delle specie stenoaline talassobie (o più semplicemente marine sensu stricto) viene eliminata, e il biotopo, almeno in via temporanea, assume le caratteristiche di una laguna salmastra, abitata da una comunità tipicamente eurialina e paucispecifica. Il caso su descritto è generalizzabile a tutte le lagune costiere dell'area mediterranea settentrionale, e segnatamente a tutte o quasi le lagune peninsulari italiane, a quelle della Sardegna, Francia meridionale, e del nord della penisola iberica. Affinché si mantengano le caratteristiche marine occorre che il clima sia subarido, come nella Sicilia occidentale, nelle aree meridionali della Spagna mediterranea e del Nordafrica. Biotopi tipici sono lo Stagnone di Marsala, il Mar di Bou Grara (isola di Djerba), la laguna dei Biban nell'entroterra libico, le sebke costiere medio-orientali, eccetera. Sono ben conosciuti nella letteratura scientifica i casi di speciazione che hanno avuto luogo nel porto di Livomo e nell'area della Solvay, dove l'inquinamento ha avuto effetti di "barriera alla dispersione larvale", nello Stagnone di Marsala oltre che nelle lagune nordafricane. Bisogna piuttosto valutare la ricchezza specifica delle comunità, e soprattutto i valori della biodiversità che sono finora il parametro più affidabile. E' chiaro che per tali compiti servono naturalisti ad alto livello di professionalità e non bastano gli amatori dotati di conoscenze approssimate; ancor meno serve l'entusiasmo dei volontari se non sostenuto da una cultura scientifica ben radicata. |
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Talassofilia e talassofobia delle popolazione rivierasche La collaborazione dei cittadini aumenta grandemente le probabilità di una buona riuscita di un'area protetta o di un ripopolamento, così come una reazione di ostilità può portare al fallimento di qualsiasi buona iniziativa. Il fattore umano è quindi importante, ma a mio avviso non va considerato né esclusivo né superiore agli interessi naturalistici, come è stato evidenziato negli schemi operativi proposti da studiosi di area non strettamente biologica. L'atteggiamento delle popolazioni nei riguardi del mare ha radici storiche e ragioni geografiche precise. Un atteggiamento positivo, definibile di "talassofilia", coincide con l'uso tradizionale del mare e delle risorse costiere, che in molte regioni sono state per secoli l'unica fonte di sostentamento. Viceversa l'atteggiamento negativo, o di "talassofobia", si riscontra in quelle condizioni che rendono difficile il rapporto col mare. Osservazioni di La Greca e Sacchi (1957) mostrano la netta prevalenza delle popolazioni contadine "talassòfobe" nelle isole vulcaniche, dove i pescatori sono un'esigua minoranza, o sono del tutto assenti. Tanto più questa situazione si accentua nelle isole circolari costituite da nudi coni vulcanici: vedi i casi di Alicudi e Filicudi. Considerazioni non molto diverse possono farsi per le isole granitiche, e l'arcipelago sardo corso è l'esempio di una terra pastorale profondamente talassòfoba: le emergenze calcaree (per esempio: Alghero) ed alcune prominenze ai margini (capi ed isole) ospitano in Sardegna le uniche etnie marinare, tutte allòctone. Le isole calcaree ospitano invece popolazioni prevalenti di pescatori, e la pesca è sempre stata la fonte quasi esclusiva di sostentamento. Queste ultime isole, oltre all'interesse biologico comparativamente maggiore, sono quelle nelle quali le popolazioni locali mostrano all'inizio maggior ostilità, ma sono più disponibili alla collaborazione una volta che hanno compreso i vantaggi della tutela. Analisi condotte in Sicilia e basate su indicatori attendibili quali la distribuzione delle antiche comunità marinare, l'incidenza economica della piccola pesca, e la densità delle tonnare e di siti archeologici di pesca, mostra che entrambe i comportamenti, di talassofilia, e di talassofobia, hanno una distribuzione complementare e soprattutto che le popolazioni marinare si localizzano lungo le tre estremità dell'isola. Lo stesso procedimento analitico applicato anche alla Tunisia dà risultati analoghi: anche qui le prominenze geogratiche estreme sono le aree più talassofile mentre le parti intermedie sono talassòfobe. La distribuzione attuale di porti e marinerie è confermata dal reperimento di antichi porti, tonnare e stabilimenti per la produzione del garum e della porpora. Un'analisi del tutto sommaria applicata alla penisola italiana mostra anche in questo caso una concentrazione di attività marinare e della piccola pesca alle due estremità nord-orientale e nord-occidentale bilanciata da una concentrazione simile nelle estremità meridionali, anche se indirizzata soprattutto alla piccola pesca. Anche qui le aree intemmedie adriatiche e tirreniche mostrano una rarefazione delle comunità marinare storiche, apparentemente contraddetta (nel versante adriatico) dal fiorire di grandi marinerie di pesca, che sono tuttavia di origine molto recente e nelle quali la pesca è del tipo industriale (lo stesso può dirsi, ad esempio, per Mazara del Vallo, che è un porto industriale sviluppato nel corso dell'ultimo secolo con l'adozione di tecnologie oceaniche). Non è a mio avviso casuale che le aree di maggior interesse biologico siano concentrate nelle zone tradizionalmente "talassofile", e queste ultime siano, almeno a sud, colonizzate da estesi banchi di Posidonia oceanica. |
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Quest'ultima zona comprende almeno tre distretti ben distinti: 1) il Delta del Po; 2) la laguna veneta; 3) il Golfo di Trieste e la costa istriana. |
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Metodologie per lo studio di fattibilità di parchi e riserve marine Ai fini della messa a punto di un piano parco, la conoscenza al dettaglio della flora e fauna dei luoghi sono ancor più importanti, a mio avviso, delle conoscenze di ordine oceanografico. L'applicazione delle metodologie in uso per la Via, opportunamente modificata per gli scopi prefissi, dà risultati di buona leggibilità, anche se necessariamente approssimati. Di maggior utilità si è rivelata l'applicazione dell'Hep (Habitat Evaluation Procedure), realizzata nella formulazione di un piano per la zonizzazione del parco delle Pelàgie. |
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Tale normativa dovrebbe valere per tutte le aree con i requisiti suddetti, a prescindere dall'interesse naturalistico. L'accertamento eventuale dell'esistenza di comunità bentoniche interessanti, o di altri pregi naturalistici, potrebbe suggerire l'emanazione di vincoli e norme precise di protezione, tali da creare una riserva marina integrata alla terraferma. Si configura in tal modo l'istruzione di riserve costiere, con una fisionomia diversa dalle attuali riserve marine e/o riserve naturali terrestri, comprensive sia dell'hinterland che dello specchio d'acqua antistante.
Secondo il principio di urgenza, vanno sollecitati provvedimenti di tutela per le aree che corrono pericoli reali e a breve termine. Tale principio presuppone l'applicazione di vincoli di inedificabilità sulla costa e di realizzazione di opere a mare, nell'attesa dell'emissione di norme precise di salvaguardia. Motivi di opportunità invece suggeriscono il varo di norme che comportino l'estensione automatica ed immediata dei vincoli di tutela a tutte quelle aree marine prospicienti riserve naturali terrestri. |
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La situazione in Italia E' dogmatica l'incapacità del nostro Paese di istituire zone marine protette oltre alle due uniche riserve già funzionanti dell'isola di Ustica e di Miramare. L'immobilismo nel settore si è ulteriormente consolidato negli ultimi anni e minaccia la dispersione del patrimonio di esperienze accumulato dalla Direzione per la difesa del mare. Le iniziative protezionistiche hanno dovuto confrontarsi con l'ostilità costante di gruppi più o meno organizzati di diportisti, speculatori, imprenditori turistici ed altro. In questo vasto schieramenti di oppositori i pescatori sono stati i più morbidi diventando a volte dei conservazionisti convinti. Quando è sembrata placarsi, l'opposizione ai parchi è rinata sotto forma strisciante: il caso delle isole Egadi mostra che i provvedimenti di tutela sono stati un "cavallo di Troia" per introdurre la maricoltura dentro le aree protette. Eppure, per uno di quei paradossi così normali nel nostro Paese, la prima concezione di un parco marino, laboratorio per la conoscenza del mare, sarebbe nata già nella fervida mente di Leonardo da Vinci (Bellamy, 1985), mentre il primo gemme dello studio del mare "in pieno campo" fu gettato a Napoli da Anton Dohm con la fondazione della Stazione zoologica, che consacrò alcuni luoghi, come lo scoglio di Vervecie, gli isolotti dei Galli e le secche della Gajola e di Benda Palummo, alle scoperte più entusiasmanti della biologia marina'5. Un tentativo abbastanza serio di creazione di un'area protetta fruibile da ricercatori e da semplici appassionati fu portato avanti alla fine degli anni '60 da Guido Picchetti e Pietro Dohm a S. Maria di Castellabate, nel Cilento; l'iniziativa però fallì, lasciando per ricordo soltanto una voluminosa raccolta di atti e tanta amarezza nei suoi sostenitori. Il parco di Castellabate è tuttora da istituire, se Dio vorrà! Da una generazione ormai si parla in Italia dell'istituzione di parchi e riserve marine, ma la loro prima comparsa ufficiale ha luogo con la legge 979/82. Nell'articolo 31 è prevista l'istituzione delle seguenti aree protette: 1) Golfo di Portofino; 2) Cinque Terre; 3) Secche della Meloria; 4) Arcipelago Toscano; 6) Isole Pontine; 7) Isola di Ustica; 8) Isole Eolie; 9) Isole Egadi; 10) Isole dei Ciclopi; 11) Porto Cesareo; 12) Torre Guaceto; 13) Isole Trèmiti; 14) Golfo di Trieste; 15) Isola di Tavolara e Punta di Codacavallo;l6) Golfo di Orosèi e Capo Monte Santo; 17) Capo Caccia e Isola Piana; 18) Isole Pelàgie; 19) Punta Campanella; 20) Capo Rizzuto; 21) Penisola del Sinis; 22) Isole del Mal di Ventre. La Consulta del Mare insediata presso l'ex Ministero della marina mercantile impiega all'incirca un quinquennio per arrivare alla costituzione della prima importante riserva marina (l'isola di Ustica). Una riserva di minime dimensioni era già stata istituita anni prima a Trieste, dal Wwf, in corrispondenza del Parco di Miramare. Le 17 aree rimanenti dell'elenco primitivo sono ancora in lista di attesa; per alcune di esse (il parco delle Egadi; l'isola Lachea, eccetera) l'iter amministrativo è giunto alla conclusione, anche se molto resta ancora da fare per giungere al pieno funzionamento. L'intervento della politica e le traversie del Ministero della marina mercantile, fagocitato dal Ministero dell'ambiente, hanno inferto alla pianificazione della costa un colpo che oggi sembra mortale. Un elenco suppletivo di località viene aggiunto con la legge-quadro sui parchi naturali n. 394 del 6 dicembre 1991*. Isola di Gallinara; monti dell-Uccellina secche di Torpaterno; penisola della Campanella - isola di Capri; costa degli Infreschi; costa di Maratea; penisola Salentina (grotte Zinzulusa e Romanelli); costa del Monte Cònero; isola di Pantelleria; promontorio di Monte Còfano - golfo di Custonaci; Acicastello - Le Grotte; Arcipelago della Maddalena (isole ed isolotti compresi nel territorio del Comune della Maddalena); Capo Spartivento - Capo Teulada; Capo Testa - punta Falcone; Santa Maria di Castellabate; monte di Scàuri; monte di Capo Gallo - isola di Fuori o delle Femmine; parco manno del Piceno; isole di Ischia, Vivara e Pròcida, area marina protetta integrata denominata "regno di Nettuno"; isola di Bergeggi; Stagnone di Marsala; Capo Passero; pantani di Vendìcari; isola di Sarl Pietro; isola dell'Asinara; Capo Carbonara. 25 in totale. La Consulta per difesa del mare può, comunque, individuare, ai sensi dell'articolo 26 della legge 12 dicembre 1982, n. 979, altre aree marine di particolare interesse nelle quali istituire parchi marini o riserve marine. Come si vede, lo strumento legislativo non manca: solamente, non viene usato. |
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Considerazioni conclusive La questione dei parchi e riserve marine è paradigmatica di una situazione di fatto nel nostro Paese, dove certe grandi iniziative sembrano biforcarsi nel ramo sterile ed abortivo della burocrazia e nel fertile propagulo dell'opera dei singoli o dei piccoli gruppi spontanei. L'istituzione dei parchi marini è stata un sistema bifasico, con una componente politico-burocratica a sviluppo lentissimo e tortuoso, che poi è diventato retrogrado, ed una componente sociale e scientifica a sviluppo spontaneo e tumultuoso, che ha dovuto rallentare la corsa per mancanza di mezzi e, sopratutto, di operatori. Alla nascita della Sibm (più o meno coincidente con l'inizio del discorso sui parchi) si è partiti da una situazione di assoluta ignoranza della biologia marina nel nostro Paese (a parte gli ottimi studi pionieri di Ghirardelli, Sarà, Cognetti, Giaccone; di quelli dei compianti Enrico Tortonese, Sebastiano Genovese ed Ester Taramelli, e di altri) e si è giunti ad una conoscenza dignitosa dello stato dei nostri mari, nonostante gli scarsi fondi impiegati. Attualmente esistono tutte le potenzialità per portare avanti il discorso, ottimizzare la gestione delle aree costiere ed esportare know-how a paesi terzi, ma dal lato politico amministrativo risponde un cupo silenzio di tomba. I tagli alla ricerca e le giustificazioni di ordine economico fanno il resto per lasciare poche prospettive e scoraggiare i volenterosi. In questo quadro, il ruolo delle Università sembra assottigliarsi, ma gli altri enti di ricerca (a parte la Stazione zoologica) non hanno certo fornito risultati entusiasmanti: molto spesso, come nei casi citati all'inizio, hanno operato contro l'ambiente e contro i principi più elementari dell'ecologia. In compenso, sono diventati consulenti preferenziali degli organi politici. Rivedendo a posteriori il lavoro fatto dalla Consulta, non è chiaro quali siano stati i criteri sempre che ce ne siano stati - per la scelta delle aree, dato che non risulta nessuna codificazione di essi, né dal testo di legge, né da eventuali regolamentazioni successive. Le motivazioni delle scelte sembrano essenzialmente "turistiche": è perciò un caso che esse siano in gran parte quelle coincidenti con i criteri suelencati? Probabilmente no, dato che i biotopi prescelti sono talmente noti dal punto paesaggistico da essere certamente i più belli e ricercati fin dall'antichità. Non è neanche una coincidenza quindi che molti di essi abbiano un ruolo non secondario nell'archeologia e nella letteratura, e siano fra i beni culturali (ed ambientali) più rappresentativi del Paese e del biota costiero mediterraneo. Le critiche sono state frequenti e sono spesso venute dagli stessi componenti della Consulta, che si sono dovuti sobbarcare con intelligenza un lavoro estenuante ed ingrato. Gli studi sono stati in genere carenti, o approssimati, e si sono basati sui dati, quando ce n'erano, di letteratura. Sarebbe stato opportuno, in una situazione siffatta, lanciare un progetto nazionale per la messa a punto di un archivio di dati ambientali sulle singole aree attraverso un sistema articolato di ricerche, nelle quali le sedi universitarie locali avrebbero dovuto avere un ruolo importante (anche attraverso la creazione ex novo di gruppi di ricerca marina). Tutto ciò è stato solo in parte realizzato con alcune aree e con contributi finanziari eterogenei: fra queste sono la Sardegna, l'arcipelago Toscano, le isole Eolie e le Pelàgie. Decisamente carenti sono stati i progetti presentati (ed affidati a suon di miliardi) da vari grossi istituti parastatali intermediarii, che nei dossiers sui parchi hanno trovato fonti cospicue di finanziamento. Un arbitrato scientifico nazionale - ed eventualmente internazionale - avrebbe dovuto curare la revisione finale dei lavori, e questo ruolo sarebbe spettato di diritto alla Società italiana di biologia marina, attraverso i suoi comitati. In assenza di tutto ciò, e nelle fitte nebbie del presente, si prospetta la necessità che la Sibm esca allo scoperto e rivendichi queste sue competenze, facendosi anche promotrice di tutte le iniziative atte a scuotere il Ministero dell'ambiente e la classe politica nazionale dal loro torpore, prima che non ne valga più la pena. |
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NOTE: 1. Nel caso delle isole Egadi, da tempo luogo di ittiocoltura in gabbioni ad opera dell'Enea, si è anche rivendicato un presunto, ma decisamente insostenibile, "miglioramento" della qualità del biota. * Istituto di zoologia dell' Università di Palermo |