PARCHI | ||
Rivista del Coordinamento Nazionale dei Parchi e delle Riserve Naturali NUMERO 18 - GIUGNO 1996 |
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La montagna e i parchi Uomo e ambiente: una cultura maestra in Appennino Salvatore Frigerio * |
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Premessa Ogni volta che mi è stata offerta l'occasione di intervenire in convegni, simposi e dibattiti la cui tematica riguardava il rapporto dell'uomo con l'ambiente che lo accoglie, ho sempre precisato la mia identità: non sono un tecnico, non sono un forestale né un ambientalista, né un ecologo né un etologo. Sono semplicemente un monaco, dunque un benedettino che nella tradizione romualdina - o camaldolese - ha scelto di porre la propria vita in "ascolto" della Parola di Dio e della Parola dell'Uomo, consapevole che con la Parola dell'Uomo si incarna e si rivela la Parola di Dio. Perciò ho scelto il silenzio, non come privazione della Parola ma come strumento fondamentale per l'ascolto della Parola. Nel "codice" che nasce a Camaldoli attorno al 1105-1107, attribuito a Rodolfo IV Priore dell'eremo, si afferma: "...il silenzio senza l'ascolto è morte e quasi tomba di un sepolto vivo; la meditazione senza silenzio non viene a capo di nulla ed è come la smania di un pazzo chiuso in un sepolcro" (1). Dunque una condizione di vita che avverte l'eloquenza del silenzio custodito da luoghi che lo garantiscono. |
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I luoghi del silenzio Quali luoghi? La regola di San Benedetto, fiorita nella verde, lussureggiante Ciociaria, non conosce il deserto fisico, geografico dei padri del monachesimo cristiano germinato tra l'Egitto e la Siria, ma conosce e ricerca il silenzio dell'Appennino, dei suoi boschi, delle sue foreste, dei suoi anfratti e dei suoi valichi. Così lungo l'Appennino fiorisce una straordinaria costellazione di monasteri ed eremi che, sotto il magistero della Parola ascoltata con la guida di Benedetto da Norcia a cui si aggiunge più tardi Romualdo da Ravenna (2), daranno vita e alimenteranno legislazioni finalizzate a salvaguardare e a incrementare le foreste, divenute un luogo naturale del silenzio monastico. |
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La cultura ambientale di Camaldoli Tra le dette legislazioni emerge, per originalità, quella dei monaci di Camaldoli, figli di Benedetto e di Romualdo. Un'originalità evidenziata dai numerosissimi documenti che testimoniano il rapporto dei Camaldolesi con la foresta e con tutto il territorio limitrofo. Infatti, nei testi definiti quali regole o costituzioni, le disposizioni riguardanti la cura dei singoli alberi e dell'intera foresta non sono raccolte in capitoli riservati espressamente a loro, come voci proprie, ma sono inserite in capitoli che si occupano di questioni fondamentali per la vita dell'eremo, quali "Della solitudine dell'eremo et sequestrazione delle celle" e "Dello eleggere i ministri, et ufficiali dell'eremo". Così nelle costituzioni nel Beato Gerardo (1279) la creazione del custode degli abeti è associato alla codificazione del custode dell'eremo: "De Portario Eremi et Abjetum earundem custode" (3). Mi sembra questo un particolare rilevante, perché sottolinea l'ottica con la quale i monaci guardavano alla foresta, a quella loro foresta che con loro cresceva e della loro vita ascetica partecipava. Nei testi ricordati tornano con insistenza le parole "custodire e coltivare" che sono le stesse con le quali, nel libro della Genesi (2, 15), il Creatore affida all'uomo la terra: "lo pose nel giardino perché lo custodisse e lo coltivasse". La dimensione biblica del "progetto divino" da realizzare in armonia con tutta la Creazione emerge anche in questi particolari e l'armonia ricercata come "comunione" con tutto il creato si evidenzia anche nel pensare alla foresta non come a un qualcosa "in più" a cui provvedere, bensì a una realtà con cui vivere. Si arriva così a una reciprocità sorprendente ed esistenzialmente avvertita: i monaci custodivano una foresta che li custodiva. I monaci garantivano la vita alla foresta che garantiva ai monaci il silenzio di cui avevano bisogno per poter ascoltare la Parola di Dio e degli Uomini, e della Storia che andavano (e che vanno) scrivendo insieme. Dai documenti emerge una "gelosa" reciprocità registrata con evidente compiacimento (4). Ma gli stessi documenti testimoniano anche le conseguenze di quel silenzio e di quell'ascolto e cioè i modi per noi oggi sorprendenti con i quali i monaci gestivano l'antropizzazione della foresta, e dunque il rapporto con gli uomini che in essa e per essa lavoravano, e ai quali i monaci riconoscevano e garantivano una dignità ben inusitata in quei tempi e che si esprimeva con l'elargire loro, oltre alla paga normale, la gratuita assistenza, in caso di malattia, nello Spedale attiguo allo stesso Monastero di Camaldoli; la partecipazione agli utili riservata agli operai che svolgevano i lavori più pericolosi quali quelli della fluitazione del legname lungo i corsi d'acqua rigonfiati dai periodi di piena; la pensione di vecchiaia; la dote nuziale alle figlie degli stessi operai e dei contadini che costituivano la popolazione dei villaggi sorti nella proprietà dei monaci ma anche nel territorio limitrofo, come il Casentino. |
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Una cultura di rapporto Un ascolto dunque che si propone come fonte di modalità di rapporto con gli uomini e con il loro habitat. Un ascolto che diventa cultura: i monaci non si occupano di ecologia ma di teologia; non di come far semplicemente "sopravvivere" le foreste per se stesse, ma di come "farle vivere in comunione armonica" con l'uomo, un uomo consapevole di essere depositario di un progetto divino da portare a compimento con tutte le altre creature. Perciò in ascolto di tutte loro, della loro storia, della loro identità espressa da quella storia, del loro "mistero" che può essere solo investigato e mai violentato da presupponenti teorie cadute dall' alto di un ' arrogante presunzione, a volte anche "tecnologica", sfoggiata dall'uomo. Una cultura che ha preservato ambienti vitali perché non li ha considerati musei da conservare in base a strani quanto deleteri archeologismi naturalistici, ma perché li ha considerati "compagni di viaggio" esistenzialmente dinamici come dinamica è la storia dell'uomo loro "custode e coltivatore", direi custode proprio perché coltivatore; custode della vita appunto perché servitore di vita. Una cultura davvero maestra perché, ponendosi in ascolto della storia, ne ha saputo conoscere le linfe diverse e le ha proiettate in altrettante diverse progettazioni così che la "tradizione", colta nella sua più autentica valenza etimologica di "consegna" (traditio), non significa ritorno o ripetizione del passato, ma proiezione nel futuro, consegna al futuro dei valori verificati dal passato; consegna a una progettualità nuova ben fondata su di essi valori. Il binomio "silenzio e ascolto" possiamo allora leggerlo in perfetto parallelo con l'altro, forse più usato, dell' "ora et labora". Il primo ci aiuta a comprendere meglio il secondo. Il silenzio diventa lo spazio naturale della riflessione, della conoscenza, di quella "statio", cioè di quella sosta necessaria a sgombrare la mente da quanto distrae e impedisce un dialogo proficuo con Dio e con l'Uomo, dialogo che è preghiera. L'ascolto è l'attitudine sulla quale ho già insistito e che fa del lavoro dell'Uomo il segno evidente della sua dignità, il segno operante del suo essere protagonista nella costruzione del Regno, o comunque di una "societas" nuova e promotrice di equilibri germinanti dalla responsabile condivisione delle ricchezze, realizzata non secondo mere giustizie distributive ma secondo attento ascolto della dignità di ciascuno. |
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Considerazioni conclusive * Monaco di Camaldoli |