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PARCHI |
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Rivista del Coordinamento Nazionale dei Parchi e delle Riserve Naturali
NUMERO 18 - GIUGNO 1996 |
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Una nuova serie di contributi scientifici |
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Con questo numero la Rivista inizia la pubblicazione di alcuni contributi scientifici di cui è curatore il professore Franco Viola, dell'Università di Padova. I criteri di scelta dei temi e degli autori sono illustrati qui di seguito dallo stesso professore Viola, che noi ringraziamo vivamente per questa sua collaborazione.
Mi è stato chiesto di curare, su Parchi, alcune pagine di divulgazione scientifica. E' un onore che mi viene concesso, ed un incarico non certo di poco conto. Questa rivista ha una sua specialissima connotazione culturale, per la quale vi è privilegiata la trattazione degli aspetti tecnici ed operativi, giuridici, economici e sociali che quotidianamente vengono affrontati da chi gestisce un'area protetta o si confronta coi problemi della conservazione della natura. Non poche sono le riviste specializzate nella diffusione dei risultati della ricerca scientifica; alcune di queste pubblicano note assolutamente mirate alla divulgazione, verso il "grande pubblico", delle più importanti e recenti acquisizioni scientifiche. Qua e là, ogni tanto, compare una nota su qualche aspetto legato alle aree protette; ma nessun giornale si dedica espressamente a saldare la ricerca naturalistica al tema della tutela nei parchi. E' un buon motivo per tentare un impegno in questo senso. Ho tuttavia accettato di prendere questa via ponendomi alcuni vincoli, come 1' uso d' un linguaggio accessibile anche ai "non addetti ai lavori", la scelta di argomenti "trans disciplinari", cioè capaci di coinvolgere insieme più interessi scientifici, lo sviluppo di concerti generali più che di particolarità o di curiosità specialistiche, il minimo ricorso alle formule e ad altre espressioni che possano, d'istinto, allontanare il lettore. "Pochi numeri, poche tabelle, massima chiarezza espositiva"; è quasi uno slogan, ma è stato accettato da me e dai colleghi che si sono già dichiarati disponibili ad affrontare questo nuovo compito.Mi auguro che i risultati siano soddisfacenti, per noi che cominciamo, ma soprattutto per la rivista che ci ospita, la cui storia e il cui nome evocano immagini di un fondamentale impegno sociale. (Franco Viola) |
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Successioni ecologiche, ricolonizzazione
forestale e monitoraggio dei dinamismi
vegetazionali nella gestione di aree protette
Carlo Urbinati * e Franco Viola * |
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Introduzione
In Italia, come in altri Paesi "occidentali", è in atto, ormai da decenni, un processo di riforestazione spontanea. A dispetto di molti diversi fattori di potenziale perturbazione, negli ultimi anni esso ha determinato un aumento della copertura forestale (nel senso più ampio del termine) con una velocità che verosimilmente non ha riscontro, neppure in altre condizioni ambientali, negli ultimi due secoli.
Nel 1985, il 1° Inventario forestale nazionale richiamava l'attenzione sulla presenza di ampie superfici a copertura arborea ed arbustiva assolutamente inattese; pur non avendo quelle caratteristiche fisionomico-strutturali attribuite alle foreste propriamente dette, già allora esse si configuravano come una cospicua potenziale "riserva" cui la natura attingeva per la ricostituzione di più importanti ecosistemi provvisti dei lineamenti ecologici delle foreste.
L'interesse che questi processi di spontaneo cambiamento paesaggistico hanno suscitato è testimoniato dal moltiplicarsi di studi e di indagini territoriali che direttamente e indirettamente su di essi si sono sviluppati.
Un dato che salda trasversalmente i risultati di questi diversi studi, indipendentemente dall'ampiezza delle aree osservate, riguarda la natura dei territori interessati dalla riforestazione spontanea: terreni agricoli marginali od extra-marginali in collina; prati, pascoli e prato-pascoli nelle aree montane e pedemontane; aree di malga, pascoli di alta quota negli ambienti subalpini e alpini. Fanno parziale eccezione solo le aree di pianura, che mantengono salda la loro vocazione agro-industriale e urbana, e non danno quindi, ad oggi, segni percepibili, o importanti d'essere interessate dall'ondata di colonizzazione forestale.
In montagna, tuttavia, anche i centri urbani sono stati interessati dall'avanzata del bosco. Caso emblematico, ma non certo unico, è quello di Cortina d'Ampezzo, dove l'abbandono quasi totale dell'attività zootecnica ha determinato, in meno di 30 anni, un imponente viraggio fisionomico e cromatico del paesaggio vegetale. Gli scenari, un tempo prevalentemente pastorali e quindi dominati da vaste praterie e da lariceti radi, sono oggi qualificati soprattutto dalle strutture residenziali e dal "verde interposto", plasmato alle prevalenti funzioni sceniche e paesaggistiche che quel territorio richiede. Ma anche dove cessa l'influsso del turismo residenziale, la scena è oggi improntata dalla diffusione spontanea dell'abete rosso o di altre specie pioniere, prevalentemente decidue, sugli antichi pascoli di quota e "di casa".
Non si tratta, comunque, di fenomeni legati al turismo elitario.
L'abbandono delle tradizionali attività rurali è un processo determinato da contingenze di ordine naturale, sociale, economico e amministrativo, che, pur se in tempi differenti, si sono riproposti un po' in tutte le regioni, in ogni Paese.
In assenza di particolari fattori limitanti, o di perturbazione, l'abbandono delle colture è sempre seguito dalla crescita non controllata di vegetazione spontanea, ovvero "naturale", che può indurre trasformazioni di struttura e di funzionalità ecosisterniche talmente importanti da imporre al pianificatore valutazioni non di poco conto sui futuri assetti territoriali, non sempre da intendere come fasi transitorie (Urbinati, 1996).
Nelle aree protette, dove è prioritario obiettivo culturale il mantenimento di una adeguata diversità ecosisternica, i dinamismi vegetazionali post-colturali possono anche modificare, nel tempo, la disponibilità e la qualità delle nicchie ecologiche, che non sempre sono più numerose in assetto prossimo-naturale rispetto a quelle offerte da "buoni" assetti rurali.
Nonostante l'importanza scientifica e, come s'è visto, sociale e territoriale, non si è fatta ancora sufficiente chiarezza intomo a questi argomenti. Intomo ad essi ruotano considerazioni circa l'economia delle aree protette e del territorio dismesso, nella sua interezza; altre circa la stabilità delle terre e la loro sicurezza; altre ancora circa l'impegno della comunità a farsi carico della manutenzione di territori che, pur se abbandonati, hanno un preciso assetto di proprietà. Limitatamente agli aspetti scientifico-ecologici, con questo scritto si è voluto dapprima prendere in esame le principali teorie relative alle successioni secondarie e poi accennare all'opportunità di utilizzare il monitoraggio dei sistemi vegetazionali quale strumento integrativo nella gestione di aree protette.
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Successioni: definizioni e cenni storici
I fenomeni che danno corpo alle trasformazioni tipologiche della vegetazione fanno parte di quella famiglia di processi noti come successioni ecologiche. Com'è noto, questo argomento ha animato un appassionante dibattito scientifico, per altro non ancora concluso, che ha dato notevoli impulsi all'evoluzione delle scienze ecologiche, ai diversi livelli di scala che vanno dalla demo ecologia all'ecologia del paesaggio.
Per successione si intende l'occupazione di un determinato bio spazio da parte di una comunità di organismi viventi, ovvero la variazione qualitativa e quantitativa (di composizione, di struttura, eccetera), definita anche in termini temporali, della preesistente componente biotica della stazione, avvenuta in seguito all'azione di fattori di perturbazione naturali o antropogeni (Urbinati, 1992).
Le successioni possono essere primarie, quando l'occupazione da parte di nuovi biota avviene in aree prive, o quasi prive, di pregresse forme di vita, come avviene nei territori lasciati nudi dal ritiro di ghiacciai, da dissesti, da colate laviche, eccetera; le successioni sono invece secondarie quando si manifestano come vere e proprie sostituzioni biologiche, parziali o totali, delle biocenosi preesistenti in una determinata superficie.
Una ulteriore distinzione si fa in considerazione delle cause del cambiamento. In alcuni casi la sostituzione compositiva avviene in seguito a variazioni abiotiche della stazione provocate dagli stessi organismi residenti (successione autogena); in altri casi essa è da ricondurre prevalentemente all'azione di fattori esogeni (successione allogena).
Proprio per questi motivi, quello delle successioni è uno dei concetti, pur se fondamentali, più discussi ed al tempo stesso più confusi dell'ecologia (McIntosh, 1980).
La percezione delle variazioni spazio-temporali nella vegetazione fu oggetto di attenzioni filosofiche da parte dei greci d'epoca classica, come Teofrasto nel IV secolo a.c., per essere poi ripresa da alcuni "naturalisti" d'epoca tardo-repubblicana e imperiale romana (Plinio, Virgilio, Colummelle, eccetera; Spurr, 1952).
Miles (1987) osserva, tuttavia, che solo nel secolo scorso alcuni studiosi europei e nord americani (Cochon, Dawson, Thoreau, Kemer, Douglas) considerarono questo fenomeno non più come una curiosità della natura, ma come processo scientificamente importante, giungendo alla formulazione delle prime teorie sullo sviluppo delle comunità vegetali. Il termine "successione forestale" sembra attribuibile a Thoreau, filosofo e naturalista dei neo-nati Stati Uniti d'America, che lo utilizzò, nel 1863, per descrivere l'insediamento di una quantità di specie caducifoglie in una pineta del nord-est degli U.S.A. in seguito al taglio (Kimmins, 1987).
Ma fu Clements (1916), all'inizio di questo secolo, a fornire un contributo fondamentale alla interpretazione dinamica dei fenomeni ecologici, fino allora fortemente ancorati a una visione statica e a una concezione descrittiva delle scienze naturali.
Egli sviluppò la cosiddetta teoria del mono climax, secondo la quale la composizione specifica e la struttura delle comunità terminali sarebbero controllate da fattori macroclimatici. L'azione di fattori biotici o merobiotici potrebbe solo temporaneamente bloccare, ma perlopiù solo ritardare, il processo successionale verso il climax climatico, e comunque non potrebbe modificarne il percorso.
Altro concetto fondamentale nella teoria di Clements è quello della "convergenza ecologica". Esso presume e postula l'esistenza di un unico traguardo evolutivo, raggiungibile in tempi anche molto diversi secondo i diversi tipi di ecosistema, ovvero secondo gli assetti microclimatici locali, differenti pur se all'interno della stessa regione macroclimatica (Kimmins, o.c.; Miles, o.c.).
Egli definì il fenomeno della successione come "una sequenza di comunità vegetali segnate da una variazione verso forme di vita sempre più evolute... conseguentemente ed inevitabilmente progressiva". Tali comunità vennero indicate come super organismo (teoria organismica) ed il loro processo successionale venne, di conseguenza, paragonato allo sviluppo ontogenetico degli organismi viventi, dando luogo all'idea che potesse esistere una notevole direzionalità e prevedibilità del processo evolutivo (Lepart e Escarre 1983).
Alle teoria di Clements si contrappose ben presto quella di Gleason (1917), definita con l'attributo individualistica. Egli concepì le comunità vegetali come insiemi di individui tra loro indipendenti perché appartenenti a specie diverse (Lepart e Escarre, l.c.). Egli diede vigore ad una visione policlimatica (climax regolati da fattori diversi, di volta in volta geomorfologici, biotici, antropogeni, eccetera) dei processi evolutivi della vegetazione, ritenendo impossibile il determinismo unidirezionale della teoria di Clements e considerando le successioni "fenomeni di straordinaria mobilità, i cui processi non sono guidati da regole fisse... e i cui effetti sono raramente prevedibili". |
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Le teorie più recenti
Questa situazione di marcata idiosincrasia concettuale progressivamente si arricchì di contributi volti a sopportare l'una o l'altra delle due principali teorie, e che solo di rado si posero l'intento di portare ad una plausibile sintesi fra le due. E' il caso dei contributi di Whittaker (1974), che propose la teoria delle "modalità di climax" fondata sul concetto di gradiente. Attraverso di essa veniva ipotizzata una serie continua di climax variabili lungo gradienti ambientali determinati dai diversi fattori ecologici (Begon, Harper e Townsend, 1989).
Uno dei più importanti contributi portati alla comprensione della natura e dei meccanismi delle successioni ecologiche venne, negli anni '60, da Odum e da Margalef. Pur se criticati da numerosissimi altri studiosi contemporanei per le forti tendenze "neo-clementsiane", essi, per la prima volta, proposero una valida concezione ecosistemica, basandosi anche sulle teorie cibernetiche che in quegli anni venivano efficacemente sviluppate grazie alla disponibilità dei primi ottimi elaboratori elettronici.
Questi due studiosi sostennero, dunque, che il processo successionale:
- 1. è discretamente direzionale, e quindi prevedibile
- 2. è controllato dai biota, ma è l'ambiente fisico locale a fissarne i tempi e le modalità di attuazione
- 3. si conclude in un sistema stabile con biomassa ai livelli massimi compatibili con l'ambiente locale.
Odum (1969) affermò che "... la strategia successionale, intesa come processo a breve termine, si identifica quasi con quella dello sviluppo evolutivo a lungo termine della biosfera, cioè dell'aumento di omeostasi necessario per poter usufruire della massima protezione contro le perturbazioni dovute all'ambiente fisico".
Un decennio più tardi Connell e Slatyer (1977) proposero tre distinti modelli per spiegare i meccanismi di sostituzione delle specie, che costituiscono una valida sintesi delle precedenti teorie:
- il modello di "facilitazione", per cui le specie transitorie si insediano solo se le specie pioniere hanno precedentemente modificato le condizioni ambientali. Ciò non costituì una novità, ma anzi ripropose, con decisione, la teoria di Clements
- il modello di "tolleranza", per cui le specie transitorie si insediano indipendentemente dall'influenza esercitata dalle specie pioniere sui fattori ambientali, essendo esse dotate di maggior efficienza nell'utilizzo delle risorse disponibili
- il modello di "inibizione", per cui le specie pioniere ostacolano, od impediscono, l'insediamento di altre specie.
La scomparsa delle specie pioniere si ha comunque a seguito di perturbazioni di origine abiotica o biotica (prevalentemente azione di organismi fitofagi o parassiti, oppure fenomeni di naturale invecchiamento), che permettono l'ingresso nella compagine a specie più longeve e più resistenti alle sollecitazioni esterne. |
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Successioni secondarie: il caso dei terreni abbandonati
Il processo di ricolonizzazione di terreni dismessi dalla coltivazione viene solitamente considerato come una sequenza di fasi vegetazionali diversamente caratterizzate, sia in termini compositivi, sia fisiologici. Ciò pare evidente qualora si verifichi in successione la tipica sequenza, quasi da manuale, in cui dapprima predominano specie erbacee annuali e invasive (terofite), poi specie erbacee perenni (geofite ed emicriptofite), quindi specie arbustive (camefite), poi specie arboree pioniere ed infine specie arboree definitive (fanerofite). Durante tali fasi si susseguono dunque, nell'ambito di ogni tipo fisionomico di vegetazione, specie con caratteri fortemente pionieri ed altre, più durature, le cui esigenze ecologiche sono naturalmente adeguate alle loro strategie ontogenetiche.
Le specie arboree pioniere, ad esempio, manifestano in genere disseminazione anemofila, notevoli precocità e frequenza riproduttiva, elevati tassi di accrescimento ed un rapido ciclo vitale. Le specie arboree terminali, al contrario, si caratterizzano per avere dispersione zoocora o basicora, una più modesta intensità riproduttiva, un accrescimento più lento, ma un ciclo vitale più lungo (Lepart e Escarre o.c.).
E' stato osservato (Bazzaz,1979) che la velocità di fotosintesi, calcolata per unità di area fogliare, diminuisce nelle diverse specie al progredire delle tappe della successione, passando da valori medi di 25 mg COJdm2/h, nelle piante annue estive, a 20 mg nelle invernali e nelle erbacee perenni, a 16.5 mg negli alberi precoci e a 7.5 mg negli alberi tardivi. Conseguentemente, il tasso di incremento si riduce nelle specie degli stadi successionali tardivi, che "godono" di un ulteriore vantaggio sulle specie degli stadi pionieri: la tolleranza per l'ombra. Tale fattore è considerato, da alcuni studiosi, come elemento discriminante per la distinzione tra specie pioniere e specie durature nell'ambito di un processo ricolonizzativo. Questo tasso d'incremento è considerato anche un parametro utile per la determinazione dei diversi modelli di successione, in quanto postula il graduale passaggio dalle specie che ben tollerano la luce a quelle che più tollerano, o richiedono, l'ombreggiamento (Bazzaz, 1979; Hom, 1981).
Un'ulteriore differenziazione tra le specie arboree degli stadi successionali precoci e tardivi è stata proposta su basi fisio-morfologiche da Hom (1974). Secondo questo studioso, le specie delle prime fasi sarebbero caratterizzate da una pluristratificazione del fogliame nelle chiome, e sono quindi adattate ad utilizzare efficacemente l'elevata disponibilità di luce che caratterizza le fasi iniziali della colonizzazione. Il secondo tipo di specie sviluppa invece una copertura fogliare monostratificata, che si dimostra più efficace in un contesto ecosistemico caratterizzato da più elevate densità arboree e dalla presenza, nel piano dominante, di alberi appartenenti al primo tipo.
La sostituzione delle specie dall'una all'altra delle fasi nella successione dipende da più ordini di fattori che interessano soprattutto gli apparati radicali e le interazioni con il suolo e con individui di altre specie. Le variazioni dei parametri fisico-chimici dovuti al differenziarsi delle lettiere nonché la produzione di sostanze allelopatiche possono condizionare temporaneamente gli esiti, ovvero la direzione, del processo ricolonizzativo (Kimmins, l.c.).
In molti casi alcune specie erbacee ed arbustive hanno dato luogo a fenomeni di autotossicità, con produzione di sostanze allelochimiche (come, ad esempio, terpeni) che in concentrazioni elevate possono nuocere anche a chi le produce, escludendole precocemente dal contesto successionale (Muller, 1966).
Da queste sintesi intomo alle principali teorie sui processi di successione restano evidenziati due concetti fondamentali, la predisposizione e la competizione, che si inseriscono nelle due teorie formulate da Egler (1954) che a noi paiono particolarmente adeguate alla comprensione dei meccanismi di ricolonizzazione di terreni abbandonati.
La prima teoria è quella del relay floristics (staffetta floristica); essa ipotizza il verificarsi di ondate di gruppi vegetazionali sempre più specializzati, che si sostituiscono ai precedenti, preparatori delle condizioni idonee all'ingresso delle specie terminali, e, con ciò stesso, alla loro autoeliminazione.
La seconda teoria è quella della initialflorisitic composition (composizione floristica iniziale), secondo la quale tutte, o quasi tutte, le specie coinvolte nel processo sarebbero in qualche maniera presenti su quel territorio fin dal primo momento, ed anche precedentemente all'abbandono dei coltivi. I diversi stadi successionali non sarebbero altro che una conseguenza diretta dei diversi ritmi e delle differenti modalità di crescita manifestati dalle diverse specie in gioco. Maggior importanza avrebbe, in tal caso, la competizione interspecifica.
Secondo Kimmins ambedue le concezioni proposte da Egler sono importanti, anche se la loro incidenza varia in funzione del tipo ecosistemico.
In ambienti mesici, ed in generale nelle successioni secondarie, la teoria della composizione iniziale sembra più verosimile; in ambienti con caratteristiche più estreme, e nelle successioni primarie, assume invece maggior significato la "staffetta floristica"
Questo tipo di interpretazione dei processi ricolonizzativi, poi ripreso e modificato da Connell e Slatyer, rientra nel novero delle teorie individualistiche, che trovano il loro fondamento in una concezione stocastica dei processi di sostituzione. Questi processi sarebbero fortemente condizionati dalla composizione iniziale della comunità e da quella presente nei territori contermini. Attraverso la conoscenza di queste composizioni è tuttavia possibile costruire modelli probabilistici.
La loro struttura semplicistica è stata ben presto superata dalla realizzazione di modelli relativi a interi popolamenti oppure a più piccoli sistemi ecologici interni a più grandi sistemi e generatisi in seguito ad una locale perturbazione (gap dynamics). Si tratta di modelli molto sofisticati, in cui giocano variabili numerose e relative a molteplici parametri di struttura delle cenosi interessate (Botkin, Shugart e West 1980; Shugart, 1984).
Un altro importante modello, specificamente riferito alla ricolonizzazione del bosco su coltivi abbandonati, è stato proposto da Hom (1981), che si è basato sull'idea di Harper (1977) di safe site (isola di rifugio). La distribuzione casuale sul terreno delle diverse condizioni d'ambiente dà luogo a condizioni favorevoli o contrarie al successo insediativo dei semenzali delle differenti specie, anche in funzione dell'abbondanza della disseminazione. Se la quantità di propaguli che giungono al suolo è elevata, altrettanto intense possono essere germinazione ed ecesi. Conseguentemente si può ipotizzare che la concentrazione dei semenzali sia inversamente proporzionale alla distanza dall'albero che dissemina. Ma questa è una condizione che nel tempo, a parità di dispersione di seme, può inibire l'insediamento di nuovi semenzali nei dintorni della pianta madre a causa dell'effetto inibente della microcopertura prodotta dalle generazioni precedenti, mentre può favorire e stimolare l'occupazione di safe site più distanti.
La presenza di specie diverse può determinare, in funzione del fattore "abbondanza di safe site", una distribuzione a gruppi monospecifici intorno alle rispettive piante madre ed una distribuzione casuale mista a maggiori distanze da queste. Nel primo caso l'elevata competizione interspecifica che si determina può generare una interpretazione successionale di tipo biologico, basata cioé sull'alternanza specie eliofile-specie sciafile. Nel secondo caso, invece, risulta più verosimile una interpretazione in senso storico, essendo la distribuzione casuale, o casualmente aggregata, conseguenza diretta di avvenimenti pregressi all'abbandono della coltivazione sui terreni in via di colonizzazione.
Per concludere questa rassegna, è opportuno fare cenno ai tempi di "completamento" dei processi successionali.
Ellenberg (1988) ha indicato in "diversi secoli" il tempo necessario al ritomo di associazioni forestali zonali su suoli di pascoli abbandonati. Alther e Stahlin (1977), facendo riferimento alle condizioni proprie delle regioni insubriche della Svizzera, hanno osservato che dopo 150 anni lo stadio successionale è ancora caratterizzato da specie arboree poco longeve, cioé indicatrici di fasi pioniere.
Kimmins (1987) riferisce invece che la tipologia dell'ambiente (xerico, mesico, igrico, eccetera) influisce anche sui tempi necessari alle transizioni serali, che sono comunque controllate da fattori intrinseci alle comunità esistenti. L'autore individua, quali fattori di controllo:
- il grado di variabilità dei fattori ambientali
- la produttività degli organismi e loro efficienza nel determinare la variazione
- la longevità degli organismi predominanti in ogni stadio
- la capacità concorrenziale degli organismi.
In condizioni mesofile i fattori ambientali non vengono fortemente modificati; anche la produttività sarà pertanto tendenzialmente elevata, conferendo rapidità al processo successionale. In tali situazioni anche la sequenza serale può risultare modificata.
Appare evidente, in conclusione, l'aleatorietà di un percorso preferenziale nella ricolonizzazione dei terreni abbandonati dall'agricoltura, le cui dinamiche paiono insieme controllate da fattori esogeni ed endogeni, nel complesso assai variabili.
Pickett (1982) osserva che gran parte degli studi avviati in tale contesto ambientale, contrariamente al caso delle cenosi forestali, sarebbero analisi del breve periodo. Pertanto è possibile utilizzare le conclusioni ottenute solo in termini comparativi, mentre è da escludere ogni tipo di facile generalizzazione, soprattutto riguardo all'adattamento delle specie ad un determinato contesto successionale (Lewontin, 1978). |
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L'analisi dei cambiamenti vegetazionali nella gestione di aree protette
La vegetazione, come è stato brevemente indicato, non è una componente statica del territorio, ma una componente del paesaggio animato estremamente dinamica e con funzionalità variabile sia nello spazio sia nel tempo.
L'analisi quali-quantitativa della vegetazione è così, sin dalle origini dell'ecologia scientifica e metrica, uno degli strumenti più affidabili, se non l'unico, necessario per la valutazione della "vulnerabilità" ecologica dei sistemi territoriali e del territorio nella sua interezza. E' anche strumento d'elezione per l'individuazione delle strategie più adeguate a raggiungere obiettivi di conservazione e di valorizzazione delle risorse naturali in esso presenti.
Ciò dà conferma all'esigenza di non limitare le analisi ad una definizione "una tantum" dello stato di fatto dei sistemi biologici in un determinato momento (ad esempio, al momento della redazione dei piani ambientali), essendo invece fondamentale seguire i cambiamenti cronologico-spaziali degli assetti vegetazionali, e di quelli faunistici che ai primi sono funzionalmente connessi. Nel settore forestale è ormai secolare consuetudine procedere, attraverso i piani economici, o di assestamento, a verifiche decennali sulla consistenza e sui dinamismi delle provvigioni legnose.
Sulla base dei dati ottenuti con questi censimenti vengono predisposti gli interventi selvicolturali. Il tecnico forestale non si limita a perseguire obiettivi di produzione legnosa, ed economica, ma pone in funzione strumenti logici che consentono di evidenziare fondamentali aspetti tipologici e distributivi delle fitocenosi di bosco.
E' evidente che forme più "fini" di analisi si rendono necessarie quanto meno in ambiti particolari, quali sono le aree prossimo-naturali protette, dove la funzione di tutela della biodiversità dovrebbe essere prevalente su tutte le altre.
Il "monitoraggio", inteso come strumento in grado di stabilire l'esistenza di cambiamenti, in atto o già avvenuti, la loro eventuale direzione e la loro entità, dovrebbe costituire momento qualificante, e non solo integrante, delle attività di gestione di ogni sistema territoriale, e dei territori protetti in particolare. Esso è infatti l'unico ad essere in grado di fornire informazioni quantitative sulle dinamiche evolutive di un sistema (Ferris Kaan e Patterson, 1992) e di consentire valutazioni appropriate circa la significatività delle modificazioni osservate (Hellawell, l991). La vegetazione, a differenza della fauna, si presta particolarmente bene, e con sistemi relativamente a basso costo, all'analisi diacronica del territorio.
Essa è anche, direttamente ed indirettamente, un efficace indicatore delle condizioni strutturali e funzionali guadagnate dal suolo, degli assetti faunistici attuali e di quelli potenziali, nonché della pressione antropica su buona parte delle risorse territoriali (Goldsmith, 1991).
Il monitoraggio non dovrebbe tuttavia essere confuso con la ricerca, anche se, molte volte, i dati conseguenti al controllo territoriale risultano fondamentali a speculazioni scientifiche. Il primo è infatti strumento d'elezione per misurare i risultati di un'azione gestionale, e come tale mira a dati operativamente utili, ottenuti in tempi brevi e a costi accettabili (Ferris Kaan e Patterson, l.c.). Ben diversi, si sa, sono gli standard su cui opera la ricerca scientifica.
Va anche osservato, a onor del vero, che le operazioni di monitoraggio si conducono con criteri e con standard di precisione e di attendibilità che variano secondo la tipologia dei sistemi e la loro complessità, ovvero con l'eterogeneità spaziale delle condizioni d'ambiente. Non sempre esse possono essere affrontate, avviate e condotte a termine dal personale in organico degli enti interessati a questo tipo di pianificazione e di gestione territoriale.
Per stabilirne la natura e la qualità, è quindi fondamentale definire a priori gli obiettivi del monitoraggio in maniera chiara e realistica, stabilendone le compatibilità e la congruità con le disponibilità tecnica e finanziaria.
In figura 1 è portato un esempio, sul piano ideale, di ottima strategia di monitoraggio, ponendola a confronto con una non funzionale, ma, purtroppo, quasi sempre adottata.
Definiti gli obiettivi del lavoro è molto più facile stabilire che cosa monitorare. Per esempio, nel caso di molte aree protette, uno degli obiettivi primari è garantire la conservazione degli habitat per le specie animali. Pertanto, oltre alle consuete analisi di composizione e di abbondanza delle specie vegetali (spesso realizzate con tecniche in uso nella fitosociologia), può essere di grande importanza conoscere, col dovuto dettaglio, la struttura delle diverse fitocenosi presenti nell'area in esame. La complessità della struttura verticale della copertura vegetale è infatti strettamente legata alla diversità delle nicchie ecologiche disponibili per la macro- e la microfauna (Tabella 1). |
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Conclusioni
Pare sia questo un ottimo esempio di ciò che contraddistingue la sensibilità dell'ecologo applicato, e del forestale in maniera specifica, da quella sviluppata da altre figure professionali. Di conseguenza, anche la pianificazione ecologica del territorio, di cui la pianificazione ambientale è aspetto assolutamente qualificante, si contraddistingue da quella urbanistica per lo sviluppo e per l'applicazione di strumenti validi di controllo dell'ambiente fisico e biologico insieme.
La coscienza che le risorse vive del pianeta hanno estrema sensibilità nei confronti dei cambiamenti del territorio dovrebbe essere sempre di stimolo alla formazione di una cultura del rispetto, trasversale ad ogni disciplina applicata |
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Bibliografia
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- Urbinati C., Abbandono colturale e variazioni del paesaggio agrario e forestale in ambiente prealpino (in corso di stampa), 1996.
- Whittaker R.H., Climax concept and recognition, in Vegetation dynamics, R. Knapp (ed), Part 8, Handbook of Vegetation Science, W. Junk Publ. The Hague, 1974.
* Laboratorio l.D.E.A.
Dipartimento territorio e sistemi agroforestali
Agripolis, Università degli studi di Padova |