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Sergio Dalla Bernardina
Il ritorno alla Natura
L'utopia verde tra caccia ed ecologia
Mondadori Editore, 1996 (300 pagine. L. 35.000)
Trecento pagine "scomode" quelle di Dalla Bernardina. Laureato in lettere con una tesi sull'immaginario venatorio ottocentesco e con un dottorato in antropologia, Dalla Bernardina sviluppa una riflessione a tutto campo sulla "natura contesa" tra cacciatori ed ecologisti. Occorre districarsi un po' in alcuni termini antropologici, tipo pattern, archetipi, stereotipi, mitopoiesi, topos, ma la lettura è scorrevole. Scomode, dicevamo, perché ispirate da una voglia di demistificare tanti luoghi comuni, di cui tutti, cacciatori e ambientalisti, ci nutriamo, spesso inconsciamente.
"Non esiste una natura con la "N" maiuscola esordisce già a pagina 5 - esistono tante nature quanti sono i gruppi che si avvicendano sul globo terrestre. La natura, dal punto di vista delle scienze sociali, è un prodotto umano"
La tesi dell'autore è che presentare la natura in modo piuttosto che un altro significa assicurarsi il diritto di compiere certe azioni e delegittimarne altre. E per supportare questa tesi Dalla Bernardina spazia e stralcia impietosamente (seppur a volte un po' forzatamente) da riviste venatorie, depliant naturalistici, pubblicazioni specialistiche.
Fà parte dell'iconografia del cacciatore il racconto delle caccia. Perché questa necessità, soprattutto intrisa di stereotipi? "Elaborazione del lutto" collettiva, risponde in chiave psicoanalitica. Il cacciatore più che "entrare nella natura esce dalla civiltà" per cui l'andare a caccia diventa ricco di riti iniziatici come luogo di esperienze iniziatiche, di pellegrinaggi, dove la selva è anche rifugio. Per questo "se la natura selvaggia non esistesse bisognerebbe inventarla".
"Il cacciatore moderno, a differenza dei suoi predecessori, non caccia per sfamarsi, non è in guerra con la natura selvaggia, si è lasciato alle spalle la logica dell'inversione rituale propria delle società tradizionali, è impregnato di nozioni positivistiche che gli hanno permesso di demitizzare, disincantare potremmo dire, lo spazio naturale" (pagina 17).
In altre parole l'Autore sostiene che la natura possa essere aggredita e menomata purché ciò si svolga in termini formalmente accettabili. Ed allora ecco che anche il cacciatore, come l'ambientalista, parla di paradiso perduto, e ripete ogni volta che può che "la natura non è più quel che era". Nella caccia, specie per l'uomo urbanizzato, diventa necessario un mediatore che è l'indigeno. Ed ecco che si instaura un rapporto di seduzione fra il mediatore locale ed il cacciatore, che ci sa fare, con il suo fucile; viene esaminato nella sua capacità di superare le difficoltà, di sottoporsi alla fatica e quindi accettato: può così entrare nella natura "incontaminata che non si lascia ingannare dalle apparenze". Vi si ritrova un processo iniziatico nello stringere d'amicizia, nell'essere accettati: possono cambiare gli scenari ma il rituale è sostanzialmente identico. Il mediatore, d'altro lato, è un conoscitore d'uomini, sa valutarli sul terreno concreto; ciò che lega il locale con il cacciatore è la vera passione e le sensazioni forti. D'altro canto, scrive Dalla Bernardina, il cacciatore non è un macellaio, sa fare le cose per bene, complice spesso la sua "fedele" arma, personalizzata, quasi intelligente, di certo prolungamento del suo dito. Una fuga dal mondo falso ed irreale della civiltà. Il cane ed il mediatore diventano due facce di uno stesso personaggio. Il primo quasi umano, il secondo, quasi bestia intelligente. "Uomini appartenenti ad ambienti sociali reciprocamente poco permeabili si incontrano periodicamente nel verde e scoprono, proclamandola ad alta voce, la loro eguaglianza. Presa di coscienza favorita dal contesto: una natura "selvaggia" in opposizione alla città, un mondo retto da leggi antitetiche rispetto a quelle in vigore nella vita di tutti i giorni. In questo universo la passione ha la meglio sul freddo intellettualismo, il contatto corporeo sulla comunicazione verbale, il sentimento di appartenenza a un gruppo sull'affermazione individualistica. Si tratta di una dimensione più autentica di quella "civile", in cui i soggetti, ridotti a semplici essenze, si riconoscono, si legittimano mutualmente, si fondono in un tutto armonico. Non solo le barriere tra uomo e uomo. ma anche quelle tra uomo e animale vengono meno, e il viaggio del cacciatore diventa allora una sorta di sopralluogo destinato a ridefinire i rapporti, a rettificare una serie di parametri ormai screditati" (pagina 78).
E nasce anche una nuova immagine dell'ambiente naturale da affiancare a quelle di cui già si dispone: natura - paradiso terrestre, natura santuario, natura - bella donna che si concede, ed infine natura - baccanale quando non bordello. Anche nell'incontro con l'animale appaiono alcuni stereotipi poiché per abbattere un animale non è sufficiente la licenza di caccia, occorre farlo "more venatorio", ossia rispettare il luogo, i riti e l'atteggiamento ed anche "avere l'abito" adatto. Si tratta sempre di un "incontro unico" con la vittima. Per questo i resoconti sovente titolano "la mia avventura con il cinghiale", "a tu per tu con la lepre", "una domenica con la beccaccia".
Qualche racconto sconfina nell'erotico poiché il fattore estetico è fondamentale. La bellezza dell'esemplare, l'incontro unico, quasi una predestinazione, come gli amatori o ladri d'arte che trafugano perché sono i soli a capire il vero significato dell'opera d'arte.
"Il racconto di caccia imbalsama, prima di averla uccisa, la preda. Dispositivo efficace di elaborazione del lutto, esso permette di sdebitarsi con la vittima, di ammansirla, di farsi una ragione della sua morte improvvisa ricostruendo lo scenario grandioso del suo sacrificio e restituendole sotto forma di elogio quanto obiettivamente le spetta... (pagina 118).
Dopo verrà anche l'imbalsamazione vera e propria, il trofeo, "pezzi di cadavere" conservati nel posto migliore della casa che sovente ravvivano l'emozione dell'epica lotta.
Si tratta di una spietata e dissacrante analisi di uno sferzante anticaccia? No, si tratta di una lettura da un punto di vista diverso, in parte inusuale, del fenomeno, da parte di un antropologo che ricorda che, in fondo, la sua specializzazione "...resta pur sempre una disciplina cui spetta il compito di individuare le scuse specifiche adottate da ciascuna cultura per legittimare il proprio arbitrio nei confronti dell'universo e per mascherare il piacere che ne ricava" (pagina 141).
Ma i tempi cambiano. Anche la stampa venatoria più che raccontare informa, nel senso che "dà forma" all'esperienza e nasce il linguaggio imprenditoriale: il cacciatore gestisce, ottimizza il rapporto selvaggina-territorio. La conquista ha lasciato il passo all'acquisto tout court ed il passaggio da res nullius a res communis trasforma il cacciatore da amatore a protettore. Protettore nel doppio senso della parola. "E' la logica della riserva di caccia, sorta di casa di tolleranza in cui ogni cliente può godere di una dose di natura proporzionale alla quantità del denaro investito" (pagina 145).
Naturalmente i tempi modemi trasformano tutto, anche la fatica ormai sconfitta dai fuoristrada che vanno ovunque.
Qualche volta poi non si uccide uno splendido esemplare ma direttamente un sontuoso trofeo. Per tenere "sotto controllo" lo psicoanalitico "senso di colpa", vengono così avviate pratiche consolatorie, che vanno dall'infermeria degli animali all'aneddotica concemente il salvataggio di animali feriti e cuccioli non soltanto risparmiati ma addirittura allevati. "L'apriti sesamo" della caccia moderna diventa oggi "gestire per proteggere", parola d'ordine condivisa con il mondo ambientalista con cui costituisce un ponte ideale.
Mondo ecologista che fa la sua comparsa a partire da pagina 184, anch'esso fornito dei suoi bravi stereotipi e di un vasto arsenale di luoghi comuni che Dalla Bemardina rintraccia nella ormai vasta pubblicistica ambientale. Ed è qui che "le situazioni evocate dal racconto di caccia ricompaiano in forma larvata, ma non per questo meno puntuale e ricorrente" (pagina 187).
L'ecologista ritrova uno spazio virginale in cui inserire la propria azione demiurgica nei parchi naturali, "laboratori-sacrari" che l'Autore liquida provocatoriamente e sbrigativamente come "una sorta di decima resa alla natura depredata". Il parco è innanzitutto un luogo retorico. Più che un prodotto della società civile, da questo punto di vista, esso ne rappresenterebbe l'opposto e nello stesso tempo il modello ideale, il dover essere. Il suo ruolo principale, in questo senso, è proprio quello di fornire all'uomo contemporaneo uno spazio utopico dal quale attingere i propri esempi per un discorso sul funzionamento del mondo" (pagina 190).
Ciò che accomuna, antropologicamente parlando, i due grandi fronti che si contendono la natura, è un bisogno profondo di evadere dallo squallido scenario quotidiano. E puntualmente l'Autore, spigolando (anche se con particolare pervicacia) tra le riviste promotrici di turismo "alternativo", trova conferma che "...anche il non cacciatore, in ultima analisi, approfitta dello scenario naturale per ambientarvi delle sequenze che nella vita di tutti i giorni risulterebbero improponibili" (pagine 208/209).
Il punto di maggior contatto, sempre secondo l'Autore, sarebbe nelle accurate descrizioni e documentazioni fotografiche delle scene di caccia dei grandi predatori che non si riduce ad un semplice argomento tra i tanti. "Potremmo anzi considerarlo come lo scenario di cui l'odierno fruitore della natura si serve più volentieri per rivivere il dramma venatorio senza pagarne le conseguenze morali. Cacciatore ed ecologista, da questo punto di vista, manipolano la stessa materia simbolica". Per cui, conclude provocatoriamente Dalla Bemardina, la differenza tra il cacciatore e il consumatore di periodici dedicati alla fauna selvatica sembra risolversi in una questione di distanza" (pagina 224).
Insomma punti di vista ed azioni apparentemente opposti rivelerebbero da un lato la necessità di distogliere l'attenzione dal nucleo strumentale e violento del rapporto con la natura, di riparare gli effetti della propria attività; e d'altro lato vi si ritroverebbero le tracce di un profondo disagio, paragonabile a quello cui altri uomini, in altre civiltà, hanno dato risposte tutto sommato analoghe (pagina 243).
La contraddittorietà degli "amanti della natura" si rivelerebbe anche attraverso lo sbandieramento, nei titoli di luoghi eccezionali, di flore rarissime in ambienti da paradiso terrestre in cui mandare migliaia, o milioni, di persone, rivelando in fondo un discorso trasversale di consumo della natura.
E provocatoriamente l'Autore suggerisce che l'unico modo per dimostrare che si ama la natura è restarsene a casa.
Insomma il dialogo con il mondo naturale in fondo è un monologo ben dissimulato che passa anche attraverso le mistificazioni del linguaggio. Le conclusioni dell'Autore sono che ogni contatto con la natura incontaminata, sia per i cacciatori che per i naturalisti, è come un ritomo all'infanzia, un regressus ad uterum. Come detto, trecento pagine che suscitano reazioni forti e contrastanti, tesi costruite con intelligenza provocatoria, stralciando con "cattiveria" dalla pubblicistica di entrambi i campi. Un'operazione che risulterebbe persino stucchevole e saccente se non ci fosse quell'ultima nota (a pagina 284) in cui l'autore confessa: "anch'io al pari dell'ambientalista "smascherato" nelle pagine precedenti, non ho fatto che "smentire", che "smitizzare". Una prova ulteriore del fatto che tutti, volenti o nolenti, ci serviamo della natura per dimostrare che l'altro ha torto". (Gianni Boscolo) |
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Giordano Remondi
Religione e ambiente
Edizioni Camaldoli, 1995
(192 pagine)
A un anno dallo svolgimento del Convegno internazionale interreligioso "Religione e ambiente" tenutosi ad Arezzo, Camaldoli e La Verna nel maggio 1995, sono usciti gli atti curati dal monaco camaldolese Giordano Remondi. Il volume è arricchito dalla bella copertina tratta dall'opera della scrittrice inglese Ella Hoyes dedicata alla storia del Casentino pubblicata nel 1905, ed esce grazie allo sforzo congiunto del Comitato promotore del Convegno formato dalle due comunità religiose di La Vema e Camaldoli, dal Parco nazionale delle Foreste Casentinesi, Monte Falterona, Campigna, dalla Comunità montana del Casentino e dalla Provincia di Arezzo. E' suddiviso in cinque capitoli introdotti da una pregevole ouverture/meditazione sul salmo 8 di Josua Boesch e da un'introduzione del curatore. Il capitolo primo affronta il "Principio creazione e la responsabilità delle Chiese"; il secondo "Il contributo della tradizione ebraica, musulmana e asiatica secondo la prospettiva storica e antropologica". In questi due primi capitoli il dibattito verte sul concetto che "la natura non è Dio, ma non è fuori dal suo progetto di bene e salvezza" e sulla "natura che non è sacra o inviolabile, ma simbolo della comunione Dio-uomo" e viene tracciato un primo bilancio, anche se provvisorio, sull'ambivalenza nel rapporto storico e odierno tra religioni e ambiente. La questione ecologica sotto il profilo filosofico, etico, sociale e politico viene affrontata nel terzo capitolo, mentre la tutela storica dell'ambiente, ora gestito dal Parco nazionale delle Foreste Casentinesi, nella tradizione francescana e camaldolese vede gli interventi di storici come Giovanni Cherubini, Carla Romby e dei religiosi Salvatore Frigerio e Vittorio Battaglioli. L'appendice è dedicata all'appassionato e documentato intervento di Ben Bella - presente a tutte e tre le giornate di lavoro - sul dialogo nord-sud, l'ecologia e l'Islam. Segnalo tra gli innumerevoli e stimolanti contributi quello di Alex Ander Langer che ci ha lasciato tragicamente il 3 luglio 1995. Intervenendo alla giornata inaugurale del Convegno ad Arezzo sul tema "Ambiente Mediterraneo: nei paraggi del paradiso perduto", spronava a non essere catastrofisti, a non essere profeti di sventura, a non terrorizzare la gente anche di fronte ai problemi ecologici più gravi. Il suo era un messaggio rivolto al movimento ambientalista a ritrovare un "respiro profondo" a indicare nuove strade di conversione sulla via del riscatto e di un nuovo rapporto uomo-ambiente. (Oscar Bandini) |
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Fulvio Genero - Paolo Pedrini
ll ritorno del gipeto sulle Alpi
Resoconto sulla sua presenza nel territorio
del Parco Adamello-Brenta e aree limitrofe
Parco documenti
Edizioni Parco Adamello-Brenta (72 pagine)
E' stato pubblicato nel dicembre 1995 il nono volume della collana "Parco documenti" che raccoglie i risultati dell'attività in campo scientifico svolta dal Parco Adamello-Brenta. Questo volume è una seconda edizione aggiornata di una precedente pubblicazione dedicata ai lavori di monitoraggio, condotti dagli autori su incarico dell'Ente parco, della presenza del gipeto nell'area del Parco naturale Adamello-Brenta.
Il progetto di reintroduzione del gipeto sulle Alpi è entrato nella fase operativa nel 1986, con la liberazione dei primi quattro individui nel Parco degli Alti Tauri in Austria. Fino ad ora sono stati liberati 58 soggetti, in quattro punti di reintroduzione: Parco Alti Tauri, Parco dell'Engadina, Parco Vanoise, Parco Alpi Marittime. I gipeti liberati compiono ampi spostamenti e vengono segnalati in varie località dell'arco alpino. Si tratta perlopiù di osservazioni isolate di singoli individui, mentre solamente in poche aree si verifica la presenza di più soggetti per lunghi periodi. I dati raccolti nel volume si riferiscono ad un'arco di osservazioni di diversi anni dal 1989, anno del primo avvistamento, alla fine del 1994. L'indagine effettuata ha consentito di documentare, nel territorio del parco, la presenza di almeno sei gipeti diversi in questo periodo di tempo. In particolare un significativo incremento delle segnalazioni è stato riscontrato dopo la liberazione dei primi tre gipeti nel Parco dell'Engadina, in Svizzera, nel 1991.
I dati raccolti confermano l'importanza del Parco Adamello-Brenta, soprattutto del gruppo di Brenta meridionale, quale area di sosta e di permanenza del gipeto, in particolare durante i mesi autunnali ed invernali. Occasionale è risultata la presenza invece di questo avvoltoio negli altri mesi dell'anno. I gipeti liberati in Svizzera, come detto, sono stati quelli che hanno manifestato un maggior interesse per l'area del parco, compiendo movimenti regolari tra quest'area, il vicino Parco nazionale dello Stelvio e l'Engadina. Tale comportamento, sostengono gli autori, fa ritenere verosimile l'ipotesi che questi uccelli conoscano ormai bene le caratteristiche trofiche di questo vasto settore alpino e compiano degli spostamenti stagionali al variare delle condizioni locali.
Questi anni di ricerca hanno pertanto consentito di evidenziare come nel Parco Adamello-Brenta esistano condizioni ambientali favorevoli per la presenza della specie, che fanno sperare nel futuro insediamento di una o più coppie nell'area.
(S. F.) |