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1. A che serve un piano del parco?
Fra tutte le aree protette o "vincolate", i parchi costituiscono senz'altro quelle sottoposte a maggiore controllo da parte di una specifica autorità di tipo pubblico e non solo per i campi di attività in cui una specifica normativa o disciplina è data quasi per scontata (come le cave, l'urbanistica o la caccia), ma anche per altre su cui essa può risultare inattesa o non necessaria, come la scelta del colore dei tetti delle case o il divieto di effettuare la raccolta del legnatico in determinati luoghi e periodi dell'anno. Come si vedrà subito, anche se si è particolarmente attenti ad una ricerca di semplificazione e snellimento delle prassi amministrative, con l'istituzione di un'area protetta, si è di fronte comunque ad una imponente serie di decisioni e di controlli.
Un esame degli ambiti coperti dalla disciplina dei processi insediativi, delle attività agro-silvopastorali, dei prelievi di ogni tipo, degli accessi e flussi turistici, eccetera, rivela una gamma alquanto diversificata e complessa di azioni da promuovere nel tempo, con una specifica ricaduta sugli strumenti che sono istituzionalmente sede della regolamentazione d'uso e dalla politica di piano nelle aree protette, come dal prospetto che segue.
In teoria, e sempre più spesso anche in pratica, queste azioni possono anche essere svolte "a pioggia", magari con decisioni affidate ad una commissione di esperti (per esempio il Comitato tecnico-scientifico), incaricata di esaminare le diverse istanze che si manifestano di volta in volta o che proponga, sulla base di alcune priorità, eventuali interventi o iniziative di intervento e/o di gestione, ancorché non manifestamente conclamate, discusse e condivise da tutti: anzi, questa è esattamente la situazione in cui operano attualmente quasi tutti i neonati parchi naturali in Italia (nazionali o regionali) e molti di quelli consolidati e "storici". A parte i disposti di legge, questa condizione tuttavia potrebbe a rigore essere praticata con successo solo per un periodo di tempo limitato, trascorso il quale sarebbe necessario assumere delle responsabilità in merito alla direzione strategica a cui la politica conservazionale dell'area protetta si propone di dirigersi.
Tuttavia, bisogna prendere atto che la permanente mancanza di un piano (e di un regolamento), al fine di direzionare in modo non contraddittorio le scelte, può anche essere considerata come un obiettivo da perseguire da alcune linee di tendenza culturali, da gruppi di pressione e da diverse forze politiche, dato che questi istituti, che sono il principale strumento su cui le azioni programmatiche a lunga scadenza vengono impostate e dichiarate pubblicamente per la prima volta, possono risultare anche maledettamente scomodi, non solo per i contenuti stessi delle scelte da attivare, per definizione non indolori agli interessi costituiti (non solo economici, ma anche professionali, accademici, di partito, eccetera) ma soprattutto perché potrebbero avere il difetto di scontentare proprio tutti. Ecco allora emergere la soluzione meno imbarazzante per tutti: scegliere di non scegliere, dato che la cosa più urgente, per un piano del parco, è sempre stato proprio il rinvio.
Accade così che, non tanto paradossalmente, il procrastinarsi nel tempo o addirittura il fallimento del piano del parco può anche essere l'esito più desiderabile - per opposti motivi - da parte di un duplice fronte di forze:
- da un lato quelle che sono espressione della società locale (soprattutto nei casi in cui intervengono operatori senza scrupoli), che possono essere fermamente convinte che, in nome dello sviluppo, sia un loro diritto acquisito non solo sfruttare le risorse, ma anche distruggerle, proprio sull'esempio peggiore di ciò che è stato fatto altrove; addirittura può capitare che una sola scelta (del piano o del regolamento) risulti invisa o non soddisfacente a singoli gruppi o categorie sociali perché si dia inizio a grandi manovre per l'insabbiamento o il siluramento degli strumenti di gestione del parco che nel frattempo fossero stati costruiti dall'altro quelle che sono espressione dell'ecologismo urbano, preoccupate di non vedere affermate le regole di un rigore ambientalista fondato sui vincoli e sui divieti a qualunque costo, come risarcimento degli sprechi e dei disastri ambientali consumati altrove; queste forze hanno talvolta guadagnato posti di potere a cui per nulla al mondo sono disposte a rinunziare, e quindi per quanto possibile troveranno cavilli e difficoltà di ogni genere prima di dare l'imprimatur ad uno strumento (il piano, il regolamento) che di fatto costituirebbe il primo passo per sostituire all'ideologia le cose concrete.
Se pertanto non verrà compiuto uno sforzo di autocoscienza e di responsabilità, questi opposti argomenti possono convergere allo stesso obiettivo di svuotare il parco del principale potere di cui dispone e di cui si deve far uso in modo accorto: quello di impostare un documento programmatico con cui gestire le risorse disponibili in modo conservazionale e quindi di correggere in modo progressivo gli squilibri in essere, avendo cura di non ingenerare corti circuiti. In questo quadro, è bene ricordare dunque che il piano e il regolamento del parco scontano per loro natura una debolezza intrinseca e strutturale, in quanto possono essere assunti quali nemici da battere, perfino indipendentemente dai contenuti che propongono.
A conforto di questa argomentazione, risulta anche il fatto che il parco, una volta istituito, è dotato comunque di una qualche regolamentazione (vincoli più o meno "transitori", validi cioè di solito fino all'approvazione del piano, oppure azzonamenti A, B, C, D, che nel bene o nel male devono essere rispettati anche dal piano, eccetera), che pur in modo abbastanza approssimativo e imperfetto limita a priori l'uso delle risorse ambientali, almeno nei confronti dei fenomeni distruttivi più macroscopici, e questo appare a molti condizione più che soddisfacente, perché di fatto impedisce ogni possibile forma di "sviluppo" o aggrava quelle di abbandono e di desertificazione, da più di un cultore della materia ritenute comunque auspicabili affinché la "natura ritorni al suo posto". Da questo si configura abbastanza chiaramente una situazione di stallo che sospinge il piano e il regolamento verso un perenne rinvio, perché si è convinti che le "cose vanno bene così", e quindi senza necessità di dare attuazione alle leggi istitutive delle aree protette, che prevedono invece molti particolari e dettagli sul tema delle scelte strategiche e programmatiche da compiere perché il parco possa dire di esistere. Le prevedono, ma inutilmente: in una parola, si tratta dell'ennesimo scenario italico dell'armiamoci e partite o, se si preferisce, di una strisciante omissione di atti di ufficio nei confronti dei doveri istituzionali del parco (che in realtà in queste condizioni non è più tale, costretto com'è a rimanere solo e soltanto un vincolo). |
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2. Orientamenti sulla pianificazione delle aree protette
Il piano del parco ha 3 finalità sostanziali:
- 1. riempire il vuoto della pianificazione territoriale ordinaria, assumendo il ruolo di piano straordinario rispetto ai piani regolatori generali dei Comuni
- 2. costituire un programma di cose da fare, trasformando i vincoli di salvaguardia in indirizzi programmatici d'intervento
- 3. assumere i contenuti di un contratto fra due controparti, ovvero fra l'autorità centrale che ha voluto il parco e le comunità locali a cui si chiede il consenso e talvolta la partecipazione attiva alle scelte del parco.
In primo luogo, il piano del parco è una palestra per l'esercizio del governo della cosa pubblica alla scala intermedia, ovvero del livello sovracomunale, ma non per questo esercitata dall'esterno, cioè da un'autorità superiore, che solo per questo può diventare "centralistica" e come tale potenzialmente non esente da interessi esterni. Si deve ricordare che questo esercizio fino ad oggi in Italia ha brillato soprattutto per i propri sostanziali ritardi o fallimenti (i comprensori, per esempio) o per interventi corretti solo sul piano formale. Nel caso del parco, invece, proprio grazie alla concretezza delle cose da fare su cave, strade, accessi, prelievi e progetti, l'eventuale successo del piano sarebbe oggettivamente in grado di far registrare un salto di qualità nella formazione delle decisioni del governo del territorio a questa scala che resta di solito sguarnita o inespressa dall'amministrazione ordinaria.
In secondo luogo il piano del parco è (o dovrebbe essere) un programma di cose da fare, e come tale assume un significato liberatorio da indesiderabili approssimazioni e da regole sovraordinate (dalla normativa transitoria, dai vincoli del decreto istitutivo, eccetera) introdotte certamente a fin di bene, ma fondate per definizione sull'ignoranza di fattori specifici o sull'approssimazione di numerose condizioni di stato e di governo delle risorse che dovevano essere debitamente tenute in conto. Non solo: assume il significato di un indirizzo strategico a suo modo irreversibile rispetto a problemi che da anni sono fonti di laceranti incertezze (per esempio: gli accessi delle aree più famose e sotto stress, le cave e il loro recupero, le riserve integrali, la conservazione dei pascoli, il differente regime di utilizzo dei boschi, la gestione del patrimonio edilizio esistente, eccetera) e con soluzioni che prendono volutamente le distanze sia da chi pretende di far tutto (come se il parco non esistesse) sia da chi pretende di non far nulla (come se ogni scelta fosse di per sé un delitto).
Infine, il piano del parco è soprattutto un vero e proprio contratto fra due controparti, ovvero fra le collettività locali che hanno concorso ad esprimere i contenuti del piano e l'autorità centrale (Ministero, Regione, Provincia) che li controlla e ne giudica in ultima istanza le finalità e la convenienza: controparti che non hanno mai interrotto il confronto dialettico e il dialogo (anche aspro) che in passato è stato costruito attorno ai mille problemi dell'amministrazione ordinaria (boschi, pascoli, edilizia rurale, urbanistica, cave, percorribilità e accessi, strade forestali, caccia, impianti di risalita, eccetera). Il piano risulta in buona misura attestato ad una sorta di accordo di programma, ovvero ad un approfondito protocollo d'intesa in cui sono chiariti i termini dei diritti-doveri di ciascuno dei livelli di governo sovraordinati e sottordinati. Pertanto esso permette di fondare i futuri rapporti fra amministrazioni decentrate e potere centrale in termini ben più avanzati e precisi, con un auspicabile snellimento di procedure. Se l'attuazione del piano ha successo, risulterà perfino auspicabile ed abbastanza spedito ripensare ai suoi confini, e questa volta evidentemente per allargarli, non per restringerli.
In conclusione, con il piano del parco si potrebbe davvero aprire un capitolo nuovo, ancora tutto da scrivere, per il governo del territorio: scelta finalmente senza incertezze la strada e la direzione (strategica) da percorrere, restano da stabilire i tempi ed i modi concreti dell'attuazione, archiviando finalmente i vecchi conflitti e le antiche incomprensioni.
Con queste premesse, quali finalità generali potrà perseguire il piano territoriale del parco, ad esempio sulla base dei disposti dell'articolo 12 della legge-quadro n. 394/91? Non è male notare subito che lo stesso articolo prevede che i tempi di redazione di un piano siano fissati chissà perché - in soli 6 mesi, mentre ha consentito che trascorresse un lustro dalla sua approvazione, con i parchi che continuano inutilmente ad attendere qualche novità in materia.
Innanzitutto, il piano del parco è uno strumento a cui occorre per necessità riconoscere una certa gradualità temporale, sottraendolo in buona misura all'implicito contenuto di strumento miracolistico, tipo "bacchetta magica" capace di risolvere in un solo colpo e da solo, con alcune carte colorate, con alcune norme e con qualche rapporto tecnico, contrasti e conflitti profondi che hanno radici antiche nel corpo sociale, la cui soluzione può essere certamente avviata, ma non conclusa, per mezzo della semplice redazione di un documento, per quanto autorevole, articolato e complesso esso sia.
Il piano ha il compito e il dovere di indicare, fra l'altro, le modalità e i tempi che occorrono per riportare l'equilibrio dove ora esistono situazioni di stress ambientale. Per quanto si è visto in premessa è chiaro che questa trasformazione per potersi realizzare pienamente - ha bisogno di essere compresa prima, e poi condivisa e sorretta sul piano culturale e sociale da parte di coloro che si presentano come i principali e diretti interlocutori dell'operazione, con particolare riguardo ai detentori delle proprietà collettive, alle popolazioni locali, alle loro rappresentanze democratiche. Il piano del parco dunque non è costituito solo da una serie di elaborati, ma si configura necessariamente anche quale processo, entro cui possono essere più significative le volontà dei gruppi e degli opinion leaders locali piuttosto che i contenuti formali dei documenti. Quanto sopra non venga confuso con una dichiarazione d'impotenza perché, rinunziando a priori ad un'inesistente potestà tecnocratica del piano nell'ambito sociale (le cui esperienze nel nostro Paese hanno sempre inciso negativamente, al punto in qualche caso da far assumere all'istituto del parco il volto odioso di una struttura repressiva e oppressiva), si intende nel nostro caso realizzare le condizioni più evolute - sul piano culturale ed amministrativo - da cui poter avviare un processo integrato di conservazione ambientale. Ovvero, per realizzare l'obiettivo di nuove situazioni di equilibrio entro ecosistemi a debole ma antica e consolidata antropizzazione compresi entro boschi, pascoli e coltivi la cui disponibilità e proprietà non è automaticamente assicurata al parco, la possibile omologazione di tutto il territorio ad una macro-oasi naturalistica, ove le azioni di conduzione e d'uso di tipo antropico siano da considerare negative e come tali da espellere appare solo un resistibile errore. Del resto, se questo fosse stato l'intento del "parco", allora lo strumento corretto da invocare sarebbe semplicemente l'esproprio generalizzato o l'acquisizione dei suoli.
Accanto a questo, tuttavia, il territorio delle nostre aree protette ha frequentemente conosciuto e conosce forme di degradazione anche molto acuta: dal dissesto idrogeologico causato da incondizionati disboscamenti all'uso intensivo e consumistico delle risorse turistiche (le spiagge marine prese d'assalto d'estate, la montagna innevata assediata durante la stagione invernale); così come ha assistito al depauperamento pianificato delle risorse idriche, ad un disordinato sviluppo urbanistico dei centri, all'ingabbiamento in recinti delle principali aree boscate, agli incendi ripetuti e dolosi, alla devastazione del paesaggio operata da cave a cui non sono state poste condizioni di compatibilità ambientale e paesaggistica e a cui non basta impedire in futuro ogni attività per recuperare i danni esistenti.
Pertanto, in queste condizioni, il piano del parco va considerato entro i limiti in cui esso si propone di operare: la prima e più significativa fase di un processo aperto e perfettibile, che dovrebbe segnare la direzione e la strada da imboccare per risolvere alcuni di questi problemi, ma che per definizione non possiede in sé la formula magica per risolvere tutto in un sol colpo, convertendo aspre contese fra forze rivali in soluzioni accettabili per tutti.
Il parco come istituzione è e deve rimanere il luogo deputato alla soluzione dei conflitti, nell'interesse sovrano della natura e dell'ambiente: per questo il piano del parco costituisce lo strumento che sollecita i naturali processi evolutivi entro le conoscenze e le coscienze dei protagonisti della vicenda, e quindi non può che rinunziare ad atteggiamenti autoritari, coercitivi e perentori. Questo non significa che le proposte più opportune da proporre in favore dell'ambiente non debbano essere supportate dal necessario rigore. Significa invece che il rigore va applicato tanto agli aspetti naturalistico-ambientali quanto a quelli storico-culturali, gli uni come gli altri costituendo il sistema dei vincoli e dei doveri entro cui si dispiega la pianificazione stessa.
E' compito del piano territoriale e del regolamento - secondo i disposti di legge- operare non solo un opportuno approfondimento della strategia conservazionale, ma individuare anche la selezione delle priorità, fino all'attivazione ed implementazione degli appositi atti di governo ambientale per i quali l'istituto di parco ha ragione di esistere.
La disposizione che obbliga i piani dei parchi alla classifica del territorio protetto in 4 diverse sottozone a vincoli decrescenti (A, B, C, D) è pertanto da considerarsi corretta a condizione che venga strettamente collegata con la vera natura dei soggetti ambientali, ovvero con le effettive condizioni di stato della natura, dell'ambiente e del paesaggio e delle loro potenzialità.
Capita spesso di riscontrare sul terreno incongruenze ed illogicità manifeste sui confini di queste zone e sulle stesse prescrizioni che esse sottendono, a tutto svantaggio dell'efficacia dei processi conservazionali.
Poiché insomma il piano territoriale è tenuto ad indicare le cautele e le prescrizioni per perseguire la conservazione dei beni protetti (giacimenti, endemismi, popolazioni, paesaggi, eccetera), esso è implicitamente tenuto ad entrare nel merito della natura intrinseca delle risorse ambientali e a dare un giudizio sulla loro dinamica interna, in modo da garantirne la riproduzione nel tempo. Non si esclude che questa operazione di analisi possa successivamente suggerire eventuali aggiornamenti dei confini della stessa area protetta, sia interni che esterni al parco, pur nel rispetto dei poteri istituzionali previsti dalla specifica legge o decreto istitutivo per i vari livelli di responsabilità di governo del territorio.
Non si esclude altresì che, per gli stessi motivi, il piano del parco non possa suggerire anche modifiche di contenuto agli attuali disposti normativi interni alle singole zone di tutela, sempre nel rispetto delle leggi vigenti. Può infatti darsi il caso che il cessare di alcune attività antropiche tradizionali (il pascolo nelle aree altomontane, per esempio) possa significare in qualche situazione ambientale la perdita di risorse naturalistiche o paesaggistiche o ambientali di primaria importanza e rarità, aggravando al tempo stesso la situazione di dissesto delle aree pascolive poste alle quote più basse, con conseguenze non favorevoli né per le aziende interessate né per le attività conservazionali. A questo scopo, si potrebbe anche articolare gli aspetti normativi delle diverse zone entro alcune sottoclassi (per esempio: Zona Al, A2, eccetera) sulla base delle prerogative di ciascuna, pur rinviando ad una sovraordinata forma di tutela valida per tutte, nel rispetto dei disposti delle leggi statali o regionali.
E' compito del regolamento del parco il controllo delle modalità di accesso, della presenza e del comportamento dei visitatori ammessi nelle singole zone, nonché l'organizzazione delle azioni necessarie per la regolazione degli eventuali prelievi e dei servizi relativi. Si può notare ancora una volta come possa esistere una congruità e un'alleanza sostanziale fra parco e abitanti residenti dediti alle attività agro-silvo-pastorali, perché entrambi hanno interesse che l'uso sociale dei beni protetti non si traduca in forme di consumo distruttivo, in gratuiti vandalismi: entrambi sono in grado di riaffermare che il parco in tutti i suoi aspetti non è terra di nessuno, ma continuamente presidiato e "utile" alla collettività. Ma, indipendentemente da questo, occorre un apposito studio per l'organizzazione fisica della sosta veicolare, per l'organizzazione del trasporto pubblico, per la regolamentazione del traffico, per l'organizzazione della vigilanza. Inoltre, non è raro riscontrare che alcune zone omogenee coincidano con aziende agrarie presenti nell'area protetta, i cui problemi di gestione e potenziale evoluzione e sviluppo (economico, ma anche tecnologico e colturale) in molti casi finiscono per coincidere con i problemi del parco, come capita in moltissimi esempi di parchi di livello regionale, come nel Ticino in Lombardia, nell'Adamello-Brenta in Trentino e a San Rossore-Migliarino in Toscana. Ed è per questo motivo che entro le aree protette è possibile ed auspicabile trovare un raccordo stabile fra politica conservazionale e pratiche colturali, ivi compresa la possibilità di disporre di apposite provvidenze o incentivi capaci di coniugare e far convergere gli interessi delle aziende coltivatrici con quelli conservazionali (a favore della fauna, della flora, del paesaggio).
In conclusione è bene che tutti abbiano chiaro che i parchi (nazionali, regionali, provinciali), una volta istituiti, appaiono abbastanza simili a tanti sacchi vuoti rispetto agli imponenti problemi che si trovano di fronte: occorrerà dunque una sistematica raccolta delle conoscenze ambientali sotto forma di precise analisi diagnostiche, accompagnata da un accorto lavoro di partecipazione sul terreno, da svolgere insieme agli operatori, agli amministratori, agli opinion leaders locali, per poter prospettare soluzioni praticabili sia a breve che a lunga scadenza, indicando al tempo stesso quali soggetti (pubblici e privati) saranno in grado di attuarle in concreto. Chi fa, che cosa fa, quanto costa e chi paga: questo dovrebbe essere il vero punto di partenza di una politica di conservazione della natura e del paesaggio su base territoriale.
* Docente di urbanistica all' Università di Firenze |