Federparchi
Federazione Italiana Parchi e Riserve Naturali


PARCHI
Rivista del Coordinamento Nazionale dei Parchi e delle Riserve Naturali
NUMERO 19 - OTTOBRE 1996


Metodologie e strumenti progettuali
Roberto Gambino


1. Analisi, valutazioni e progetto: un rapporto circolare interattivo
Nell'esperienza europea, anche recente, di pianificazione dei parchi naturali, si avverte spesso una certa confusione tra i diversi momenti che intervengono nell'elaborazione dei piani, più precisamente tra il momento analitico-valutativo ed il momento propriamente progettuale. Non di rado i piani dei parchi sembrano ridursi a descrizioni più o meno accurate della realtà in atto, a censimenti più o meno sistematici delle risorse esistenti, a valutazioni più o meno "oggettive" dei beni e delle condizioni ambientali, quasi che le scelte di tutela e di gestione, che i piani stessi propongono, ne derivassero per logica ed automatica conseguenza. La ragione di questa confusione è facilmente intuibile ed è sostanzialmente la stessa che ha comportato il grave ritardo con cui nella maggior parte dei Paesi europei si è consolidato il ricorso alla pianificazione come strumento di gestione (a differenza degli Stati Uniti d'America dove essa è stata sistematicamente adottata fin dall'inizio del secolo). Si tratta dell'idea, più o meno esplicitamente dichiarata, che le strategie conservative da applicarsi nei confronti delle risorse e degli spazi naturali, proprio perché volte a "conservare" il più possibile i valori in atto - valori istituzionalmente protetti e comunque scarsamente o per nulla "negoziabili"-, siano sempre univocamente ed indiscutibilmente determinate, coperte dal rassicurante ombrello della ricerca sicentifica oggettivante. Sappiamo ormai che quest'idea non è sostenibile né sul piano teorico né sul piano pratico (la non negoziabilità dei valori in gioco non implica evidentemente l'indiscutibilità delle scelte relative ai modi con cui conservarli e tutelarli) e che la confusione che ne consegue è assai pericolosa: essa tende a nascondere le responsabilità di scelta che sono connesse all'atto del pianificare, ad indebolire la capacità dei piani di portare ragioni esplicite a sostegno delle scelte proposte, ad inquinare i processi di legittimazione democratica delle politiche di gestione. Ciò è tanto più grave in quanto, soprattutto in Europa e soprattutto negli ultimi decenni, i problemi di gestione delle aree protette si sono intrecciati sempre più strettamente con quelli dello sviluppo economico e sociale, rendendo sempre più difficile la separazione delle scelte, per così dire, "interne" alle prime, da quelle relative all'intero contesto territoriale e ponendo quindi crescenti esigenze di legittimazione dell'azione pubblica. Perché le ragioni delle scelte possano essere correttamente confrontate e discusse, è necessario tenere ben distinti gli esiti delle analisi, delle ricerche e delle valutazioni dai contenuti propriamente progettuali del piano: e ciò significa che anche le categorie descrittive e valutative sono, di per sé, nettamente distinte dalle categorie normative con cui si esprime il piano.
Riconoscere la distinzione e la reciproca autonomia del momento analitico-valutativo e di quello progettuale non significa tuttavia concepirli come momenti separati. Al contrario tale riconoscimento è alla base di una piena consapevolezza dei rapporti, difficili e complessi, che intercorrono tra le analisi (orientate dalle opzioni di fondo del piano), le valutazioni (che non possono evitare di far riferimento a sistemi di preferenze e scale di valore espressi dal contesto sociale in relazione agli obiettivi del piano) e le elaborazioni progettuali (ovviamente influenzate dalle analisi e dalle valutazioni). Rapporti di reciproca interazione, che difficilmente si conciliano con le vecchie concezioni deterministiche, che prevedevano una sequenza rigida ed unidirezionale, dall'analisi alla diagnosi al progetto, e che al contrario comportano frequenti inversioni di rotta, rinvii e retroazioni. E' nell'ambito di questi rapporti che si situa quell'attività "interpretativa", volta ad orientare ed arricchire l'esperienza fruitiva dei visitatori, che costituisce, soprattutto in alcuni Paesi, l'espressione peculiare della funzione istituzionale dei parchi. E' infatti evidente che l'interpretazione del parco (in quanto strumento di comunicazione che connette i visitatori alle risorse e che mira ad influenzare i comportamenti e gli atteggiamenti) riflette i progetti di gestione e d'uso sostenibile non meno dei dati conoscitivi emergenti dalle ricerche.
In larga misura, la confusione tra piano e conoscenza, tra analisi e progetto nel campo della pianificazione delle aree protette, può essere spiegata dall'importanza e dalla complessità assunte - in tale campo - dalle attività analitiche e valutative. Se si confrontano le esperienze di pianificazione dei parchi con quelle, ad esempio, della pianificazione urbanistica tradizionale, appare chiaro come il baricentro dell'impegno non solo tecnico e scientifico sia, nelle prime, decisamente spostato verso le attività conoscitive. Tali attività comportano infatti, soprattutto nell'esperienza europea, un vasto allargamento del ventaglio di competenze scientifiche e professionali coinvolte ed una crescente esigenza di sintesi e di integrazione interdisciplinare e transdisciplinare. Molti saperi sono coinvolti (da quelli del geologo a quelli del biologo, dell'ecologo, del naturalista, del geografo, del paesaggista, dello storico, dell'architetto, del pianificatore, eccetera), ma la somma dei saperi non basta: I'apprezzamento della qualità ambientale implica la cattura di quel "valore aggiunto" che deriva dalla compresenza e dall'interazione di valori diversi, che i diversi contributi disciplinari distintamente considerano. Soprattutto nei contesti europei, è necessario considerare l'effetto congiunto dei caratteri "naturali" e dei caratteri "culturali", che insieme plasmano i paesaggi dei parchi e che tuttavia la diaspora delle discipline scientifiche e la grande frattura tra scienza della terra e scienza dell'uomo tuttora ci inducono ad analizzare separatamente. L'importanza assunta, in molte esperienze, dalla figura del naturalista (che tende a considerare congiuntamente aspetti geologici, vegetazionali e faunistici); il ruolo sinottico e spesso disperatamente supplente del pianificatore (attrezzato a comporre e coordinare contributi diversificati, in vista delle sintesi progettuali); la rivisitazione del concetto di paesaggio in quanto espressione sintetica dei processi d'elaborazione storico-naturale del territorio sono alcuni dei segni con cui si manifesta la necessità ineludibile ed insieme l'estrema difficoltà di coordinare operativamente una molteplicità di contributi diversificati. Nel tentativo di superare questa difficoltà, la stessa articolazione dei programmi di ricerca tende, soprattutto nelle esperienze più recenti, a discostarsi significativamente da quelle più tradizionali, che riflettono le divisioni consolidate delle discipline scientifiche, per aderire piuttosto alle scansioni problematiche che di volta in volta si presentano sul terreno (ad esempio: problemi geomorfologici e/o idrogeologici, problemi ecologici e naturalistici, problemi relativi al patrimonio storico-culturale e/o all'assetto insediativo, problemi agroforestali, problemi relativi alla percezione e fruizione paesistica, eccetera). L'articolazione per problemi, anziché per aree disciplinari, costringe infatti gli specialisti ad affrontare precocemente la difficoltà di confronto ed interazione. Questa difficoltà diviene particolarmente evidente nelle (per ora rare, ma sempre più necessarie, soprattutto se collegate alle attività di monitoraggio) esperienze di valutazione esplicita e formalizzata dei siti, delle risorse, delle condizioni e dei rischi ambientali. Questa richiede infatti - per strutturare efficacemente gli argomenti di scelta ed offrire un buon aiuto alle decisioni da prendere - di comporre in giudizi complessivi i singoli apprezzamenti settoriali, confrontando e "ponderando" i valori parziali espressi. E' infatti evidente che assegnare un peso ai diversi aspetti che caratterizzano un sito o una risorsa - in particolare pesare le valenze "culturali" per rapporto a quelle "naturali" - implica un riferimento, più o meno esplicito e consapevole, ai soggiacenti sistemi di preferenze sociali e culturali. Questo nodo è tanto più difficile da sciogliere in quanto le valutazioni si applicano, nel caso dei parchi, ad un patrimonio di risorse che presenta alcune intriganti peculiarità: la rarità e spesso l'unicità e irriproducibilità dei beni, la loro fruibilità tendenzialmente libera e pubblica, la loro durata nel tempo (che va spesso molto al di là della "vita economica" delle opere realizzate), la pregnanza di valori non riducibili in termini economici o monetari, la variabilità nel tempo e nella società dei valori stessi, la frequente impossibilità di individuare un referente decisionale in grado di controllare gli usi e le trasformazioni attese o temute, eccetera. Tutto ciò mette a dura prova gli approcci metodologici correntemente impiegati nelle procedure valutative e costringe anzi a ripensarne gli stessi fondamenti teorici.
 



2. La costruzione tecnica del piano
Nella maggior parte dei Paesi europei, la pianificazione dei parchi si avvale di strumenti specifici, ossia specificamente riferiti ai territori protetti, più o meno organicamente collegati ai piani urbanistici, territoriali, paesistici riferiti ai rispettivi contesti territoriali. Tali strumenti specifici possono avere carattere settoriale (come i piani di gestione naturalistica o forestale, o i piani per il turismo e la fruizione ricreativa) oppure carattere generale. Sono soprattutto questi ultimi, pur variamente definiti nelle diverse legislazioni nazionali, ad aver assunto un ruolo centrale nei confronti della gestione dei parchi, in analogia a quanto già si era verificato per i General Management Plan nell'esperienza americana. In Italia, la legge 394/1991 definisce all'articolo 12 il "piano per il parco" attribuendogli il compito di disciplinare:

  • a) organizzazione generale del territorio e sua articolazione in aree e parti caratterizzate da forme differenziate di uso, godimento e tutela
  • b) vincoli, destinazioni d'uso pubblico o privato e norme di attuazione relative con riferimento alle varie aree o parti del piano
  • c) sistemi di accessibilità veicolare e pedonale con particolare riguardo a percorsi, accessi e strutture riservati ai disabili, ai portatori di handicap ed agli anziani
  • d) sistemi di attrezzature e servizi per la gestione e la funzione sociale del parco, musei, centri di visite, uffici informativi, aree di campeggio, attività agrituristiche
  • e) indirizzi e criteri per gli interventi sulla flora, sulla fauna e sull'ambiente in generale.

Si tratta dunque di uno strumento "speciale", anche se poi lo stesso articolo della legge gli conferisce valore "sostitutivo" di ogni altro strumento di pianificazione.
Ma la domanda di pianificazione che si è negli ultimi decenni manifestata per la gestione dei parchi naturali (e, più in generale, per la gestione dei problemi ambientali) ha colto la cultura tecnica, politica ed amministrativa della pianificazione e le discipline che vi convergono in una fase di crisi profonda e generale, in gran parte determinata dai grandi cambiamenti che si sono verificati nella seconda metà di questo secolo negli scenari economico-territoriali e nei processi politici e decisionali. Le risposte che la gestione dei parchi chiede alla pianificazione toccano anzi proprio i punti nodali della crisi in atto.
La prima e più ovvia sollecitazione cui la pianificazione dei parchi deve rispondere concerne le strategie di gestione, o, più precisamente, la possibilità di inscrivere gli interventi e le misure di tutela e valorizzazione in prospettive sufficientemente ampie e lungimiranti. L'esperienza degli ultimi decenni ha convinto le autorità di gestione - anche nei Paesi che, disponendo di spazi naturali molto estesi e lontani dalle principali pressioni urbane e turistiche, hanno più a lungo ritenuto di poter fare a meno della pianificazione specifica dei parchi - della inadeguatezza delle politiche settoriali e dei rischi connessi alle politiche di gestione puramente "difensive", in quanto tali sostanzialmente disarmate di fronte a processi di modificazione ambientale massicci e pervasivi, come quelli che hanno ormai attaccato anche le aree più remote. Per fare dei facili esempi, è chiaro che fronteggiare le pressioni derivanti dai processi d'urbanizzazione comporta politiche ben più articolate e complesse di quelle tradizionalmente praticate per fronteggiare le minacce del bracconaggio. Ciò che si chiede al piano è quindi, prima di tutto, di svolgere una funzione di coordinamento strategico di una molteplicità di politiche diversificate (agricole, forestali, turistiche, trasportistiche, urbanistiche, eccetera), che consente di anticipare e, almeno in una certa misura, controllare i processi di trasformazione, frenando gli sviluppi indesiderabili e favorendo quelli desiderabili. Ma, sebbene questa funzione sia ben radicata nelle tradizioni della pianificazione urbanistica e territoriale (almeno nei Paesi con più robusta cultura del territorio) essa si scontra oggi con numerose difficoltà, che hanno progressivamente indebolito la dimensione strategica della pianificazione; la crescente imprevedibilità ed incontrollabilità dei processi evolutivi (si pensi ai rapidi cambiamenti dei comportamenti turistici), la complessificazione dei processi decisionali (esacerbata, soprattutto nel nostro Paese, dalla confusione delle competenze istituzionali), la crescente conflittualità nell'uso delle risorse scarse, l'inadeguatezza della spesa pubblica a fronte dei problemi ambientali, ed altre ancora. Queste difficoltà non esimono dal cercare di esprimere, coi piani, una sufficiente capacità strategica, oggi più necessaria che mai, ma costringono il "pensiero strategico" a misurarsi con esigenze nuove e stringenti di flessibilità e capacità d'adattamento ai mutamenti del contesto.
La seconda fondamentale domanda alla quale la pianificazione dei parchi dovrebbe rispondere riguarda la disciplina degli usi e delle attività, opportunamente differenziata in funzione dei caratteri e delle condizioni specifiche dei siti e delle risorse. Anche questa domanda nasce dall'esperienza di gestione, che in tutti i contesti ha dovuto misurarsi con una crescente complessificazione dei processi di trasformazione, dei rischi e delle minacce ambientali e delle domande d'uso delle risorse stesse. In generale, la complessificazione dei processi e l'aumento dei conflitti ambientali mettono a nudo i limiti delle norme che accompagnano, di regola, gli atti istitutivi delle aree protette: norme che, anche quando notevolmente articolate (come è avvenuto nei parchi regionali francesi con le rispettive Chartes constitutives e in alcuni parchi regionali italiani, ad esempio il Parco dei Colli Euganei, a differenza dei parchi "storici" come il Parco del Gran Paradiso, ove vige tuttora una disciplina indifferenziata per l'intero territorio) non possono tecnicamente assicurare la necessaria differenziazione della disciplina d'uso, di tutela e di valorizzazione. E' questo il compito della pianificazione, ed è un compito che la pianificazione (in particolare quella urbanistica) ha tradizionalmente svolto. Ma anche questo compito tocca un punto cruciale di crisi e di evoluzione della cultura del piano. In sintesi, la differenziazione spaziale della disciplina può infatti seguire due approcci diversi:

  • a) quello "esclusivo", che tende essenzialmente ad assicurare la separazione spaziale degli usi, delle attività e degli attori potenzialmente in conflitto, in particolare ad escludere da determinate aree quegli usi e quelle attività che possono produrre inaccettabili pressioni trasformative sui suoli e sulle risorse implicate
  • b) quello "inclusivo", che tende essenzialmente a favorire o tutelare la compresenza spaziale di quegli usi, quelle attività e quegli attori che stanno fra loro in rapporti di complementarietà o sinergia, in particolare quando tali rapporti caratterizzano specifici luoghi o contesti.

Il primo approccio è stato ampiamente praticato nella "zonizzazione" urbanistica tradizionale, che ha ricevuto dalla filosofia razionalista e funzionalista affermatasi nella prima metà di questo secolo una sorta di consacrazione teorica. Nonostante le critiche che dagli anni Settanta hanno investito questo strumento fondamentale della pianificazione, va sottolineato che esso continua ad essere lo strumento più utilizzato anche nel campo della pianificazione dei parchi naturali, nell'esperienza internazionale ed in particolare europea; la zonizzazione dei parchi, vale a dire la suddivisione del territorio protetto in zone, tendenzialmente omogenee al proprio interno, soggette a forme differenziate di disciplina, è uno dei pochi elementi uniticanti di una molteplicità di dettati legislativi e di esperienze pratiche per altri versi profondamente divaricate, anche se applicata con modalità e contenuti diversi da Paese a Paese e da parco a parco. In Italia, la legge 394/1991 (articolo 12) ricalca tale orientamento suggerendo la suddivisione in "riserve integrali", "riserve generali orientate", "aree di protezione" e "aree di promozione economica e sociale", ed indicando per ciascuna di tali aree le principali limitazioni od esclusioni da adottare. Questo ricorso generalizzato alla zonizzazione non stupisce, poiché la strategia della separazione è spesso necessaria a salvaguardia di irrinunciabili valori ambientali: basterebbe pensare ai divieti d'edificazione lungo le coste e le fasce fluviali.
Ma, in generale, la separazione non basta e può essere anzi spesso controproducente. La difesa della qualità ambientale - in termini di ricchezza e identità - richiede ben più spesso strategie d'integrazione, contro le tendenze all'eccessiva specializzazione funzionale, alla semplificazione e banalizzazione paesistica ed all'impoverimento della diversità biologica che minacciano gli spazi della modernizzazione. La ricerca delle differenze e delle eterogeneità che alimentano le dinamiche interattive interne agli ecosistemi ed ai paesaggi, caratterizzandone e rendendone riconoscibile l'identità, è spesso più importante dell'individuazione dei confini che dividono o potrebbero dividere le diverse zone "omogenee" o supposte tali. La ricerca delle linee di connessione che - come i "corridoi ecologici" - assicurano l'unitarietà paesistica ed ecosisternica e riducono i rischi d"'insularizzazione" delle aree protette, è spesso più importante della definizione delle ragioni d'esclusione degli usi e delle attività incompatibili. Nel tentativo di "separare quando necessario, ma integrare ovunque possibile", la pianificazione è quindi impegnata a sperimentare strumenti diversi dalla zonizzazione tradizionale, ispirati a filosofie "inclusive" piuttosto che "esclusive". L'attenzione recentemente portata dalla pianificazione paesistica ed ambientale sulle "unità di paesaggio" (concepite come ambiti caratterizzati da specifici sistemi di relazioni tra componenti eterogenee, che conferiscono loro una riconoscibile identità) e sulle "reti ambientali" (ecologiche, paesistiche, funzionali, storico-culturali) che ne costituiscono il tessuto connettivo, testimonia l'interesse per questa difficile ma ineludibile ricerca.

 

3. I rapporti tra i piani
La costruzione tecnica del piano è soltanto un momento, importante ma mai separabile o conclusivo, dei processi di pianificazione che s'intrecciano coi processi di gestione. E poiché i processi di gestione concernono realtà inserite in più o meno vasti contesti territoriali, economici e sociali, occorre chiedersi come la costruzione tecnica del piano si collochi in rapporto a tali contesti. Nell'esperienza europea degli ultimi decenni, due nodi sembrano emergere con una certa costanza anche se in forme diverse nei diversi Paesi: quello che concerne il rapporto tra parchi e territorio, e quello che concerne il rapporto tra politiche di vincolo e politiche di spesa (o, se si preferisce, tra misure di disciplina e programmi d'intervento).
Semplificando molto, la crucialità del rapporto tra parchi e contesto emerge da due distinti punti di vista. Dal punto di vista della gestione dei parchi, le esperienze concrete avvalorano le indicazioni teoriche (teoria delle metapopolazioni e teoria dell'insularità biologica) circa i rischi dell' "insularizzazione" dei parchi stessi, i rischi cioè che essi, da santuari della natura si trasformino in "isole assediate" da contesti crescentemente ostili, destinate ad un progressivo impoverimento biologico; ma alle preoccupazioni ecologiche aggiungono la consapevolezza che, data la natura e la pervasività degli attuali processi di trasformazione ambientale, la maggior parte dei problemi che si manifestano nei parchi hanno origine o possono trovare soluzione fuori dei parchi stessi (in altre parole, le politiche dei parchi hanno poche speranze di successo, come ancora ha ribadito la Conferenza di Rio nel 1992, se non si inseriscono in politiche di difesa ambientale estese all'intero territorio). Dal punto di vista della gestione del territorio, l'esplosione della questione ambientale, moltiplicando le occasioni di rischio e le istanze di tutela, induce alla ricerca di politiche che affianchino quelle dei parchi affrontandone le principali implicazioni, come quelle volte alla costituzione dell' "infrastruttura ecologica" di base (la rete ecologica europea e quelle nazionali e regionali) o alla tutela dei paesaggi agrari e del country-side: è chiaro, d'altra parte, che la ricerca di forme "sostenibili" di sviluppo si pone a livello di vaste aree territoriali e non è confinabile all'interno delle aree protette, anche se queste possono rappresentare dei formidabili laboratori di sperimentazione. Da entrambi i punti di vista, emerge quindi l'importanza dei rapporti che esistono o che è possibile stabilire tra i parchi - in quanto nodi "eccellenti" delle reti ecologiche territoriali - ed i rispettivi contesti.
Nei diversi contesti, questo problema è stato affrontato in modi diversi, più o meno pragmatici o istituzionalizzati. Ma ciò che in questa sede preme rilevare è il fatto che la stessa costruzione tecnica del piano deve tenere in adeguata considerazione i rapporti del parco col contesto. Ciò riguarda in primo luogo le analisi valutative, che dovrebbero di regola convenientemente estendersi all'esterno del territorio protetto anche in relazione all'individuazione delle zone contigue o delle "buffer zone" destinate ad assicurare una corretta transizione dalla disciplina interna a quella estema). In secondo luogo riguarda i rapporti tra il piano del parco ed i piani urbanistici, paesistici o territoriali del contesto, rapporti che non possono certo risolversi col semplice esercizio di quei poteri "sostitutivi" che il legislatore italiano (in contrasto con gli orientamenti prevalenti in Europa) ha inteso affidare al piano del parco, poiché al contrario richiedono verifiche e confronti volti ad assicurarne la necessaria compatibilità e coerenza. In terzo luogo il problema riguarda la costruzione "sociale" del piano, il modo cioè con cui i diversi soggetti ed attori coinvolti partecipano alla sua elaborazione e alla sua gestione. A questo proposito è interessante notare che si ripropone quell'alternativa già richiamata in riferimento alle strategie di disciplina, tra una strategia "esclusiva" ed una strategia "inclusiva". Il riconoscimento di opzioni non negoziabili alla scala locale, perché rispondenti ad interessi "superiori", e la netta distinzione tra le decisioni che competono all'amministrazione pubblica e quelle che possono essere lasciate ai privati, riflettono non di rado la preferenza accordata alle strategie esclusive. Ma la ricerca di alleanze, forme cooperative e relazioni sinergiche tra soggetti sociali diversi, congiuntamente interessati alla tutela od al miglioramento della qualità ambientale, è spesso più importante della delimitazione delle rispettive aree di competenza e delle priorità decisionali: anche per i problemi ambientali, la negoziazione è spesso più efficace dei vincoli o degli editti.
Il problema del rapporto tra politiche di vincolo e politiche di spesa si collega strettamente a quanto testè osservato. E' infatti evidente, alla luce dell'esperienza concreta, che la ricerca delle necessarie intese tra le autorità di gestione dei parchi e gli attori locali (come più in generale la soluzione negoziale dei conflitti ambientali) ha scarse probabilità di successo se non considera la possibilità di orientare la spesa pubblica in funzione degli interessi localmente rilevanti di sviluppo sostenibile. A questo riguardo è importante sottolineare che non si tratta tanto di innescare meccanismi "compensativi" o "assistenziali" a sostegno delle economie locali ed a risarcimento delle penalizzazioni associate ai vincoli di tutela, quanto piuttosto di promuovere quelle azioni che possono più efficacemente valorizzare e proteggere le risorse ambientali, uscendo da una logica di difesa passiva e determinando congiuntamente ricadute positive per le prospettive di sviluppo delle comunità locali. Non va dimenticato che molte delle forme di tutela proponibili nei parchi naturali, come tipicamente quelle che concernono il patrimonio forestale o i paesaggi agrari, non sono concretamente attuabili se non attivando opportune misure economiche d'intervento diretto o di incentivazione. Di qui il legame, molto forte in certe esperienze europee come tipicamente quella dei parchi naturali francesi, tra la definizione dei regimi di disciplina e quella delle indicazioni programmatiche di spesa. Nel contesto italiano, la prospettiva disegnata dal legislatore con la legge 394/1991, non senza ambiguità e reticenze, si fonda sull'associazione tra il piano del parco ed il "piano pluriennale economico e sociale per la promozione delle attività compatibili" (articolo 14), affidato alla comunità del parco (a differenza del piano del parco che è formato dall'Ente di gestione ed approvato dalla Regione). La ricerca di un'organica connessione o almeno di un'accettabile coerenza tra i due piani costituisce certamente obiettivo difficile da raggiungere, anche per la differenza delle procedure e dei soggetti istituzionali. Ma rappresenta tuttavia una sfida importante da raccogliere in un Paese come l'Italia in cui il distacco dei piani dalle politiche della spesa pubblica costituisce da molto tempo un problema assai più grave che altrove.
 



Riferimenti
La presente nota fa precipuo riferimento alla vasta ricerca sulla pianificazione dei parchi naturali in Europa (Ppne), condotta negli ultimi quattro anni da numerose sedi universitarie italiane, coordinate dal Dipartimento interateneo territorio del Politecnico e dell'Università di Torino, con l'ausilio di un ampio network di centri di ricerca diffusi in tutta l'Europa e con la collaborazione del Cnr.
La ricerca, finanziata dal Ministero dell'università e della ricerca scientifica, con contributi Cee, ha dato luogo a numerose pubblicazioni, fra cui si segnala in particolare I parchi naturali europei (a cura di Roberto Gambino), La Nuova Italia Scientifica, Roma 1994. La documentazione sulla pianificazione dei parchi in Europa è raccolta e consultabile presso il Centro europeo di documentazione (Ced), Politecnico di Torino, Corso Trento 26/c,10129 Torino (tel.5647477).

* Politecnico di Torino