PARCHI | ||
Rivista del Coordinamento Nazionale dei Parchi e delle Riserve Naturali NUMERO 20 - FEBBRAIO 1997 |
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Dissesto idrogeologico e nuovi assetti forestali nel Parco delle Alpi Apuane Antonio Bartelletti * Alessia Amorfini ** Luca Zocca Pisana ** |
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L'alluvione in Versilia e in Garfagnana del 19 giugno 1996 ha dimostrato, in tutto il suo drammatico sviluppo (anche successivo agli eventi), quanto ancora sia fragile il consenso intorno ai Parchi, soprattutto nell'occasione di calamità naturali che sfuggono al controllo dell'uomo (e, in particolare, là dove più tormentata e sofferta è stata la nascita di un'area protetta). Le Apuane costituiscono pertanto un caso paradigmatico di come l'istituzione "Parchi" necessiti di ulteriore metabolizzazione nel tessuto culturale delle aree marginali, principalmente se si pongono a distanza notevole, geografica e culturale, dagli ambiti metropolitani. Nei giorni appena successivi ad un evento naturale limite (che travalica le capacità di difesa del suolo di un territorio), le Comunità locali tendono spesso a manifestare - anche nel caso in questione - atteggiamenti di prostrazione collettiva, ritenendo d'istinto imprevedibile e ineluttabile ciò che è avvenuto (quasi fosse il retaggio di una condizione "perdente" del mondo rurale rispetto alle prodigiose forze della natura). In seguito però (quale elemento consapevole di emancipazione storica), vanno ad emergere e diffondersi atteggiamenti polemici e sentimenti crescenti di contrarietà verso le istituzioni, ritenute colpevoli di non aver posto in essere opere preventive di limitazione o, perfino, di annullamento degli effetti distruttivi patiti. In questo caso, la "colpa" ricade inevitabilmente sull'istituzione o le istituzioni avvertite come più distanti, non solo in termini geografici, quanto soprattutto in termini culturali. Nelle "aree non protette" è in primo luogo lo Stato, poi la Regione, seguita da Provincia (eventualmente dalla Comunità Montana) ed infine il Comune a contendersi, nell'ordine, la palma della pubblica avversione e del risentimento popolare. Nelle "aree protette" invece, salta, al primo posto il Parco: tollerato o contrastato in condizioni normali; combattuto e respinto nei momenti di "crisi territoriale", in cui gli eventi alluvionali si pongono. Nell'occasione della calamità naturale del 19 giugno, la reazione "allergica" dei cittadini del Parco verso le istituzioni è divenuta più evidente quando alcuni rappresentanti di spicco del mondo della tutela e della protezione ambientale (tra cui il Ministro Ronchi), invece di presenziare all'opera di soccorso, hanno colto al volo l'attimo fuggente per far scuola di pensiero. I cittadini, che hanno visto perdersi sotto le frane o scivolare nelle acque dei fiumi i propri beni, non hanno di certo apprezzato le osservazioni - errate nel merito e supponenti nel metodo - di chi ha indicato le cause del disastro nell'opera di cementificazione e di deforestazione del territorio. Probabilmente, il messaggio, con il suo rigido schematismo, era soprattutto rivolto alla platea nazionale e voleva forse richiamare l'attenzione sul generale dissesto idrogeologico che caratterizza la penisola italiana. Tuttavia, per le Comunità locali queste parole, così lontane e distaccate, hanno invece suonato come un affronto e un insulto. In altri termini, è come se qualcuno avesse detto loro: "Non piangete ora dei danni subiti perché, voi siete la causa di essi!". Ad una provocazione demagogica ne consegue sempre un'altra uguale e contraria. D'altra parte, nella scarna logica dei "valligiani", se Ronchi ha parlato in quel modo è perché, attaccando i "governi e le comunità locali", voleva difendere il ruolo delle "proprie creature" sullo stesso territorio. Muovendo da questa considerazione, il passo è breve per portare i "locali" ad esprimere espliciti attacchi ed accuse nei confronti del "neonato" Parco delle Apuane: "Hanno inchiodato il territorio, non possiamo fare niente, nessuno pulisce i boschi, nessuno può togliere i tronchi degli alberi caduti. E poi accadono i disastri". Nel primo mese del dopo alluvione - al di là dei toni polemici - due sono state pertanto le tesi che si sono confrontate, sulle pagine dei giornali e nei dibattiti, intorno alle cause degli eventi distruttivi del 19 giugno. Da una parte, la tesi "ministeriale" (non verificata sul territorio) della cementificazione selvaggia e della deforestazione spinta delle valli della Versilia e della Garfagnana. Dall'altra, la tesi dell'eccessiva proliferazione del bosco (definita in termini pseudotecnici "iperforestazione"), ormai fuggito al controllo degli uomini (stante i presunti vincoli del Parco), da cui l'appesantimento dei versanti e l'ostruzione dei canali. In quei frangenti, il Parco si è subito preoccupato della situazione, non tanto per il declinare del proprio indice di gradimento e di consenso tra gli abitanti dell'area, quanto soprattutto per la conflittualità territoriale che tali polemiche e contrapposizioni potevano innescare, con un arretramento pericoloso di posizioni, culturali e politiche, sulla strada della piena conservazione e della tutela di queste valli apuane. Il Parco si è poi immediatamente attivato nei confronti della Regione Toscana (cioè del Commissario straordinario per la ricostruzione) affinché, potesse lui stesso svolgere, in prima persona, uno studio di dettaglio sulla portata dell'alluvione e sulla diversa risposta che il territorio ha dato in termini di stabilità dei versanti. In altre parole, il Parco ha voluto condurre approfondite ricerche sui rapporti tra copertura vegetale e franosità nelle valli colpite dalla calamità naturale, per sopire gli animi e tacitare i falsi esperti, proliferati come funghi. Rispetto alle due tesi prima ricordate, va subito detto che entrambe sono ben lontane dalla realtà dei fatti, nonostante che possano contenere alcuni elementi di verità. Errati comunque sono i presupposti della tesi "ministeriale", in quanto il territorio alluvionato è coperto, per oltre il 70 % di superficie, da boschi densi e compatti, scarsamente soggetti a tagli colturali, mentre le opere edilizie ed infrastrutturali si limitano a piccoli centri abitati di antica formazione e ad una viabilità storica principale di fondovalle, con brevi tratti secondari di versante, ancora ad uso di insediamenti stabili. Riguardo poi alla tesi "popolare" dell'iperforestazione bisogna, per il momento, specificare che l'abbandono di pratiche selvicolturali non è frutto di vincoli e di dinieghi del Parco, bensì di un generale e diffuso declino dell'economia rurale montana (quale conseguenza di decremento demografico, pendolarismo lavorativo, terziarizzazione delle attività superstiti, ecc.). Sfrondato il campo da questi evidenti errori di analisi, I'attenzione va subito rivolta sulla effettiva portata dell'evento alluvionale, per valutarne il grado di eccezionalità. Senza ombra di dubbio si può affermare che l'entità delle precipitazioni del 19 giugno, nell'intorno dei paesi di Cardoso e Fornovolasco, ha raggiunto valori impressionanti, mai registrati in precedenza. 1 478 mm di pioggia di quella giornata, con una punta di 176 mm in una sola ora, costituiscono veri records rispetto ai precedenti valori massimi di 170 mm giornalieri e 80 mm orari. A mo' di confronto si ricorda che il 19 giugno, in questo lembo di Apuane, è piovuto circa il 30 % dell'entità media annuale degli stessi luoghi. In particolare, in sole 13 ore di violente precipitazioni è caduta tanta acqua come, di media, in sei mesi a Roma, a Milano o a Napoli (o come l'intero anno a Cagliari). Nell'ultima alluvione del Piemonte, nel 1994, e in quella di Firenze del 1966, i 400 mm di pioggia sono stati raggiunti, rispettivamente, dopo due e quattro giorni di amussi meteorici. Gli esperti stanno da tempo seriamente pensando che il clima della regione stia subendo, una radicale modifica, avvicinandosi per certi aspetti a condizioni subtropicali o tropicali. L'aumento della temperatura (quale conseguenza dell'effetto serra?) provocherebbe la formazione in mare di maggiori quantità di masse umide che, portate ad infrangersi sulle Apuane e sul vicino Appennino, concentrerebbero in brevi spazi e in poco tempo ingenti quantità di pioggia anche per la contemporanea mancanza di venti. Operando previsioni statistiche sulle serie dei valori pluviometrici conosciuti (successivi comunque al 1931), il tempo di ritorno di un evento simile alla pioggia del 19 giugno sarebbe di circa 10.000 anni. Considerando nella serie anche quel valore extra norma, il tempo di ritorno relativo ai valori delI'evento orario scenderebbe invece a 567 anni. II tutto, ovviamente non valutando la possibile ed incipiente variazione climatica in senso tropicale che, nell'immediato futuro, aumenterebbe la probabilità del determinarsi di condizioni favorevoli a tali eventi distruttivi. Siamo dunque in presenza di un caso limite, probabilmente di scala millenaria (ma forse meno raro per il futuro, che ha colpito un territorio con particolari caratteristiche geomorfologiche e forestali. Lo studio condotto dal Parco - con l'aiuto di una società specializzata (D.R.E.A.M. Italia s.c.r.l.) - ha messo in chiara luce come la stragrande maggioranza dei dissesti verificatisi il 19 giugno (oltre 300 frane del tipo "colata di detrito", sia lineare, lungo i canali, sia areale, lungo i versanti), debba essere posto in relazione a particolari condizioni ambientali, spesso concomitanti tra loro. Le copiose piogge di quel giorno hanno imbibito il terreno oltre l'immaginabile, incrementando il peso dei suoli e favorendo la lubrificazione dell'interfaccia fra substrato roccioso e coltre detritica. Tuttavia gli eventi franosi, così numerosi e diffusi si sono verificati soprattutto dove c'è stata la concentrazione dei seguenti fattori d'instabilità: a) substrati impermeabili o quasi (filladi e flysch terziario metamorfici); b) giacitura a franapoggio per stratificazione e/o scistosità; c) acclività accentuata dei versanti (spesso superiore al 50%); d) presenza di formazioni vegetazionali "artificiali", riferibili al castagneto (sia da frutto che ceduo). Mentre i primi tre t`attori sono facilmente riconoscibili e già evidenziati in questo come in altri eventi calamitosi, il quarto fattore ha invece assunto nell'occasione un rilievo del tutto particolare. Si potrebbe infatti parlare di una crisi complessiva del castagneto di fronte all'eccezionalità dell'evento. Qualcuno ha ricordato che l'abbandono diffuso delle cure colturali al castagno ha favorito un aggravarsi dello stato di salute di tale coltivazione, limitando la sua capacità di stabilizzare i versanti. Non è comunque la presenza di un sottobosco più folto di ieri - come credono in loco - a determinare un più contenuto effetto di difesa del suolo (maggiore è, al contrario, la superficie radicale attiva, così come maggiore risulta l'azione regimante e antierosiva della parte subaerea dei suffrutici). In realtà, soprattutto gli individui maturi di questa specie, che necessitano oggi di interventi straordinari di potatura, hanno aumentato, con l'abbandono colturale, il peso della loro massa arborea sulI'unità di superficie, lasciando talvolta anche "chiarie" e interruzioni di copertura per stramazzi e altre cause di mortalità. La situazione si modifica di poco nei cedui, con i polloni magari minacciati da cancro, seccumi, ecc. Ne deriva, su larga parte del territorio apuano, un aggravamento sensibile delle condizioni di stabilità dei versanti, anche perché, il castagneto - già in condizioni ottimali di vegetazione - offre una protezione del suolo più limitata di altre formazioni forestali. D'altra parte, una coltivazione di castagno, monofitica e d'impianto antropico, con scelta di cloni per fini produttivi e condizionata da uno sviluppo superticiale degli apparati radicali, non garantisce, di partenza, gli stessi risultati di contenimento erosivo rispetto alle cenosi spontanee a struttura arborea. In effetti, i boschi misti di latifoglie, a differenza dei castagneti, esaltano la biodiversità, frutto di lunghi processi selettivi, con ecotipi locali perfettamente adattati alle diverse condizioni bioclimatiche dei versanti montuosi delle Apuane. Se ai vizi d'origine del castagneto si aggiungono i guai dell'abbandono colturale, il quadro da preoccupante diviene drammatico. Il paesaggio delle "selve" ha raggiunto da decenni il suo limite critico, non incardinando più un'economia montana in cui il castagno giocava un ruolo centrale. L'evento del 19 giugno ha evidenziato poi elementi di fragilità, di aggravamento del dissesto, che impongono scelte chiare per il futuro di tale coltivazione arborea, soprattutto per il rischio idrogeologico connesso. ll "Che fare?" del castagneto nel Parco delle Apuane, con i suoi cento e più chilometri quadrati di superficie, è un problema aperto e di stringente attualità. Tra ripresa colturale, utilizzo pascolivo o trasformazione boschiva va individuata una o più vie d'uscita. Di fronte alle varie soluzioni praticabili, una cosa è comunque certa e fuori discussione: non è possibile ipotizzare (come in tanti hanno fatto) che le istituzioni pubbliche possano accollarsi l'onere gravoso di avviare o riportare in coltivazione le superfici a castagneto. Al di là della facile obiezione riguardo alla natura privata di tali beni e sulla conseguente mancanza di un chiaro interesse pubblico alla cosa, rhnane ancora il fatto che un paesaggio agro-silvo-pastorale può mantenersi solo se è autosostenuto dall'economia rurale che lo ha creato. Altrimenti si impongono altre soluzioni di progetto e di gestione, in certi casi drastiche e comunque alternative. L'occasione di una prima scelta sul castagneto va colta con il "Piano per il Parco"' che da alcuni mesi ha iniziato a muovere velocemente i suoi passi. * Direttore del Parco delle Apuane ** Ricercatori del ~arco delle Apuane |