Federparchi
Federazione Italiana Parchi e Riserve Naturali


PARCHI
Rivista del Coordinamento Nazionale dei Parchi e delle Riserve Naturali
NUMERO 22 - SETTEMBRE/DICEMBRE 1997


Identità locali e formati della gestione
Mariano Guzzini *
 

Quando si ragionò tra noi per la prima volta dei rapporti tra le aree protette e la riforma istituzionale italiana, muovendo da una rilettura delle cose che scrisse Giacomini a suo tempo (il capitolo di "Uomini e parchi" dedicato alla concezione sistemica; le osservazioni sul consenso e sulla disponibilità popolare; le osservazioni sui confini e sulle dimensioni delle aree destinate a parco, ecc), mescolata con l'esperienza di Mario Di Fidio, e nel cono di luce delle prospettive aperte dalla Bassanini, nello schierarci tutti in modo positivo e creativo a favore della linea "ambientalista riformista" contenuta nella bozza di relazione di Di Fidio, ci trovammo a dibattere attorno alla valorizzazione della dimensione comunale, ma anche di quella provinciale, regionale e nazionale, finendo per incastrarci in una contraddizione bella e buona.
Da un lato, infatti, tutti concordiamo sulla necessità di un ritorno alla dimensione comunale, che é la sola a garantire l'indispensabile alleanza con le popolazioni locali, ma d'altro canto siamo tutti persuasi che esiste un formato degli interventi di gestione e di valorizzazione fisiologicamente sovracomunale, che non sarà mai la semplice sommatoria delle esigenze dei singoli Municipi, e che può essere compromesso e disgregato dal prevalere di logiche municipaliste.
Renzo Moschini nel 1988 in una sua relazione si era occupato della necessità di "ripartire" correttamente le funzioni di governo tra Stato, Regioni ed Enti locali, non contrapponendo i vari livelli di governo, bensì integrandoli e coordinandoli, prendendo atto del dato culturale rappresentato dal fatto che "ricerche nazionali e internazionali dimostrano ormai in maniera incontrovertibile che distinzioni del tipo di quelle che vengono invocate per rivendicare una prevalente competenza dello Stato in questa materia non reggono". Muovendo da queste considerazioni, Moschini aveva sottolineato la necessità di "prendere atto del fatto che la gestione di uno strumento "sovracomunale" comporta il superamento di visioni angustamente "municipali" da parte di ciascun Comune. Limitarsi oggi a rivendicare la propria "autonomia", non misurandosi fino in fondo con la nuova dimensione e qualità dei problemi comunali finirebbe infatti solo per favorire, lo si voglia o no, interventi autoritari e sostitutivi." Entrando poi nel merito del concetto di "coordinamento" tra Enti, Moschini - nel lontano 1988 - affermava che "... diversamente da quanto avviene per altri "beni" o servizi di cui possono essere considerati legittimi titolari e depositari le popolazioni locali, debba essere considerata una responsabilità e titolarità più ampia, non affidabile insomma esclusivamente alla comunità locale".
 

Il formato delle politiche
Ripartendo da quella problematica, e considerando un salto dalla padella nella brace la proposta di elezione diretta e popolare dei presidenti dei parchi per risolvere questa contraddizione, io dico che nessun parco può oggi rinunciare a gestire una serie di politiche riguardanti i propri obbiettivi istituzionali, rifiutandosi di considerare il dato di fatto che quelle tali politiche hanno formati di area più vasta di quella dei singoli Comuni che rientrano nel parco, e della somma pura e semplice dei territori di tutti quanti quei Comuni. Le politiche di formato vasto sono quelle che intrecciano in modo inseparabile l'obbiettivo della conservazione con quello della pubblica fruizione (public enjoyment), con quello dello sviluppo economico e sociale di tutte le comunità locali interessate, proponendo e rappresentando tutto ciò come metafora vivente e come sperimentazione di un nuovo e più accettabile rapporto con la natura, e questo è probabilmente il piccolo punto di dettaglio che rappresenta una novità rispetto agli obbiettivi che ci davamo nel 1988. Questo genere di politiche, che sono la struttura portante dell'attività di gestione di un parco di nuova generazione, e che sono la sostanza della pianificazione di nuova generazione, imploderebbero e andrebbero fuori dai gangheri se dovessero essere limitate e condizionate dai municipalismi. Ho citato a bella posta Moschini del 1988, affinché non ci fossero dubbi sull'onestà intellettuale dell'interrogativo.
Non si pongono queste questioni per provocare soluzioni centralistiche, tecnocratiche ed autoritarie. La preoccupazione nasce in casa autonomista (e, volendo, perfino federalista), nell'area di chi ritiene che i Comuni e le Province siano enti essenziali di governo dei parchi, e che non si possa fare a meno della loro presenza negli enti di gestione; che si debba spremere il massimo di decentramento possibile dalla Bassanini; che dal Ministero debbano passare alle Regioni il massimo di poteri e di funzioni, e che a loro volta le Regioni debbano liberarsi di ogni peso di amministrazione attiva che possano trasferire a Province e Comuni.
Sull'utilità di questi passaggi non abbiamo dubbi, e riteniamo che in questo consista, essenzialmente, la sostanza di una linea "ambientalista riformista" che non si tiri indietro di fronte ai vincoli indispensabili, ed alle altrettanto indispensabili politiche di fruizione e di valorizzazione dei beni tutelati e vincolati. E tuttavia resta spalancato come un baratro il problema dei formati delle politiche che gli enti gestori dei parchi debbono poter sviluppare senza la palla al piede dei localismi passivi e difensivi.
E senza le fughe in un altrove già vissuto in passato per altre vicende istituzionali, quale sarebbe - a mio modo di vedere - l'elezione diretta dei presidenti dei parchi. Se, in tempi di Maastricht e di globalizzazione, la tendenza al federalismo significasse passare da un sistema verticistico ad un sistema cosiddetto "a matrice", disboscando tutti quei poteri decentrati e polverizzati sul territorio che sono stati negli anni passati un potente complemento del centralismo, se "andare in Europa" significasse entrare in un sistema nuovo, che tenta di mettere in contatto Bruxelles con le oltre 160 Regioni d'Europa, mi sembra curiosa l'ipotesi di inserire in un meccanismo istituzionale che domanda ruoli forti dei Comuni, magari aggregati ed accorpati, un nuovo organismo elettivo che non sarebbe neppure titolare di finalità generali.
 

Comunicare identità di area vasta
lo propongo di affrontare questo problema collegando la questione delle identità locali con la questione della dimensione delle attuali forme di governo dei parchi, cercando di capire se dalla loro reciproca interazione possa uscire qualcosa di utile, e comunque tale da avvicinarci alla soluzione.
Il significato simbolico e rappresentativo di tutto ciò che facciamo amministrando i parchi, (la "funzione retorica" di rappresentazione e di comunicazione socio culturale che i parchi possiedono, come contrappeso della diffidenza e della sfiducia delle popolazioni residenti), può essere di grande aiuto per impostare consapevolmente un percorso che prenda di petto e risolva il problema della gestione dei progetti obbiettivo di formato vasto con tutta la leale collaborazione necessaria e con tutta la necessaria complementarietà, e la sussidiarietà citata anche nella Bassanini numero 59 del 15 marzo 1997.
Io ritengo nostro dovere comunicare identità di area vasta, attraverso tutti gli strumenti di comunicazione possibili. Tutti i parchi lo stanno già facendo.
Ma non sono convinto che lo facciano consapevolmente, con una precisa strategia, verificando obbiettivi e risultati, costi e benefici, e soprattutto ragionando seriamente sui confini e sulle caratteristiche della nuova identità d'area vasta che stanno contribuendo a creare. Sulla congruità, e sulla verità sostanziale dell'operazione.
La Storia in alcune località (certo: non dovunque) ha impresso sul territorio segni indelebili, che non è difficile ricostruire, e che in ogni caso interferiscono nei processi di governo di area vasta, sia che i cittadini siano consapevoli dell'esistenza di quelle identità di nicchia, sia che non ne siano consapevoli. Perciò chi si propone di recuperare le differenze come punti di forza di nuove aggregazioni, dovrà intanto studiare e documentare pazientemente gli effetti del passato, con l'esplicito e dichiarato obbiettivo di valorizzare quanto vi sia di attuale, e di criticare quanto sia solo pregiudizio o ragione di arroccamento e di difesa contro il nemico (con la creazione delle cosiddette "geograf e di rigetto").
 

Il lavoro di ricerca e documentazione che i parchi svolgono
E' un piacere leggere la grande quantità di volumi che ogni parco italiano dedica alla storia del suo territorio, spingendosi fino alla preistoria, alle emergenze archeologiche, ai miti ed alle leggende.
Ho letto saggi eccellenti su Vendicari, sui Nebrodi, sull'Aspromonte, sulla storia delle chiese rupestri del Materano inserite in un progetto di parco storico naturale della Regione Basilicata, come sull'archeologia nel Parco del Ticino, in volumi editi dagli Enti Parco; sulle leggende della Maremma come sulle storie del Parco d'Abruzzo, e volumi sulle storie del Garda sono esposti in ogni circolo culturale. Nella Guida del Parco dell'Alto Garda Bresciano si riserva lo spazio dovuto al ricordo della "Magnifica Patria" composta di trentasei Comuni e da sei "Quadre" che unì con capitale Salò 5000 abitanti dal 1500 fino al 17 ottobre 1797 (Campoformio). Per non parlare del gusto dei trentini per questo genere di ricerche, ma anche dei piemontesi e dei valdostani.
Quando la più semplice delle nostre Guide non può fare a meno di fornire spiegazioni sulle "emergenze storico culturali"; quando i parchi promuovono conferenze, dibattiti, e volumi sulle rispettive identità d'area, approfondendo le specificità e l'attualità di quelle identità (si pensi al lavoro importante che il parco delle foreste casentinesi ha fatto con l'Eremo di Camaldoli ma anche con studiosi di molte religioni del bacino del Mediterraneo sul monachesimo e l'ambiente, e sulle religioni e la pace) a me pare difficile non vedere una oggettiva e naturale vocazione dei parchi a rielaborare storia, etnografia e sociologia. E, sinceramente, non riesco a credere che questa spinta, questo bisogno di ricerca e di rielaborazione, derivi dalla necessità tutta mercantile e bancarelliera di incartare ed infiocchettare anche il passato assieme al paesaggio, alla flora e alla fauna, per rivenderlo al visitatore come gadget aggiuntivo. Darei invece per scontato che in maniera non sempre cosciente - oggi ciascun parco esprime il bisogno di possedere un suo impianto strutturale dal quale muovere nel lavoro di costruzione di una nuova identità sociale disposta a progettare collegialmente e collettivamente il proprio avvenire.
Quello che il Centro di documentazione delle Vallere di Torino contiene e produce, e quello che Gianni Boscolo ci propone periodicamente su "Piemonte parchi", sono controprove palesi di quanto sostengo. Ma ho l'impressione che, in misura diversa e con differente qualità, sarebbe possibile dimostrare il mio assunto anche sfogliando le collezioni di tutti i trenta periodici prodotti dai parchi, cominciando dalla collezione di ''Parchl~'. Ripeto: non si tratta di un lavoro che possa essere fatto ovunque. E possibile che l'area di un parco non si identifichi con nessun referente storico. Come è possibile che ne esistano una quantità enorme, un po' come successe a Troia, con sette città sovrapposte e sette differenti epoche storiche da studiare e documentare, diverse dalla Troia raccontata da Omero. Può esserci assenza di memoria da riproporre, oppure può esserci una sovrabbondanza di riferimenti da selezionare e da organizzare. Vediamo alcuni casi, alcune possibili piste per arrivare ad un risultato che potrebbe esserci, come non esserci.
Quello che propongo è un percorso di studi che va compiuto, prima di sapere se i risultati sono brillanti o scadenti occorre studiare. E vengo agli esempi. Il rapporto che si è creato tra chi lavorava la terra e contemporaneamente era cavatore e pescatore, ha definito nel Parco del Conero un'area socio politica che corrisponde agli insediamenti di galli e di piceni di epoche precedenti, e che ha trovato una sua oggettiva unità misurandosi con un monachesimo in parte ereticale fiorito nell'area, e con il governo dei vescovi conti e dei feudatari dei diversi castelli.
Le vicende del bosco della Partecipanza, di Trino, probabilmente hanno originato una comunità che potrebbe avere un suo passato da riscoprire. I pescatori e cacciatori delle paludi dell'attuale Parco del delta del Po hanno una comune storia, che ha radici molto antiche, e che non si identifica né in una sola Provincia, né in una Regione, come è largamente e dolorosamente noto. Una ricerca storica potrebbe risolvere il problema dell'identità, e forse anche altri problemi oggi molto evidenti e spinosi.
I cavatori delle Apuane, i butteri maremmani, i pastori e carbonai, ma anche la gente dell'Alto Garda, pendolari fra confini altrui, legati da mestieri complessi, che intrecciano i saperi dei montanari con quelli dei contadini e dei pescatori, potrebbero essere altrettante matrici storiche di identità di area vasta da recuperare per avere solidi punti di appoggio nel gestire efficacemente politiche di formato vasto.
Non è certo il caso di fare l'apologia del localismo regressivo, ma di prendere atto dell'esistenza di differenti forme del localismo, alcune delle quali hanno connotati positivi e progressivi. Non si tratta neppure di togliere dal frigorifero la Heimat (sottocodice del Vaterland) che tanto piaceva al Terzo Reich. Né è il caso di fare alcun genere di verso a Bossi, o a quelle storie (vere o inventate di sana pianta) che finiscono per essere talmente locali da diventare la ragione fondante di ogni "geografia di rigetto" di politiche di area vasta.
Peraltro niente di tutto questo sta accadendo nella ricerca storica, archeologica ed etnografica che pure i parchi portano avanti, con le comprensibili difficoltà dovute all'assenza di fondi specificamente destinati a questi compiti, ed alle difficoltà che derivano dalla diffidenza di istituzioni ufficiali preposte a questo genere di lavori.
Al contrario, quasi per rasserenare chiunque avesse di questi timori, I'editoria dei parchi e la ricerca storica, archeologica, etnografica, che fa capo o riferimento (attraverso le Università e gli Enti Locali) ai parchi, interviene più o meno consapevolmente sulla problematica del rapporto tra "globale" e "locale" avendo tutte le possibilità di favorire la nascita di nuove culture locali di area più vasta, tali da potersi costituire come espressioni di cultura globale, modulata localmente, in una strategia di regionalismo critico. Io credo che il localismo regressivo (socio naturale del centralismo, e suo agente nel territorio) si possa sconfiggere solo con le sue armi e sul suo proprio terreno, entrandogli in casa e riordinando consensualmente (si badi bene: consensualmente) l'altarino degli antenati, quella colorata santeria di eroi popolari e di tradizioni, che rende nemici quartieri con quartieri, castelli con i loro stessi borghi, ma che a ben guardare contiene anche storie di vasto respiro, racconti legati al lavoro o all'emancipazione, fili che possono essere riannodati attorno ad una nuova trama che non cancelli il passato, ma - rileggendolo con grande scrupolo filologico -, lo ridisegni, pazientemente e giudiziosamente.
 

A che titolo ed in che forma intervenire
Ci dice Fernand Braudel che "... se i singoli individui possono tradire, scavalcando queste memorie, queste permanenze, le civiltà continuano a vivere di vita propria, aggrappate ad alcuni punti fissi e quindi inalienabili. (...) Poiché vi sono limiti culturali, spazi culturali di straordinaria perennità." Ed io stesso posso testimoniarvi, sulla base delle esperienze amministrative compiute, ma anche con il conforto degli studi che anche nel Parco del Conero si vengono facendo, e che in parte abbiamo pubblicato, come i confini delle aree dei galli e dei piceni restino muraglie cinesi, rispetto ad aree dove si sono insediati greci di Magna Grecia, e che è possibile definire comportamenti differenti in conseguenza del permanere di quei confini, e di quelle aree culturali e dialettali.
Altri autori ci segnalano altri percorsi. Ricordo il notevole contributo di Alberto Caracciolo, che, quasi dieci anni fa, ci suggerì di leggere "I'ambiente come storia". Ma autori più recenti, come Roberto Gambino, non ci scoraggiano affatto nel seguire una pista che propone di modificare gli effetti di lunga durata con un consapevole e fermo intervento dei moderni mezzi di comunicazione.
Certo, con senso della misura e perfino con un po' di senso dell'umorismo. Ugo Fabietti, Francesco Remotti, Franco La Cleca e molti altri ci dicono che l'identità etnica è una finzione, ma ciò non toglie che è di immaginario che sono fatte le culture, e che esse possono giocare e interagire tra loro anche e perfino con delle messe in scena di identità. A me pare che su questo punto sia opportuno dibattere, e magari dividersi.
E tuttavia è affascinante la tesi di chi afferma che oggi le questioni delle identità locali e delle culture locali non sono questioni morali o politiche, ma attengono alla "politica dell'immaginario" su cui sono costruiti i rapporti tra i gruppi umani. In questo senso l'identità locale sarebbe nient'altro che un "travestimento", una "funzione della relazione" all'interno della quale sarebbe possibile intervenire affinché i formati dei progetti obbiettivo di modernizzazione di una società coincidano con il sistema di relazioni e con l'identità dell'intera area vasta necessaria all'attuazione dei progetti stessi. Non siamo all'ingegneria genetica. Semmai potremmo essere alla bio diversità sociologica, ricomposta e finalizzata.
Del resto, senza farla troppo complicata ed arzigogolata, oggi sono frequentissimi nel marketing regionale turistico fenomeni di invenzione di feste medievali o di corse con le bighe più o meno romane, e via sbracando.
A me pare che queste follie vadano denunciate come tali, e che a maggior ragione sia possibile (e addirittura necessario, come ... "antidoto") proporre nuove identità vaste quanto l'area dei nostri parchi, supportate da studi che giustifichino comuni vocazioni e comuni identità, e da dibattiti che attenuino scientificamente, riscoprendoli ed esplicitandoli, i campanilismi ed i localismi che sono solo retaggi inutili di un passato ricco di storie, di odii e di conflitti. Questa operazione scientifica, rigorosa e pulita, potrebbe rigenerare nel punto più sensibile e delicato il tessuto sociale dei residenti nel parco, a prescindere dalle specifiche identità municipali, risolvendo alla radice i problemi di contrasto tra i municipalismi e le politiche volte a raggiungere i quattro obbiettivi tra loro integrati ed inseparabili che ogni parco di nuova generazione è bene che raggiunga (conservazione; pubblica fruizione; sviluppo economico e sociale delle popolazioni; funzione di rappresentazione e comunicazione socio culturale).
 



Proposte di lavoro
Perciò io vedo anche nel contesto dei nostri appuntamenti annuali del Centro Studi "Valerio Giacomini", e nel lavoro che il Coordinamento Nazionale Parchi ha intenzione di sviluppare dando seguito agli appuntamenti già organizzati con successo a Passo Rolle, Portonovo, Santa Margherita Ligure, Ancona, Torino/La Mandria e Bagno di Romagna, nei quali ci siamo occupati di come i parchi comunicano, e di che cosa comunicano nei loro giornali, nei libri, nei video, o in rete telematica.
Si tratta adesso di ragionare ancora meglio su come i parchi siano in grado di comunicare identità di area vasta, attraverso la loro editoria e la loro ricerca storica, etnografica, archeologica e sociologica, e attraverso l'informazione riferita alle identità locali ed al superamento degli antagonismi, attraverso la convegnistica specializzata e mirata, le conferenze, o attraverso l'immagine che veicolano di se stessi nella comunicazione multimediale dei centri visita, o dei prodotti per fiere mostre ecc, o nei centri di educazione ambientale.
Perché se i parchi affineranno il loro ruolo di elaboratori e di comunicatori di identità moderne, sarà facilitato il loro lavoro amministrativo, in quanto ai formati dei progetti obbiettivo corrisponderà il formato della identità collettiva della popolazione residente, ma questo risultato, ricomponendo le fratture sociali, nel polo culturale e anche nel polo geografico, contribuirebbe in maniera robusta a quel lavoro più generale al quale sono chiamati tutti coloro che lavorano per entrare in Europa costruendo uno sviluppo sociale eco sostenibile. Come dire: il massimo del massimo ...

* Presidente del Parco del Conero