|
Una selvicoltura senza etichette
Ci sono tante ragioni quindi per auspicare una conduzione selvicolturale attenta e responsabile nel parco come altrove, non si vede invece l'opportunità di prefigurare una selvicoltura del parco, specifica e volutamente diversa rispetto al rimanente territorio boscato. Semmai all'interno del parco, mediante una zonizzazione rispondente ai caratteri e alle attitudini dei luoghi, è possibile assegnare ad ogni comparto boscato la più opportuna destinazione, modulando intensità e qualità dell'intervento umano e valutando le ragioni e i criteri della conservazione passiva e dell'utilizzo compatibile. La particolarità del parco consiste sostanzialmente in una pianificazione del territorio che destina usualmente qualche area boscata, nelle riserve integrali, all'evoluzione naturale, al non intervento. Per il resto selvicoltura naturalistica e parco paiono accomunati da simili principi, da simili finalità. L'una e l'altro, mettendo a confronto l'uomo con la natura, si propongono di avvicinarlo ad essa in modo corretto. La gente quasi non concepisce un parco senza bosco, pur se a tutt'oggi, nell'immaginario collettivo, c'è ancora poco spazio per il bosco razionalmente gestito e utilizzato e la foresta evoca immagini di natura selvaggia, di ambienti ancora integri che, nell'area protetta, possono essere personalmente visitati e goduti. Si assiste così alla palese contraddizione che mentre parco e foresta sono parole "fortunate", al centro dell'attenzione e degli interessi dell'opinione pubblica, la selvicoltura resta una scienza negletta, poco conosciuta nei suoi contenuti tecnici, nelle sue finalità, nelle chanches che può offrire e soprattutto poco praticata. Le distruzioni nelle foreste tropicali, le 'piogge acide", gli incendi continuano ad essere le tematiche forestali degne di considerazione. Si sprecano sull'argomento le riviste patinate, belle foto, poca sostanza. Viene da riflettere quanto avrebbero da guadagnare le foreste tutte se accanto alla sensibilizzazione su queste problematiche si cercassero anche e soprattutto le condizioni, compreso un ambiente culturale e idoneo, per dare impulso alle attività selvicolturali, posto che ci si deve pur rendere conto che c'è bisogno anche del legno prodotto dalle foreste naturali e che è necessario elaborare strategie per il loro utilizzo sostenibile. Se campo e agricoltura rappresentano da sempre un binomio indissolubile, a tutt'oggi quanta strada resta da fare per ritenere altrettanto logico sul piano concettuale ed operativo il legame bosco-selvicoltura, pur con tutte le differenze nei riguardi della funzionalità ecosistematica fra superfici forestali e agricole. Trova spiegazione in un simile contesto la perdurante distinzione delle foreste in due categorie: quelle da utilizzare quasi con licenza di degradare o distruggere e quelle da proteggere, lasciandole intatte nei parchi e nelle riserve. L'utilizzo conservativo dei patrimoni forestali con le tecniche selvicolturali rimane un concetto poco familiare, tranne che in alcune realtà di riconosciuta tradizione forestale. Ci si riferisce chiaramente all'indirizzo naturalistico della selvicoltura, in precedenza citato, e non a quello conosciuto come artificiale o "agronomico" in quanto sostanzialmente basato sulle piantagioni di specie a rapido accrescimento con tecniche di coltivazione mutuate dal settore agricolo. La selvicoltura naturalistica fa invece il massimo affidamento sulle forze della natura salvaguardando i caratteri salienti di naturalità del bosco e ripristinandoli laddove fossero andati perduti. Sappiamo che di selvicoltura naturalistica non c'è una definizione precisa, univoca. E un concetto che ognuno cerca e può, entro certi limiti, adattare alla propria sensibilità e esperienza professionale. Non è però il caso di indulgere in disquisizioni sul significato di questo termine, se non altro perché la selvicoltura è una scienza pratica che esige il passaggio dai principi all'azione, da verificare nei suoi effetti sulla foresta. Chi scrive è dell'avviso che la selvicoltura naturalistica sia innanzitutto un modo di porsi nei riguardi del bosco: avvertire l'esigenza di conoscerne i caratteri genuini, il dinamismo, le necessità vitali, saper interpretarlo correttamente per apportarvi interventi mirati, calibrati per momento e luogo, valutando bene gli effetti su tutte le componenti dell'ecosistema. Fare selvicoltura naturalistica comporta infatti di percorrere il bosco palmo a palmo, porsi continui "perché", operare considerando l'intera gamma di valori che la foresta racchiude. In tal modo ogni azione, la piantagione di un albero come il suo taglio, si carica di significati colturali qualificandosi come cura del bosco e mezzo per mantenerlo in condizioni ottimali. Con il prelievo di alberi, opportunamente scelti, il selvicoltore si inserisce attivamente nel processo di selezione naturale, lo orienta, contenendo i lievi e momentanei squilibri conseguenti all'utilizzazione entro i limiti delle capacità di recupero e di riequilibrio dell'ecosistema. Fare selvicoltura significa così dare contenuti pratici al concetto di limite: all'intervento e alle modifiche dell'assetto naturale del bosco, al suo utilizzo e fruizione per garantirne la durevolezza. |
|
La naturalità del bosco
Il selvicoltore naturalista, che elegge la natura a sua maestra, è necessariamente portato a riconoscere i requisiti di naturalità del bosco, ad interrogarsi sul significato di questo termine, a percepire il valore, verificando di continuo i vari aspetti del rapporto di naturalità-coltivazione.
Nel parco poi il concetto di naturalità assume ancor più valore centrale e strategico nella gestione di tutto il territorio tutelato. Gli alberi, le foreste che essi edificano, la fauna selvatica cui danno ricetto, rappresentano le espressioni più genuine di quel mondo naturale che il parco si propone di salvaguardare e come tali vengono percepite dall'opinione pubblica. Occorre peraltro fare chiarezza sul concetto di naturalità riconoscendo che, almeno nel nostro paese non esistono foreste vergini e tutt'al più si può parlare e solamente per i tratti di bosco meglio conservati, di una vegetazione forestale prossimo-naturale. Non per niente nella storia del bosco, nei suoi caratteri, nella sua distribuzione territoriale con le periodiche espansioni e contrazioni, si leggono importanti pagine della storia delle comunità locali.
Obiettivo della selvicoltura naturalistica non potrà essere pertanto la conservazione allo stato originario di un'entità dinamica qual è il bosco, espressione e risultato di una fusione tra forze naturali e umane; il vero fine sarà piuttosto una intelligente gestione e cura della naturalità. E una gestione che nell'ambito della zonizzazione del territorio boscato potrà assumere scopi e contenuti differenziati ma che impegna comunque l'uomo. Pure nelle riserve integrali, dove il bosco viene abbandonato a sé stesso e si vuole che la natura operi sovrana - ovviamente l'abbandono deve essere totale, vietando l'accesso al boscaiolo, come al cacciatore, come al turista - la tutela della naturalità non è fine a sé stessa e non viene meno la realtà dell'uomo, non più inserito attivamente negli equilibri naturali, ma osservatore attento e interessato a tutto ciò che fa la natura quando è lasciata sola.
Costituendo esse le zone d'elezione per lo studio e la ricerca scientifica si potranno ad esempio verificare i processi evolutivi degli ecosistemi, i meccanismi di autoregolazione che riescono ad instaurarsi, ammettendo anche eventuali squilibri derivanti dall'assenza di coltivazione quali il deperimento e il crollo di tratti di soprassuolo, attacchi parassitari, danneggiamenti agli alberi ad opera della selvaggina, etc. Per corrispondere alle finalità di studio e di conservazione passiva di determinate comunità vegetali e animali è opportuno che queste riserve, quando interessano territori montani, non siano confinate negli ambienti generalmente più integri ma poveri d'alta quota, ma si estendano più in basso fino al fondovalle includendo ecosistemi completi nella loro continuità territoriale e unitarietà biologica. Non è necessario a tal fine che esse siano molto ampie, vanno piuttosto scelte con oculatezza, inglobando possibilmente interi sottobacini, significativi per la ricchezza e la varietà degli aspetti vegetazionali, faunistici, ambientali, in modo da costituire un valido testimone di un territorio che anche nel parco potrà continuare a configurarsi come realtà vissuta e controllata dall'uomo e in cui la gestione e il controllo della naturalità si attuino mediante l'uomo attivamente e responsabilmente inserito negli equilibri naturali. Ciò per un insieme di considerazioni:
- perché l'uomo ha bisogno oggi e sempre di quei beni e servizi che solo il bosco coltivato può offrire, compresa la materia prima legno, una materia rinnovabile e disponibile nel rispetto di tutti i valori del bosco, che non va sprecata, quantomeno come principio, nemmeno nel parco;
- in molti casi per le stesse esigenze di ricostituzione e di ripristino di quella funzionalità degli ecosistemi forestali che presuppone anche un recupero di quei requisiti di naturalità che fossero andati smarriti mediante un cammino che natura e uomo possono utilmente fare insieme per evitare che sia troppo lento, incerto e con esiti non sempre prevedibili e auspicabili.
Il selvicoltore naturalista non rimane inerte di fronte a situazioni di degrado, ma avverte l'esigenza di dare il suo contributo per "pilotarle" verso equilibri più stabili. In un paese che forestalmente, a seguito del plurisecolare intervento autropico, viene giustamente considerato "ricco di boschi poveri", non solo in termini di biomassa, ma alterati nella composizione e in vari parametri che presiedono alla funzionalità dei popolamenti arborei, l'inazione, I'affidarsi passivamente alle forze riequilibratrici della natura può sovente configurarsi, anziché come espressione di sensibilità ambientale, come scelta di comodo, oltreché destituita di fondamento scientifico. Quantomeno nel parco ci si aspetta dall'uomo un'assunzione di responsabilità per essere parte attiva e integrante degli ecosistemi non più del tutto naturali ed autosufficienti. Se è vero infatti che le pratiche selvicolturali inadeguate danneggiano il bosco è altrettanto vero che l'intervento corretto può essere artefice della sua ricostruzione.
Un sistema in equilibrio può essere lasciato a sé stesso, avendo in sé il requisito dell'autoregolazione ma nessun bosco è in equilibrio se ha perduto qualche pezzo importante dell'edificio naturale originario, in particolare se mancano i grossi predatori che stanno al vertice delle piramidi biologiche.
Ebbene ci sono boschi italiani, anche nelle aree protette e per quanto in buono stato, in queste condizioni? Sappiamo ben pochi. Siamo invece realisticamente in presenza di un ambiente e di un territorio boscato in cui c'è assai poco da cambiare o da lasciar stare, quasi tutto da regolare operando con sensibilità, professionalità, con rigore scientifico.
Gestire il bosco secondo i principi della selvicoltura naturalistica significa in sostanza gestire tecnicamente una naturalità imperfetta, fonte di vita e di utilità per l'uomo - al contrario della naturalità perfetta che lo esclude - sapendo armonizzare le ragioni della natura con quelle della coltivazione.
Inviamo del resto in un territorio che è espressione di una naturalità parziale anche quando non lo si avverte, tant'è che vengono sovente gratificate dell'attributo di naturalità situazioni ambientali e vegetazionali - dove magari ci si vuole fare il parco che hanno da tempo smarrito l'impronta degli assetti originari. Così i paesaggi montani che si caratterizzano per una piacevole mosaicatura fra superfici boscate, chiuse ed altre erbate, aperte, luminose, sono stati modellati dalle attività umane dal momento che prati e pascoli, se posti entro l'areale del bosco, dal punto di vista ecologico rappresentano degli spazi innaturali, creati e mantenuti dall'uomo coltivatore.
Sovente le stesse superfici boscate di maggior pregio estetico - paesaggistico e/o faunistico sono quelle su cui l'uomo ha lasciato una forte impronta. Quando poi esse sono lontane, come si verifica di frequente, dalla fase climax di maturità- si pensi ai lariceti dell'orizzonte montano - senza un controllo del loro dinamismo evolutivo sono fatalmente destinate a perdere i loro peculiari requisiti. In fondo l'uomo ama, in modo conscio o inconscio e più di quanto si pensi, il frutto della sua opera.
Piace poco o niente un bosco con tanti alberi secchi in piedi o crollati a terra, dove si cammina con difficoltà, come c'è da aspettarsi nei soprassuoli non utilizzati da molti anni, al tempo stesso suscita scarsa suggestione una foresta in cui il corretto equilibrio fra specie e specie, fra animali e vegetali, fa sì che la grossa fauna sia poco rappresentata e difficilmente avvicinabile. Eppure la gente visita il parco che vuole "assolutamente naturale" per vedere tanti animali e magari toccarli. Con questo non si vuole invitare il tecnico forestale che opera nel parco ad assecondare acriticamente i desideri dei visitatori e di un'opinione pubblica poco informata - il gusto si forma, si orienta, si modifica con un'informazione naturalistica competente e partecipata - si vuole piuttosto sottolineare la realtà di un ambiente naturale o umano nel quale si opera. Tipica naturalità imperfetta è quella del bosco coltivato pur se la selvicoltura naturalistica si propone di conservare e conferire alla foresta la massima naturalità compatibile con le esigenze della coltivazione mantenendo gli scostamenti dagli assetti naturali entro limiti che consentono alle forze della natura di riprendere il sopravvento e conservare un ruolo guida nella funzionalità ecosistemica. I modelli colturali del bosco coltivato, simili, ma inevitabilmente non identici ai prototipi naturali, vanno infatti individuati e gestiti avendo come continuo riferimento i caratteri puntuali del bosco naturale, essendo dimostrato che proprio gli assetti boscati più prossimi alla naturalità sono quelli dotati di maggiore efficacia ecologica, tutelare, produttiva. La naturalità rappresenta un valore primario, intrinseco del bosco, da salvaguardare; e non dispiaccia, anche al di fuori delle aree a protezione integrale incluse nei parchi dove ambienti a naturalità incontrollata rientrano in un preciso disegno di pianificazione - lasciare qualche zona selvaggia, qualche "tasca" di bosco "isola" faunistica all'evoluzione naturale, al riparo da qualsiasi interferenza esterna. Ciò può contribuire ad elevare il complessivo tasso di naturalità di territori ampi con indubbi benefici di vario ordine. Nella ricerca di quegli equilibri controllati su cui puntare, anche perché economicamente convenienti, è opportuno che la natura conservi il più possibile integre le sue forze, ben sapendo che in ogni caso essa non si vince se non le si obbedisce. Peraltro il processo di marginalizzazione economica delle foreste di montagna in atto da tempo, comporta l'abbandono di sempre più vaste aree boscate a macchiatico passivo. Ad esempio il 40% dei boschi del Parco Adamello-Brenta e il 20% circa di quelli del Trentino, risultano di fatto abbandonati per intervenuta antieconomicità delle utilizzazioni. Qui l'intervento selvicolturale è certamente lieve e finalizzato ad esigenze di tutela e non al prelievo delle risorse naturali.
I cardini della selvicoltura naturalistica restano essenzialmente:
- la perpetuazione del bosco per via naturale con le specie, i ritmi, le modalità proprie di ogni ambiente e di ogni formazione boschiva. Il rimboschimento, quando non è diretto a creare nuovi boschi, è da ritenersi una sconfitta per il selvicoltore naturalista e un bosco da impianto è quasi sempre un bosco con dei problemi.
- La massima valorizzazione delle specie autoctone tenendo presente che ogni pianta che faccia parte del corredo delle cenosi originarie è una ricchezza per l'ecosistema foresta. Il bosco rimane il vero custode e scrigno della biodiversità e la conservazione delle risorse genetiche rappresenta obiettivo irrinunciabile della gestione forestale. Il trattamento del bosco si proporrà quindi la rinaturalizzazione, laddove necessaria, della composizione floristica dei soprassuoli, favorendo le essenze carenti e reintroducendo quelle che fossero andate perdute; soprattutto a questo servono i vivai forestali, almeno dove il bosco c'è.
- La conservazione e il recupero della complessità strutturale dei popolamenti arborei e di quei livelli di biomassa, in linea con le potenzialità stazionali, che presiedono alla funzionalità dell'ecosistema foresta. - L'esperienza dimostra che il requisito della naturalità, che si esprime mediante la varietà e la complessità della foresta, si coniuga con la sua stabilità ed efficienza complessiva.
Nel perseguimento di siffatti obiettivi il selvicoltore opererà con mano leggera anche laddove si rendessero opportune modifiche dei soprassuoli, inserendosi negli equilibri naturali senza sollecitarli più di tanto, lasciando alla natura il ruolo del protagonista. I migliori risultati in bosco si ottengono allorché si opera con coerenza di indirizzo in direzione delle mete prefissate, però senza fretta, posto che i tempi della natura, specie in montagna, sono comunque lunghi, anche quando essa è saggiamente coadiuvata nei suoi disegni. Orientando il dinamismo evolutivo del bosco con interventi mirati e contenuti si attua una gestione selvicolturale poco costosa, che fa molto affidamento sulla professionalità degli operatori. La selvicoltura naturalista, che opera nel solco tracciato dalla natura secondo il principio della massima naturalità compatibile, non è quindi dettata da amore al bosco per il bosco, non è nemmeno un vincolo imposto dalle normative forestali o dall'Ente parco, ma costituisce una responsabile scelta tecnica, tanto più necessaria quanto più difficili si fanno le condizioni di ambiente. E un indirizzo irrinunciabile per i boschi di montagna, chiamati a svolgere una molteplicità di funzioni e relegati quasi sempre sui terreni poveri, marginali, che proprio grazie al bosco rimangono stabili e si arricchiscono di valori ambientali. Assicurando la perpetuità della foresta tramite la continuità della copertura arborea, si attua una gestione selvicolturale intensiva eppur "silenziosa", che si awerte poco e mantiene la costanza del paesaggio, al punto che le zone in cui si opera con tali criteri danno a molti l'impressione del parco, intendendo con tale termine il luogo in cui non si tagliano alberi ma immaginando che in realtà da quei versanti boscati magari si prelevano ogni anno decine di migliaia di alberi. Una conferma in più che un bosco ben gestito, pur se utilizzato, è anche un bosco protetto, che si avvale di una protezione attiva estensibile al cento per cento del territorio boscato. Ciò che conta è che si tratti, come prassi operativa, di una selvicoltura vera, a piena dimensione ecosistemica, senza altre etichette, attenta alle esigenze della vegetazione come della fauna e con un ori_zonte aperto a tutto l'ambiente naturale che il bosco si rapporta spazialmente e funzionalmente nel paesaggio montano. Sono innegabili i valori scenici, faunistici, storici delle superfici aperte, frequentemente intagliate nel tessuto compatto della foresta e gli stessi valori del bosco si colgono appieno nel contesto di tutto il territorio circostante. Oggigiorno poi sono proprio questi spazi a trovarsi in difficoltà da tutelare in quanto progressivamente fagocitati dalla espansione spontanea della vegetazione arborea. Non si sfalcia il prato, si abbandona il campo e il bosco avanza e si amplia. Il fenomeno è sotto gli occhi di tutti e interessa la generalità del territorio montano. C'è quindi un'unitarietà ambientale che presuppone forme di tutela e di gestione altrettanto unitarie avendo come riferimento l'intero sistema montagna. |
|
Le opportunità del parco
In presenza di una gestione oculata del territorio boscato quale si è cercato di tratteggiare, si potrebbe dire che l'istituto del Parco, almeno nei riguardi forestali, è superfluo visto che di fatto "il parco c'è già" e qualora si volessero istituire nuove aree protette, queste non potranno ragionevolmente che confermare i criteri di gestione in atto.
Non si vedono nemmeno motivi per raccomandare quando si opera in regime di parco delle attenzioni particolari per determinati aspetti del bosco - naturalistici, estetici, faunistici, etc. - posto che una corretta gestione selvicolturale per sua natura deve prestare ovunque il massimo delle attenzioni a tutto ciò che il bosco significa e racchiude. Si ritiene peraltro che là dove il parco esiste o venisse istituito, esso rappresenti delle opportunità e possa svolgere un ruolo positivo nei confronti del bosco e della selvicoltura. Pure il tecnico forestale che esercita la sua attività all'interno dell'area protetta è maggiormente osservato e viene investito di responsabilità e di compiti in qualche misura connessi con la sua collocazione lavorativa Più che altrove egli è soggetto alle istanze più disparate da parte di amministratori, movimenti di opinione, gente del posto e da una massa eterogenea di visitatori. Il parco è luogo e occasione privilegiata d'incontro fra l'uomo della montagna e quello della città; due culture, due sensibilità diverse, due modi di porsi nei riguardi del bosco e della natura, I'uno abituato a fruire delle risorse della propria terra, I'altro con un rapporto con l'ambiente a carattere occasionale e che resta prevalentemente a livello emozionale. Con una professionalità ricca sensibile, aperta al dialogo, il selvicoltore non si limiterà a registrare le varie aspettative, a volte fra loro conflittuali, saprà analizzarle criticamente, regolarle, orientarle. Nel suo operato i valori oggettivi del bosco, biologici e perciò eterni, devono avere il primo posto rispetto a quelli soggettivi, mutevoli che possono emergere con forza in un determinato contesto sociale e politico-amministrativo. La flessibilità dei modelli colturali ha delle soglie biologiche che non si possono oltrepassare. Con un agire pragmatico, ma improntato alla positività, sarà portato a privilegiare le scelte e le soluzioni tecniche, possibilmente partecipate, rispetto a quelle vincolistiche. Riuscirà nei suoi intenti se saprà porsi come riferimento, se saprà comunicare, spiegare, convincere. Con il suo apporto di idee, di proposte, con la sua attività tecnica in foresta potrà dare un importante contributo per far sì che il Parco possa utilmente qualificarsi:
- come modello di gestione ecologico-naturalistica eppur economicamente valida dei patrimoni forestali, il fiore all'occhiello di un intero territorio boscato razionalmente coltivato;
- come strumento per valorizzare il bosco come risorsa culturale programmando studi e ricerche sui principali fenomeni forestali, faunistici, ambientali delle zone di pertinenza - utile potrà essere a tal fine I'individna7ione di riserve speciali forestali dove si riscontrano aspetti forestali di particolare rilievo diffondendo sensibilità e conoscenze da poter utilmente inglobare nelle tecniche di gestione. Il parco può sempre costituire una sede privilegiata per un incontro e un confronto sul campo fra varie professionalità operanti sull'ambiente, promuovendo quella mentalità al lavoro interdisciplinare che non sempre è avvertita, creando sinergie preziose per la migliore conoscenza degli ecosistemi naturali. Anche una valida zonizzazione non può che derivare da un lavoro d'equipe, da un concorso di sensibilità. Problematiche di valenza generale possono trovare nel parco naturale momenti di analisi e di elaborazione di proposte operative. Si pensi ad esempio al turismo, un fenomeno col quale le foreste di montagna e non solo quelle dovranno continuamente confrontarsi e nei cui riguardi la parola parco nasconde delle insidie perché richiama gente in quantità al punto che qualche problema non può non crearlo. E storia di tutti i giorni la diffidenza e sovente la contrarietà con cui le popolazioni del luogo guardano al parco, in quanto esso come idea viene da fuori, dalla cultura urbana e perché, o a ragione o a torto il parco viene identificato per i vincoli che pone, più che per i valori che racchiude, perché mette la natura al primo posto, dimentica l'uomo. Ci sono indubbiamente delle barriere psicologiche da superare ma un parco esiste ed ha un senso compiuto quando racchiude popolazioni consenzienti che lo vivono e lo qualificano umanamente. La selvicoltura entra in tutti questi discorsi se non altro perché il bosco, soprattutto in montagna, non può essere disgiunto dai suoi rapporti con l'ambiente e con l'uomo. Se non c'è ragione, per quanto si è detto, di prevedere una selvicoltura ad hoc per il parco, esso potrà invece costituire un'opportunità perché questa disciplina possa manifestarsi al grande pubblico superando la ristretta cerchia degli addetti ai lavori e certamente rientra fra i compiti didattici ed educativi del parco una corretta divulgazione delle tematiche del bosco e dell'ambiente, arricchendo sul piano scientifico quella sensibilità ambientale che sempre più si awerte presso l'opinione pubblica.
Il bosco e la selvicoltura, al pari della fauna e della caccia non hanno solo valenze ambientali, economiche, faunistiche, suscitano emozioni, trasmettono messaggi e questi messaggi devono essere intrisi di contenuti educativi. Chi entra nel parco è psicologicamente preparato ad osservare, ad informarsi, a domandare le ragioni di determinati interventi. Il selvicoltore ha qui più che altrove la possibilità e il compito di orientare correttamente i percorsi individuali di apprendimento e di educazione naturalistica. Quella professionalità e quella sensibilità che presiedono ad ogni azione in foresta si completano quando si riesce anche a spiegare le motivazioni del proprio operato. Non può essere che arricchente per una scolaresca in visita al parco osservare sia il bosco lasciato all'evoluzione naturale, sia quello coltivato, i due volti della protezione, I'uno che esclude l'uomo, I'altro che lo impegna direttamente e consente quell'utilizzo sostenibile delle risorse naturali che per la selvicoltura naturalistica non è solo un proclama ma una realtà consolidata. Si potranno in tal modo spiegare le motivazioni tecniche ed ecologiche del taglio del bosco verso cui rimane da parte di larghi strati dell'opinione pubblica una resistenza psicologica, quando non aperta avversione. Parimenti non può essere che frutto di una acquisizione culturale la stessa percezione del "bosco bello", come quello apparentemente in disordine, con animali non numerosi in equilibrio con l'ambiente e anche questi selvaggi e poco osservabili, un bosco che con la sua varietà e ricchezza biologica è anche ecologicamente valido ed espressione della fantasia della natura. In particolare tutto ciò che riguarda la fauna con i carichi di suggestione che essa suscita mediante una informazione competente potrà essere ricondotto alla sfera scientifica sottraendolo in qualche misura a quella dell'emotività.
Quanti equivoci riescono a dissiparsi quando il confronto di idee avviene in modo costruttivo, senza preconcetti, possibilmente all'interno del bosco, facendo parlare la natura. Fra i diritti del cittadino, almeno quando visita il parco con l'animo disposto ad apprendere, c'è anche quello ad un'informazione semplice, comprensibile, corretta sul bosco e sull'ambiente. Il selvicoltore, avvezzo a parlare col bosco, nei cui confronti si pone nella condizione dell'allievo che ha sempre qualcosa di nuovo da apprendere, è chiamato anche a parlare all'uomo, in ogni occasione, a confrontarsi con altre professionalità e con l'opinione pubblica sapendo di avere sempre qualcosa di interessante da dire sul bosco e sulla sua gestione, facendolo conoscere ed apprezzare per le sue molteplici utilità, per la sua maestosità, per le cose grandi che racchiude, ma anche per quelle 'piccole", che passano quasi sempre inosservate ma che pur concorrono a farne una manifestazione irripetibile della natura. Chissà che riuscendo a parlare nel modo giusto all'uomo, oltre che al bosco, non si riesca ad innescare quel "circolo virtuoso" per cui anche la selvicoltura diventa una scienza conosciuta considerata e, ciò che più conta, concretamente messa in pratica. A trarne vantaggio sarebbe il bosco e con esso la natura e l'uomo, nel parco o ovunque.
* Dottore in Scienze forestali |