Federparchi
Federazione Italiana Parchi e Riserve Naturali


PARCHI
Rivista del Coordinamento Nazionale dei Parchi e delle Riserve Naturali
NUMERO 23 - FEBBRAIO 1998


Parchi verso il Duemila
Gianni Boscolo *

Nel corso del 1997 la rivista regionale "Piemonte Parchi" ha chiesto ad esperti la loro opinione su come vedevano i parchi all'ormai rituale riferimento temporale del Duemila. Ne è emersa una visione "caleidoscopica" delle aree protette che può essere utile ripercorrere proprio per i particolari punti di vista che sono stati espressi.
Roberto Gambino è architetto, pianificatore, noto per aver partecipato alla stesura di numerosi piani di parchi regionali ed è anche responsabile del Ced-Ppn (Centro Europeo di Documentazione sulla pianificazione dei Parchi Naturali) del Politecnico di Torino.
Sin dall'inizio Gambino evidenzia un paradosso dei parchi: proprio negli anni in cui hanno conquistato una presenza stabile, diffusa e riconosciuta nel mondo contemporaneo, ci si interroga sul loro futuro; anzi se esiste un futuro per i parchi nel mondo del 2000.
Eppure non si tratta di una domanda retorica: accanto ad un crescente consenso, crescono anche le critiche. E si tratta di un ventaglio ampio e di segno diverso. Si va, ha scritto Gambino, dalle tradizionali contestazioni anti-protezioniste (che ha conosciuto recentemente in U.S.A. un combattivo risveglio nei momenti antiecologisti) al riconoscimento della crescente insufficienza delle politiche dei parchi a fronte della diffusione pervasiva dei rischi ambientali, senza ignorare le critiche "ambientaliste" che, soprattutto in anni recenti, hanno investito le stesse politiche dei parchi in quanto potenzialmente perturbatrici e generatrici di sovraccarichi ambientali.
In sintesi Gambino richiama i grandi dubbi, o temi di dibattito, che percorrono la dialettica della salvaguardia.
E giusto continuare nelle politiche dei parchi, o non sarà meglio puntare nel futuro su politiche di valorizzazione delle risorse naturali tali da produrre effetti più equamente distribuiti tra i diversi gruppi sociali, in particolare maggiori benefici per le comunità locali? E opportuno investire nei parchi, o non converrà utilizzare le scarse risorse disponibili per attuare azioni di tutela più ampiamente diffuse sull'intero territorio (secondo la vecchia formula, "meno parchi, più protezione")?
Premessa ad una risposta meditata e seria vi sono una serie di connotazioni che occorre tenere presenti.
Innanzitutto il concetto di parco naturale copre oggi una varietà estremamente eterogenea di aree soggette a speciale protezione. In secondo luogo, gran parte dei parchi naturali è di origine recente. Ciò vale soprattutto per l'Europa. Nell'insieme di 33 paesi europei oggetto di recenti indagini sistematiche il numero dei parchi è passato da circa 60 negli anni Cinquanta ad oltre 600 nel 1995, mentre la loro superficie complessiva passava da poco più di 20.000 Kmq. a quasi 250.000 Kmq. (pari a circa il 5% della superficie territoriale complessiva dei 33 paesi). La crescita di 10 volte per il numero e di 12 volte per la superficie, è stata caratterizzata da un andamento quasi esponenziale, con un'impennata nell'ultimo decennio, nel corso del quale è stato istituito ben il 40% dei parchi europei; un impennata a cui hanno contribuito i paesi meridionali. Ed infine, alla crescita dei parchi ha corrisposto un profondo cambiamento nelle concezioni ispiratrici e nelle finalità ad essi assegnate. Cambiamenti che sono stati accompagnati dalla "complessificazione" dei sistemi di decisione, di gestione e di controllo.
Fatte queste premesse Gambino ritiene che la stessa ragion d'essere delle politiche dei parchi nei prossimi anni 2000, dipendano dalla loro capacità di diventare parte organica di più ampie politiche territoriali di riqualificazione ambientale e di sviluppo sostenibile. In altri termini dalla loro capacità di superare quella "separatezza" che le ha in passato pesantemente caratterizzate, soprattutto per quel che concerne:
· il campo d'applicazione (è necessario "uscire dai confini" delle aree protette);
· gli interessi presi in considerazione (è più necessario che mai quell'approccio integrato all'ecologia umana che già Giacomini predicava);
· le modalità di gestione e di risoluzione dei conflitti (è necessario passare dalla logica del vincolo a quella della cooperazione). E soltanto in una prospettiva di apertura e di radicamento territoriale che i parchi potranno legittimarsi e continuare a raccogliere il consenso sociale necessario.
Occorre tuttavia tener presente, ammonisce, che in un approccio integrato la sfida si allarga, andando al di là del significato strettamente ecologico. E tempo pertanto di pensare anche ad altre reti che già innervano o sono destinate ad innervare il territorio, come le reti di fruizione sociale delle risorse culturali e naturali largamente appoggiate in Europa alle trame storiche del territorio.
Ampliare la sfida, allargare i temi, essere consapevoli della valenza che travalica l'ambiente e la natura, dei parchi. Temi affascinanti, nuovi ed impegnativi che Giorgio Osti ha affrontato con la consueta originalità di approccio. Osti è un giovane sociologo che da tempo studia i fenomeni culturali e sociali della ruralità e del turismo e delle aree protette su cui ha già scritto alcuni testi.
Anche per Osti, la complessità è lo scenario di sfondo. Complessità crescente della società che si riverbera sui parchi naturali.
Per i parchi del futuro si profilano almeno tre sfide: una largamente presente nel dibattito, le altre due più oscure ma altrettanto importanti. La prima sfida potrebbe essere chiamata della razionalità. I parchi cioè dovranno essere strumenti efficienti per raggiungere determinati obiettivi. I parchi sono strumenti di protezione della natura e, contemporaneamente sono strumenti di valorizzazione economica delle risorse naturali. E forse l'argomento più spesso richiamato ed abusato. Tuttavia, purché si mantenga una certa cautela nelle previsioni non è privo di fondamento.
Questo tema, ricorda Osti, è ampiamente presente, anche se questo, ovviamente, non significa che sia risolto. Ma il contributo più stimolante al riguardo viene da un'economista, come vedremo più avanti. Nel prossimo futuro, sintetizzo sempre le affermazioni di Osti, vi sono altre due sfide che il parco deve raccogliere. La prima potrebbe essere definita come la "socialità" e la seconda "investimento simbolico". Su quest'ultima vi sono già delle riflessioni nella letteratura. Il parco come luogo sacro, tempio della natura incontaminata. Esso richiama il mito del paradiso terrestre, luogo in cui l'uomo viveva in armonia con i propri simili, con Dio e con la natura. Su questa "simbolizzazione" della natura i parchi possono e debbono assumere una funzione guida. Per altro, essa non richiede grandi risorse materiali, si tratta di coltivare una sensibilità culturale già diffusa fra i cittadini.
La terza dimensione è la meno nota, la frontiera più oscura e tuttavia la più comune; i parchi luoghi della socialità.
"E una espressione frutto di una intuizione ancora acerba, avverte correttamente Osti, che ha bisogno di essere specificata e verificata in esempi plausibili. Tuttavia si possono immaginare due livelli: il primo è il parco luogo della festa, dell'incontro gioioso fra persone non vincolate da ragioni strumentali. Qualcuno ha definito i parchi una "bolla", luogo in cui l'uomo si isola temporaneamente da preoccupazioni professionali e materiali e vive un momento di libertà con i propri simili. E una funzione dell'ambiente naturale vecchia come il mondo. Il parco è la destinazione del viaggio, della gita di gruppo, del vuoto (vacanza) da riempire".
Un secondo livello della socialità riguarda il parco nel suo insieme, la sua conformazione. Su questo terreno il sociologo, attento alle caratteristiche delle istituzioni non nasconde che "l'impressione che i parchi siano strutture vecchie è però forte". E tuttavia si impone la necessità di coltivare un'utopia, quella di aree protette affidate a gruppi di cittadini, ad associazioni, ai residenti nelle borgate di confine. Una sfida che richiede una capacità di mutamento, di visione autocritica, di rinnovamento notevoli. E giustamente Osti fa osservare che per i parchi "il peggio sarebbe pensare che debbano cambiare solo gli altri".
Si accennava alle problematiche economiche delle aree protette. Su questi temi Piemonte Parchi ha chiesto l'opinione di Anna Natali, economista della bolognese "Eco & eco", società che da tempo si occupa di sviluppo economico in aree parco, zone marginali, o come dicono gli addetti ai lavori, in economia diffusa. Anna Natali ha ripreso con particolare efficacia di sintesi alcuni temi che ha già trattato su questa rivista.
In primo luogo occorre essere consapevoli che il futuro ruolo economico dei parchi non sarà omogeneo, ma anzi molto differenziato, e per due ragioni. Ragioni che Anna Natali spiega con due esempi lampanti. E del tutto evidente, scrive, che i parchi dell'Emilia, e chi progetta lo sviluppo di questi parchi, hanno a disposizione una geografia di condizioni sociali ed economiche diversa da quella dei parchi della Calabria. Il sentiero da aprire per creare nuove attività all'interno dei parchi non è lo stesso, le risorse sociali, la cultura, i costumi, le competenze diffuse, i sistemi di relazioni territoriali, il sistema politico, l'esperienza sono diversi.
"L'istituzione parco non è nata come sappiamo per funzionare nel campo sociale ed economico, per orientare le forze del mercato o per decidere l'equilibrio più opportuno tra mercato e stato, tra intervento pubblico e iniziativa privata. E nata soprattutto per fare da argine alle forze del mercato e per mettere la natura in salvo, difenderla e proteggerla anche contro le ragioni economiche. E solo di recente che l'istituzione è stata chiamata, con intensità sempre crescente, a essere più sensibile, nel modellare il proprio sistema di regole e i propri criteri di azione, anche alla società e all'economia locale e a svolgere un ruolo propulsivo e di stimolo ai fini di sviluppo. Su questo terreno nuovo, sta vivendo ancora il tempo della sperimentazione e della ricerca di modelli. In altri paesi europei, questa ricerca appare più avanzata, più pronta e più vivace".
In Italia la situazione è, per certi versi arretrata, per altri rischia di essere presa alla sprovvista. Infatti i lavori socialmente utili nel Parco del Pollino, nel parco del Vesuvio, e in altre aree del sud, hanno letteralmente travolto i parchi, mettendoli in condizione di gestire un intervento di politica del lavoro a impronta sostanzialmente assistenziale come se fosse la loro azione a favore dello sviluppo.
E lucidamente l'economista mette in guardia dai pericoli. E forte il rischio, scrive sempre la Natali, che sotto la pressione della domanda di occupazione i grandi parchi del Sud, che non hanno ancora avuto il tempo di maturare una propria politica di sviluppo, e ancora non hanno propri programmi in questo campo, si trovino di fatto a spendere tutte le loro energie nel controllo di situazioni esplosive e senza futuro, e a non dedicare invece alcuna energia all'intervento di sviluppo vero. D'altra parte (in chiave questa volta positiva) i patti territoriali, "pensati per sollecitare la convergenza degli sforzi pubblici e privati a favore dello sviluppo manifatturiero o turistico di aree definite, si stanno imponendo come una nuova filosofia di intervento, e si può prevedere che non tarderanno a interessare i parchi".
Fin qui il contributo del pianificatore, del sociologo e dell'economista. Ne ho, pur nella necessaria sintesi, fornito un riassunto ampio perché, a mio parere, costituiscono i terreni più nuovi ed innovativi su cui il dibattito culturale dovrebbe incentrarsi. Si tratta di percorsi non semplici ma inevitabili se si vuole, come auspicava nel numero scorso Ippolito Ostellino, direttore del parco del Po torinese, costruire un'immagine culturale forte ed originale dei parchi della vecchia Europa.
Ma i contributi ospitati da Piemonte Parchi non perdevano di vista altri aspetti, per così dire, più consueti che pur schematicamente vorrei richiamare.
Giovanni Borgarello e Boris Zobel del Laboratorio didattico di Pra Catinat hanno sviluppato in modo articolato il percorso auspicato ed auspicabile perché la funzione di "laboratorio" possa diventare realtà per le aree protette. Nel loro contributo si sono posti la domanda di quali possano essere le condizioni sufficienti per trasformare i parchi in laboratori funzionali e necessari anche ad altri enti ed istituzioni: ai Comuni e alle Comunità Montane che ne condividono tutto o parte del territorio, ma anche a tutti i soggetti pubblici e privati che "abitano" questo territorio.
La risposta è un articolato progetto di iniziative e modifiche dei e sui parchi per rendere operativa, reale e concreta la cosiddetta funzione "laboratorio" poiché, concludono "servono sempre più urgentemente sedi e strumenti per riflettere, per confrontare e per analizzare tentativi ed esperienze; ma serve anche qualcuno con
la volontà e la convinzione di cominciare perché tutto ciò non rimanga una delle tante idee sulla carta".

Volontà e convinzione di qualcuno, ossia le risorse umane, la seconda, dopo la natura, vera ricchezza dei parchi. Di questo hanno scritto Domenico Rosselli e Luca Giunti, entrambi guardiaparco piemontesi (il primo nel parco della Val Troncea, il secondo in quello dell'Orsiera). Esaminata l'evolversi della loro figura professionale in rapporto ai mutamenti intercorsi nella quotidiana attività dei parchi in oltre vent'anni di esperienza piemontese ecco come concludono l'articolo citato: "Dall 'originaria figura della guardia sempre in lotta con i bracconieri, che nei momenti liberi si dedicava ad attività manuali in ambito forestale, si è forse ora passati all 'estremo opposto, con l 'aspettativa che questa figura professionale possa rispondere in modo adeguato a tutte le complesse esigenze che il controllo e la gestione del territorio comporta, e con il rischio concreto che la molteplicità e dispersione delle funzioni possa in alcune circostanze risultare eccessiva. Da un lato le nuove funzioni che in questi anni i parchi naturali sono stati chiamati ad assolvere hanno rappresentato un'importante occasione di crescita per il nostro lavoro, dall'altro avvertiamo il concreto rischio che la perdita di una precisa identità professionale possa, come già si è verificato in alcuni casi in passato, essere utilizzata da chi ha interesse ad allentare ed indebolire la primaria ed irrinunciabile funzione di controllo del territorio e del rispetto delle norme legislative preposte alla sua tutela".
Ed infine il contributo del direttore di Parchi, Renzo Moschini. Un intervento il suo che richiama, pur nella doverosa iniziativa del singolo parco e nella indispensabile attività di promozione culturale e scambio di esperienze demandata al coordinamento nazionale, il ruolo, inteso anche come "dovere" del Ministero dell'Ambiente. Moschini denuncia infatti una carenza progettuale, una mancanza di "visione d'insieme" indispensabile nella realtà e nella storia delle aree protette del nostro paese. "Ora, - scrive appunto il direttore della rivista - una delle ragioni principali (anche se non unica) di questa carenza progettuale credo vada ricercata nella mancata predisposizione della "Carta della natura" prevista dalla Legge quadro 394. Con questa norma - è bene ricordarlo - per la prima volta si chiedeva alle istituzioni di governo di compiere un monitoraggio di carattere non settoriale sullo stato della natura del nostro paese, da porre a base di una politica di programmazione delle aree protette".
Infatti soltanto un quadro conoscitivo aggiornato e intersettoriale dello stato della natura permetterebbe infatti prima ancora che ai singoli parchi al sistema nazionale delle aree protette, di agire in maniera coordinata e non secondo logiche frammentate. Perché nonostante che i parchi siano chiamati ad impegnarsi, e si impegnino, su terreni vari, "caleidoscopici" appunto, tutti importanti a costruire quell'immagine ed identità di cui sono carenti, resta la finalità prima ed insostituibile: la salvaguardia della natura. E giustamente Moschini esorta ad una ricerca, anche "spregiudicata" di una forte identità, che deve però, essere originale. Perché conclude, "più un parco si identificherà con una comunità montana o una azienda turistica meno riuscirà ad assolvere alla sua insostituibile e peculiare funzione sul piano generale".

* Redazione Parchi