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La coltura e la cultura del bosco.
Frammenti di storia forestale nell'area veneta.
Franco Viola * (prima parte)
Da circa quattromila anni, superata da quindicimila l'ultima acme glaciale,
il clima sulle nostre regioni si è assestato, con minime variazioni,
intomo ai valori di pioggia e di temperatura che anche oggi noi conosciamo.
In pianura queste condizioni sono favorevoli allo sviluppo di foreste decidue,
composte soprattutto da querce, tra le quali un tempo le roveri e la roverella
si collocavano sui suoli più asciutti, il leccio nei siti più
caldi e a solatio delle aree collinari, mentre le farnie primeggiavano incontrastate
sui terreni più freschi, in prossimità dei fiumi, dei laghi
e degli acquitrini. A tutte queste querce allora si accompagnava una moltitudine
di altri alberi, che oggi definiremmo di minore interesse selvicolturale,
ma che nell'ecologia dei sistemi forestali sono fondamentali ai fini del
mantenimento dei più stabili equilibri.
Nelle nostre regioni padane, tra questi boschi, qua e là interrotti
da estesi sistemi d'acqua e da praterie igrofile, circa duemilacinquecento-tremila
anni prima dell'era cristiana si insediò l'uomo, sviluppando forme
stabili d'agricoltura.
A partire da allora, quelle estese foreste, di cui scrissero già
gli storici di Roma, vennero progressivamente tagliate e dissodate per ottenere
soprattutto campi e pascoli. Si ritiene che al culmine dell'epoca imperiale,
a seguito delle ripetute centuriazioni e della mirabile e intensiva organizzazione
agricola sviluppata dai Romani, di esse restassero solo residui frammenti,
perlopiù confinati nelle aree marginali, in genere quelle a fondo
umido o acquitrinoso. Pur se con minor foga, anche sull'arco alpino i boschi
vennero aggrediti per cavarne il legno e per ottenere spazio per nuovi insediamenti
agricoli. Si dice, ad esempio, che il larice delle Alpi Retiche godesse
fama di fornire legno ottimo e resistente al fuoco, tanto che Tiberio lo
volle impiegato nella ricostruzione di alcuni ponti più volte andati
in fiamme. Il legno era dunque risorsa della quale si faceva mercato, e
molti mestieri fiorirono intorno all'utilizzazione dei boschi. In quei tempi,
ad esempio, si organizzarono molte corporazioni di dendrofori; prime tra
tutte quelle cadorine, che pare fossero attive già alcuni secoli
prima di Cristo (G. Sebesta, 1988).
Poi, col collasso dell'ordinamento economico e giuridico-territoriale seguito
al crollo dell'impero, le campagne vennero in larga parte abbandonate, dando
il via ad un generale rinselvatichimento del territorio. Talvolta i boschi
ricrebbero anche dentro alle mura di città spopolate. Paolo Diacono,
nella Historia Longobardorum, così ricordò la peste del VII
secolo, e i suoi effetti sul paesaggio urbano: ".. tantaque fuit multitudo
morientium, ut etiam parentes cum filiis atque fratres cum soribus, bini
per feretra positi, aput urbem Romam ad sepulcra ducerentur. Pari etiam
modo haec pestilentia Ticinum quoque depopulata est, ita ut, cunctis civibus
per iuga montium sea per diversa loca fugientibus, in foro et per plateas
civitatis herbae et frutecta nascerentur.." .
Ma col volgere al nuovo millennio tornò a crescere il bisogno
di campi e un po' ovunque si cominciò a disboscare. Tracce di quei
dissodamenti restano ancora ai giorni nostri, soprattutto nei toponimi.
"Silva runcare"
Ronchi, Roncaglia, Roncajette, ad esempio, sono luoghi che oggi fanno
parte del tessuto urbano di Padova; il nome ne tradisce però l'origine
forestale. Per gli agronomi di Roma runcatio era quella pulizia dalle erbe
che si faceva nei campi o negli orti prima delle semine o dei trapianti;
talvolta la si ripeteva più volte nell'anno per contrastare la vitalità
di molte specie infestanti. Più tardi però runcare significò
recuperare all'agricoltura i campi rinselvatichiti, impresa che si attuava
soprattutto con il ronco (runco), o falcash-o, uno strumento simile all'odierna
roncola e particolarmente adatto a recidere rovi e cespugli, ma anche ad
abbattere alberi di piccole dimensioni.
Durante l'alto medioevo in tutte le pianure intomo al Po fervé
dunque il runcare, cioè il dissodamento della foresta necessario
a creare nuove campagne, o novalia. In una sentenza d'un giudice veronese
del 1200, con la quale si attribuì un campo nuovo a gente di Cerea,
si descriveva la runcatio come "trahere nemus extra cum cochis et radicibus",
cioè cavare dalla terra ogni resto del bosco (Baruzzi e Montanari,
1988).
Si stima che in quello stesso secolo, in Emilia, come forse in tutta la
pianura veneto-friulana, circa quattro quinti del territorio rurale fossero
occupati dal bosco e da paludi; in Piemonte, invece, un tempo meno paludoso
delle regioni orientali, la foresta occupava da 1/2 a 2/3 delle pianure.
Con tale abbondanza d' alberi non vi era dunque problema ad attribuire,
a titolo di proprietà collettiva, alla gente originaria dei luoghi
riunita in comunità, ampi tratti di foresta affinché liberamente
ne traesse ogni sorta di utilità (F. Panero, 1988).
Delle selve si fece così scempio.
Nemmeno due secoli dopo si dovette dunque correre ai ripari. Con leggi e
sentenze si tentò soprattutto di limitare i diritti d'uso un tempo
universalmente concessi ai rustici, soprattutto bandendo, cioè vincolando,
i migliori boschi comuni (comunalia). Per soddisfare le necessità
domestiche (riscaldamento e cucina), per i lavori agricoli (paleria per
le viti) e per le costruzioni minute (attrezzi e carri) si fissarono norme
sull'uso dei cedui, per i quali si studiarono regole appropriate di coltivazione.
Tale era la paura di restare senza legname che in molti statuti e sentenze
veniva anche proibito o limitato il prelievo delle cortecce per cavarne
il tannino necessario alla concia delle pelli, il taglio delle frasche per
l'alimentazione degli animali o per fame strame per la stabulazione, oppure
l'uso della legna per alimentare le fornaci da calce, per le fucine e, talvolta,
anche per fare il carbone. Nel territorio torinese si giunse a vietare la
vendita del legname ottenuto in sorte, qualora fosse risultato eccedente
ai bisogni della famiglia.
Intorno alle funzioni da attribuire al bosco si generarono veri e propri
conflitti sociali. In quei secoli l'economia rurale in larga parte si reggeva
sull' allevamento dei maiali, alla cui alimentazione le silvae contribuivano
con la produzione delle ghiande; per questo silvae infructuosae erano detti
i boschi privi di querce. Spesso, negli atti di affitto o di cessione, le
foreste venivano valutate con il numero di maiali che potevano sostenere,
approssimativamente uno ogni ettaro (da 0.5 a 1.5, secondo la fertilità
del fondo; P. Galetti, 1988). Ma a partire dal XIV secolo, verificati i
danni che i maiali producevano sul terreno e sui semenzali, nei boschi incolti
si cominciò a proibire quel tipo di pascolo brado. In quelli allevati,
cioè nei cedui e nei castagneti, almeno fino al XVII o al XIII secolo,
si ammise invece ancora il pascolo bovino ed equino. E significativa una
delibera del Comune di Arsiero (Vicenza), presa nei primi anni del secolo
scorso; si stabilì di porre termine all'attività di una malga,
"ai Fiorentini", poiché il danno provocato dalle vacche
nella struttura dei boschi limitrofi era ritenuto maggiore del beneficio
che la comunità traeva dall'affitto del pascolo. Pare che anche in
quei secoli, per aggirare i vincoli delle bandite, si facesse ricorso al
fuoco, non solo per liberare i pascoli dalle sterpi, e per fertilizzarli
con la cenere. Con l'incendio dei boschi comuni si ottenevano infatti novalia,
come se il fuoco fosse un efficace strumento di arroncamento. (V. Fumagalli,
1987).
Molti cedui, in genere di grandissima estensione, erano pertinenza di grandi
possedimenti, come quelli dei monasteri e dei castellani, ma anche di Ville
e di Città. In tal caso si trattava di cedui comuni, dei quali potevano
beneficiare tutti i censiti. Silvae communae, dunque, non tali in quanto
a proprietà, quanto piuttosto all'uso che se ne poteva fare. A questo
particolare regime di possesso si devono forse le prime regole tecniche
per la ceduazione, che risalgono, nelle forme più organiche, ai primi
anni del XIV secolo, benché se ne abbia una traccia precedente, risalente
al 1200, in un piano di coltura d'un bosco concesso in uso ad un monastero
senese (P. Piussi, 1994). Anche negli statuti di Alessandria, datati agli
ultimi anni di quel secolo, si fa riferimento ai cedui, per i quali si prevedevano
tagli ripetuti a cadenze prestabilite: "in septem partes una quarum
partium debeat incidi sive taliari in uno anno et alia pars in alio anno
et sic de singulis persexannos" (I. Naso,1988).
L'altofusto era invece risorsa sempre più scarsa, come anche, pur
se isolati e sparsi nei pascoli e nelle paludi, rari diventavano gli alberi
provvisti di buone forme e dimensioni. Molte fustaie di pianura vennero
dunque via via tutelate attraverso il bando e la minaccia di sanzioni severissime
verso chi non rispettava i rigidi divieti di taglio; ad esempio, un disposto
dell'abbazia di Pomposa, datato al 1285, già stabiliva forti ammende
non solo per chi tagliava frassini, olmi o roveri sparsi tra i campi e le
paludi, ma anche per chi ne avesse acquistato il legname. Verso la fine
del 1500 era ormai regola comune l'infliggere pesanti condanne a chi avesse
tagliato alberi d'ogni specie, anche solo peri o meli coltivati, senza avere
ricevuto il permesso; anche nei contratti di compravendita e d'affitto veniva
attribuito un gran valore ai fondi dotati d'una buona riserva d'alberi.
Venezia e i boschi dello Stato da Tera
Essendosi dedicata quasi esclusivamente ai commerci sul mare, rispetto
agli altri stati vicini Venezia avvertì più tardi la portata
della questione forestale. E pur vero che nell'ultimo scorcio del XIII secolo,
al pari di quanto faceva Bologna, anche Venezia legiferava sulla tutela
delle pinete litoranee e sul commercio del legname, in tal caso proibendone
la vendita all'esterno dei suoi confini.
Ma è solo a partire dal XV secolo che Venezia decide il suo impegno
in terraferma, ponendosi subito nella condizione d' affrontare con coerenza
e con continuità di intenti i problemi legati all'approvvigionamento
del legname e alla tutela idraulica della laguna. Molti storici datano il
viraggio della politica veneziana verso la terraferma alla elezione al Dogado
di Francesco Foscari, avvenuta nel 1423. Pochi giorni prima era morto il
vecchio doge Tomaso Mocenigo, fervente sostenitore del partito che voleva
il futuro di Venezia esclusivamente legato al mare. Il testamento pubblico
del Mocenigo riporta una elencazione completa dei punti di forza, economica
e militare, della Repubblica. Tra questi, alcuni servono egregiamente a
comprendere anche la portata della questione forestale. In quegli anni Venezia
possedeva una flotta mercantile dotata di 3.300 navi, sulle quali si imbarcavano
25.000 marinai; l'Arsenale armava 45 nuove galere da guerra ogni anno, e
nella flotta prestavano servizio 11.000 marinai. La Casa dell'Arsenale,
che si divideva in tre settori, destinati rispettivamente alla cantieristica,
all'armamento (remi, vele, cordame, ecc), e all'artiglieria, provvedeva
alla costruzione e alla manutenzione di queste navi impiegando costantemente
almeno 16.000 dipendenti, in larga misura marangoni, cioè esperti
nel taglio e nella lavorazione del legname (I. Cacciavillani, 1988). In
tutto, quindi, circa 50.000 persone, con le relative famiglie, dipendevano
direttamente dalla disponibilità di legname per l'industria navale
e del commercio marittimo.
Per contro, il partito che voleva lo sviluppo di uno Stato da Tera accanto
al preesistente Stato da Mar vedeva la necessità non solo di una
difesa, alle spalle, della città, ma anche il mantenimento delle
ricchissime opportunità di approvvigionamento che sia la montagna
sia la fertile e ancora poco sfruttata pianura veneto-friulana avrebbero
potuto a lungo garantire alla Serenissima. Nei primi anni di quel secolo,
cioè vent'anni prima della morte del Mocenigo, la Reggenza dei Sette
Comuni dell'Altipiano d'Asiago aveva fatto di sé spontanea Deditione
alla Repubblica, e i vantaggi si erano certamente già avvertiti.
La fame di legname d'ogni qualità era infatti immensa. Enormi quantità
di paleria erano destinate al consolidamento delle rive lagunari, lungo
le quali, prima della costruzione dei murazzi in pietra, si ficcavano nel
terreno sabbioso e limoso delle spiagge più file di pali (tolpi)
distanziati di pochi centimetri l'uno dall'altro, tra le quali si imbrigliavano
pietre e ghiaie. Quasi ogni inverno si doveva rimediare ai danni causati
dalle mareggiate, e molti cedui fornivano il materiale occorrente. Un altro
fiume di legna, in ciocchi, in fascine e fastelli di minuteria di piccole
dimensioni, contribuiva al riscaldamento della città. Per le fondamenta
si chiedevano legni più pregiati, di rovere o di larice. Le conifere
venivano dal Cadore, fluitate lungo il Piave, oppure dal Vanoi e dal Primiero,
lungo il Cismon e quindi lungo il Brenta, dove, a Valstagna s'aggiungevano
i pecci e gli abeti dell'Altopiano, che lì venivano avvallati per
mezzo di una risina in pietra, la Calà del sasso, costruita verso
la fine del 1300.11 Bacchiglione portava a Chioggia le legne dell'alta pianura
vicentina e l'Adige quelle della Lessinia e delle alte terre veronesi. Una
ricchissima rete di canali, alla cui costruzione si era già in parte
provveduto a partire dall'epoca imperiale, anastomizzava tutti i fiumi,
soprattutto Piave, Sile, Brenta e Bacchiglione, fino anche all'Adige. Attraverso
di essi la pianura conferiva a Venezia la gran massa di roveri di cui tra
un poco più diffusamente si dirà.
Per le costruzioni navali servivano le legne di qualità migliore.
Secondo un elenco del 1500 (R. Asche,1994), per costruire una galera servivano:
Legne di quercia (rovare):
- 380 travi curve ottenute da tronchi da 8.5 a 10 piedi di lunghezza e da
4 a 5 piedi di circonferenza, per i fianchi, la prua e la ruota di poppa;
- 150 travi dritte, da 24 a 29 piedi di lunghezza, per la chiglia, la parascossa,
la cinta, il madiere, il dormiente superiore, le travature del ponte;
- 280 assi di spessore 1/4 di piede segate da tronchi di 24 piedi di lunghezza
e da 4 a 5 piedi di circonferenza, per il fasciame
Legne di larice (àrese):
- 35 travi di 40 piedi di lungheza e un piede e un palmo di circonferenza,
per i dormienti interni, i posticci e le corsie;
Legne di larice e abete (albeo):
- 50 pezzi piccoli per le attrezzature del ponte, friseti, morti, colomele,
portavedi e perteghete;
- 300 assi per l'interno e il ponte;
Legne di olmo per argani e cime degli alberi;
Legne di corniolo (cornial), per le caviglie (caece); Legne di noce per
il timone;
tronchi di faggio, uno per remo.
Allora, ma ancora oggi in marineria ne resta tradizione, si usavano queste
unità di misura, che venivano ricordate in una cantilena "Quatro
dèa (o deda) fa una man, quatro man fa un pie, sinque pie fe un paso".
Nella carpenteria navale minore, al passo si sostituiva il paseto, che consta
di tre pie, ognuno dei quali è diviso in dodici onse, a loro volta
divise in 12 ligne (R. Pergolis, 1981).
Tenendo conto che un piede veneziano misura circa 34,37 cm (un'onsa vale
dunque 2,9 cm e un paso misura 172 cm), si può stimare che per la
costruzione ogni galea fosse necessario disporre di almeno 300 m3 di legno
quercia, di 35 m3 di legno di conifera e di qualche centinaio di astoni
di faggio. Solo per le navi da guerra l'Arsenale richiedeva ogni anno, sul
principio del 1400, più di 20.000 m3 di legno di pregio, ovvero di
querce provviste di particolari dimensioni e forme, oltre a qualche migliaio
di m3 di legno di conifera.
Si stima che la produzione annuale dei rovereti di pianura della Serenissima
fosse appena sufficiente a soddisfare questa richiesta. (L. Susmel, 1994).
Bisognava però anche tenere conto di tutte le altre esigenze, marinare,
idrauliche e edilizie, e c'era anche la ricostruzione periodica delle scorte
dell'Arsenale.
Particolare attenzione ai boschi di pianura e di collina in cui crescevano
le insostituibili rovare.
L'attenzione verso i boschi di monte fu in larghissima misura mirata anche
alla regimazione delle acque e alla stabilità delle terre, essendo
l'estensione delle foreste e la loro produzione apparentemente di gran lunga
superiore alle esigenze dello Stato e di tutte le sue genti. E stato determinato
che alla fine del XVI secolo venissero ogni anno fluitati fino a Venezia,
solo dall'area dolomitica, circa 100.000 taglie (tronchi da sega), di cui
40.000 dal Primiero e la restante parte lungo le vie del Piave e del Cordevole.
Circa 10.000 venivano poi portate a Venezia dall'Altopiano. Alla fine del
secolo scorso la quantità di legname tondo che veniva fluitato dal
Cadore verso le segherie a valle di Longarone era almeno tre volte superiore;
durante alcune menade si fluitavano fino 300-350.000 taglie di specie diversa.
Nemmeno l'uso intenso della legna, anche di conifera, a sostegno dell'attività
mineraria, per le fucine e per i fomi del vetro e della ceramica, benché
localmente importante, non arrivò mai a minacciare la perpetuità
dei boschi di montagna. In certi casi, tuttavia, la preferenza accordata
a certe specie di maggior pregio e il taglio troppo energico portarono a
guasti di una certa rilevanza.
*Dipartimento Territorio e Sistemi Agroforestali AGRIPOLIS, Università
degli Studi di Padova
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