PARCHI | ||
Rivista della Federazione Italiana Parchi e delle Riserve Naturali NUMERO 24 - GIUGNO 1998 |
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I parchi lombardi nella nebbia Mario Di Fidio * |
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Da qualche tempo il più grande sistema di parchi regionali in Italia, quello costruito in oltre un ventennio dalla Lombardia, sembra aver perso la bussola, come dimostrano i forti sbalzi di umore e i repentini cambiamenti di rotta della politica regionale. Molti in Italia si chiedono perplessi che cosa stia realmente accadendo in un universo che anche in passato, nel momento di maggior successo, è stato da pochi capito fino in fondo, da molti superficialmente ammirato e da altrettanti con analoga superficialità criticato. Mi è stato chiesto dal direttore della rivista Parchi un articolo che chiarisca la situazione in atto e la sua genesi ed ho accettato con una punta di sofferenza. Anche se ormai da un anno ho lasciato l'Amministrazione regionale ed i parchi, ai quali ho dedicato un ventennio intenso della mia vita, è chiaro che non posso essere del tutto distaccato nel descrivere vicende a cui ho partecipato con impegno sempre appassionato. In compenso credo di non essere fazioso, oggi come ieri sforzandomi di capire senza pregiudizi le ragioni di tutti. Per l'osservatore esterno, il sistema dei parchi lombardi, che interessa circa il 20% del territorio, stupisce e sconcerta, perché accanto a vaste aree di alta naturalità (per esempio i parchi dell'Adamello e delle Orobie), in tutto simili alla maggior parte degli altri parchi regionali e nazionali, presenta numerose aree di media o anche modesta naturalità, ma di valore strategico, all'interno o ai margini di un grande sistema metropolitano, che ormai collega senza soluzioni di continuità Milano a Varese, Como, Lecco, Bergamo, giungendo fino al confine svizzero. Questo è il vero cuore delle aree protette lombarde e da esso si deve patire per capire sia l'originalità del sistema che le sue attuali difficoltà. |
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I parchi e la messa in forma dell'area metropolitana La storia della Lombardia nel secondo dopoguerra vede ripetuti tentativi della politica di misurarsi con i problemi dello sviluppo territoriale, realizzando un progetto più equilibrato ed armonico, un disegno complessivo del territorio che mettesse ordine a processi di trasformazione altrimenti caotici, anche se economicamente vitali. Questi tentativi sono sistematicamente falliti, con l'unica, rilevante eccezione del progetto dei parchi regionali, che in qualche modo è riuscito a dare una forma ed un limite a un processo per sua natura informe ed illimitato come quello di crescita dell'area metropolitana. I primi tentativi in tal senso risalgono agli enti locali dell'area milanese, che negli anni '60 si associarono per realizzare forme di pianificazione intercomunali. Dagli studi ed esperienze del piano intercomunale milanese (PIM) nacquero i parchi regionali Nord Milano e Groane, ma il PIM non fu mai approvato, anche se il suo Centro studi ha continuato, con crescente frustrazione, a sopravvivere fino ai nostri giorni. Diversa e più felice fu la sorte dell'associazione dei comuni della Valle del Ticino, che confluirono con l'intero loro territorio nell'esperienza del parco omonimo e del relativo piano, approvato nel 1980. Fu un grande successo, ma comprendendo quel territorio centri abitati anche vasti, col tempo si evidenziò l'atipicità del modello anche rispetto agli altri parchi lombardi. Da quanto detto, già si capisce che la Regione, sin dalla nascita, si sforzò di valorizzare le esperienze e le potenzialità degli enti locali. A conti fatti, il sistema dei parchi lombardi è sempre stato molto aperto rispetto alle autonomie locali, resistendo alla tentazione, prevalsa in molte altre Regioni, di creare enti di gestione regionali, a cui è stata preferita la formula del Consorzio intercomunale, ovvero l'attribuzione della gestione a singole Comunità montane e Province. Non ha quindi fondamento l'accusa di centralismo alla politica regionale dei parchi. |
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Convergenza delle forze politiche della la Repubblica sulla strategia dei parchi La Lombardia, regione aperta all'Europa, fu tra le prime a capire l'importanza della nuova esperienza dei parchi regionali, diversa da quella dei parchi nazionali di fine Ottocento o dei primi del Novecento e la sola in Italia capace di realizzare un insieme di aree protette a carattere sistemico. La prima legge generale sulle aree protette risale al 1973 (I.r. 58/73). Nello stesso anno, per iniziativa del Consiglio regionale, viene avviata una ricognizione su tutto il territorio e si apre un vivace dibattito per identificare le aree più vocate; questo grande disegno sarà coronato dieci anni dopo, con l'approvazione del piano generale delle aree protette (I.r. 86/83), molte delle quali concretamente istituite, organizzate e pianificate in quegli anni, d'intesa con gli enti locali. Fino alla fine degli anni '80, notevole fu la convergenza delle forze politiche regionali sull'obiettivo delle aree protette. La Regione venne governata per le prime quattro legislature dalla stessa coalizione di centro-sinistra, che si fece carico della responsabilità primaria della politica dei parchi. Ma le leggi fondamentali vennero votate con ben più larghe maggioranze. E troppo facile oggi giudicare negativamente queste convergenze come segno di consociativismo. Più corretto sarebbe constatare che ci sono momenti storici - e l'avvio di una politica di difesa della natura e del paesaggio è uno di questi - in cui è cosa saggia che le varie forze politiche trovino un'intesa fondamentale, salve le diverse identità. Nella legislazione regionale sui parchi degli anni '70 e '80 sono presenti principi che rivelano appunto una sintesi tra concezioni politiche e sensibilità diverse, nel tentativo di definire una piattaforma comune, valida per l'intera collettività lombarda. C'è l'esigenza di difendere la natura e il paesaggio e le stesse radici culturali mettendo ordine allo sviluppo, con strumenti forti (i famosi vincoli), ma attraverso un processo di maturazione dal basso e per così dire di autocoscienza. C'è l'esigenza della fruizione culturale e ricreativa, molto sentita dalle popolazioni inurbate e c'è infine l'esigenza dello sviluppo economico, sociale e culturale delle popolazioni residenti, da promuovere con altri e più adatti strumenti. Anche se in seguito non tutti questi obiettivi sarebbero stati sviluppati ovunque con la stessa intensità, per i motivi che verranno illustrati, I'istituzione dei parchi si configurava come un'opera- zione di respiro storico, in grado di essere sostenuta da tutte le forze politiche, ciascuna secondo la sua identità ed i suoi particolari interessi sociali, I'alternanza al governo regionale e locale comportando la possibilità di arricchire progressivamente le esperienze, diversificandole. |
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Fallimento dei tentativi di pianificazione territoriale e paesistica generale Su un orizzonte apparentemente così sereno erano tuttavia destinate ad addensarsi progressivamente le nubi. Un evento che certamente ha avuto pesanti conseguenze negative sui parchi è stato il fallimento dei ripetuti tentativi di pianificazione territoriale e paesistica dell'intero territorio regionale. La Lombardia era partita negli anni '70 con grandi ambizioni, avviando l'esperienza della pianificazione comprensoriale, presto abortita con la soppressione dei comprensori. Nella seconda metà degli anni '80, dopo l'approvazione della legge Galasso, un tentativo analogo per i piani paesistici, fatalmente caricati del peso di una mediazione impropria con gli obiettivi socio-economici per l'uso del territorio, non ebbe parimenti successo. Il cosiddetto piano paesistico, recentemente approvato dalla Regione sotto il pungolo del potere sostitutivo statale, non è un termine di paragone significativo, in quanto di fatto privo di contenuti vincolanti. Dobbiamo parlarci con franchezza: questi insuccessi a catena dei tentativi di pianificazione (peraltro diffusi in tutto il Paese) non sono tanto o solo attribuibili ad un'istituzione, quella regionale, che pure da decenni ne ha la responsabilità formale. Essi sono soprattutto il sintomo inquietante del fallimento della politica quando pretende di affermare il suo primato con un grande disegno per il Paese, un progetto complessivo in cui tutte le forze sociali ed economiche siano chiamate a partecipare. Quello che emerge a tutti i livelli, quindi anche presso le istituzioni statali e locali che oggi criticano le Regioni, non è il primato della politica, ma la sua sistematica subalternità alle ragioni dell'economia. Se non si taglia questo nodo gordiano (ma un Alessandro non è alla vista), non credo che il nuovo attivismo delle Province dopo la legge 142/90 o le minacce sostitutive del governo sortiranno effetti di rilievo. Questa situazione si riflet- te in misura diversa sui vari sistemi di parchi. Infatti, nelle Regioni dove i parchi interessano ristrette aree economicamente marginali, I'assenza di piani territoriali e paesistici che coprano l'intero territorio regionale (o la presenza di piani edulcorati, ricchi di indirizzi e poveri di vincoli) ha effetti limitati sui parchi. Diciamo più chiaramente che spesso in Italia le aree protette sono state concepite dalla classe politica - consapevole della sua impotenza - come luoghi per confinare e non per sperimentare ed estendere la difesa della natura e del paesaggio, nel sottinteso che sul resto del territorio l'economia dovesse avere le mani libere. |
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I parchi lombardi e le forze dell'economia: un confronto impari La carenza di piani territoriali e paesistici generali era destinata ad avere effetti molto più gravi sui parchi lombardi, per la maggior parte immersi o confinanti con aree metropolitane o comunque potenzialmente più appetibili ai processi di sviluppo intensivo. I piani dei parchi sono stati dunque fatalmente caricati di tensioni fortissime, che avrebbero dovuto più correttamente essere sostenute da altri strumenti e soggetti istituzionali. Il processo di pianificazione, lunghissimo ed estenuante, anche quando ha avuto successo giungendo alla fine, ha finito per assorbire troppe energie, sottratte ad altri obiettivi strategici (realizzazione di servizi ed interventi sul territorio, promozione dello sviluppo compatibile). Ma c'è una situazione ancora più grave: in Lombardia la vita dei parchi è legata con un cordone ombelicale ai rispettivi piani. Infatti dal 1983 i vincoli più forti (quelli ad insediamenti, infrastrutture, ecc.), non sono più inseriti a titolo di salvaguardia nelle leggi istitutive, ma definiti dai piani dei parchi. Basta dunque sbloccare o smontare questo delicato meccanismo per vanificare di fatto il parco: rimane la forma e il simbolo, perfino l'istituzione, ma svanisce la sostanza, lentamente corrosa dallo sviluppo, che trasforma il territorio: è quanto sta avvenendo in troppe aree solo formalmente protette. Occorre essere franchi: se si vuole realizzare un parco, non c'è alternativa ai vincoli nei confronti delle utilizzazioni incompatibili. Ogni politica di difesa della natura e del paesaggio ha una componente di autorità, che, non essendo ovviamente gradita, si può tentare di ridurre a vantaggio di strumenti socialmente più accettabili e perfino in certi casi più efficienti (penso in particolare ad intese con l'agricoltura), ma non si può totalmente eliminare, pena la rinuncia sostanziale a quella politica. Ma i partiti in Lombardia (e in Italia) vogliono effettivamente continuare un'esperienza singolare, che paga lo scotto di essere fuori da troppi schemi? E quanto sono sincere certe difese d'ufficio? Alla fine degli anni '80 già si avvertivano le difficoltà del sistema dei parchi lombardi, acuite dalla progressiva disattenzione e disaffezione della stessa classe politica che li aveva voluti. In qualcuno già si affacciava il dubbio che l'obiettivo fosse troppo ambizioso, che forse si fosse esagerato. Ma leggi, programmi e strumenti rimanevano intatti e con essi una burocrazia regionale motivata e determinata ad applicarli. C'erano ancora le condizioni per una riforma non traumatica, ma fisiologica, che tenesse conto delle esperienze di 4 legislature regionali. |
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Crisi dei parchi all'inizio della 2a Repubblica Il 1990 rappresenta l'anno di svolta per gli equilibri politici e fatalmente per il destino dei parchi. In Consiglio regionale si affaccia una forza politica nuova, nata nell'humus del profondo Nord, la Lega Lombarda, portatrice di una forte istanza localistica e di una critica violenta a tutte le istituzioni che portassero il segno di un'autorità centrale, soprattutto statale, ma anche regionale. I parchi non fecero eccezione, tanto più che nelle aree periferiche (dove la Lega sin dall'inizio era più radicata) costituivano un'esperienza più tarda ed a conti fatti meno originale e scontavano un più difficile rapporto con le popolazioni locali, da sempre gelose della loro autonomia e diffidenti nei confronti di iniziative giudicate - non sempre a torto - troppo legate ad una cultura urbana. Per la prima volta un'intera parte politica non si limitava a criticare le modalità, ma rifiutava la stessa sostanza dell'esperienza dei parchi, proponendone provocatoriamente l'abolizione e il riconoscimento dell'intera Lombardia come parco. Il trauma fu forte in chi aveva le antenne più sensibili, ma superficiali furono a lungo le reazioni di molti di fronte ad una proposta politica giudicata pittoresca o rozza e comunque destinata in breve tempo a spegnersi. Innanzitutto l'attacco ai parchi, anche se esasperato ed irragionevole, suscitava fatalmente emulazione nelle componenti della maggioranza più vicine all'elettorato della Lega, tanto più in presenza di ritardi in quella parte del programma dei parchi (la promozione dello sviluppo compatibile) al quale questi gruppi politici erano maggiormente interessati, come l'effetto di sottrarre forze al riformismo costruttivo per alimentare una critica distruttiva. Questo richiamo della foresta è tuttora presente in Consiglio regionale. Da un altro punto di vista, se di nuovi barbari si trattava, si doveva avere la lucidità di riconoscere alla barbarie una sua freschezza e schiettezza, che spesso mancano ai politici consumati. A modo suo la Lega portò nel dibattito temi nuovi, come la rivalutazione delle radici culturali che, pur non essendo concettualmente estranea al processo storico di formazione dei parchi, nelle esperienze concrete era stata sottovalutata. Strategicamente la Lega ebbe il merito di porre una domanda imbarazzante, che coglieva il vizio segreto di un'intera linea politica: perché limitare la difesa della natura e del paesaggio alle aree protette? Pochi anche nel mondo ambientalista colsero la portata di questa sfida, che in realtà poteva riaprire il confronto politico ad un più alto livello. D'altra parte la V legislatura regionale (1990-95) fu la più instabile e turbolenta, drammaticamente segnata dalla rivoluzione di Tangentopoli, che investì come un ciclone la Regione, alla cui guida si alternarono in rapida successione tre diversi governi (pentapartito, sinistra, lega-centro) con idee alquanto diverse sui parchi, ma prive ciascuno del tempo necessario per metterle in atto. Fatalmente proseguì il logoramento e l'isolamento dei parchi, ma in una cornice normativa miracolosamente intatta. Furono anche gli anni dell'approvazione e delle prime applicazioni della legge-quadro nazionale sui parchi (1. 394/91), all'insegna di un trionfalismo romano per certi versi comprensibile dopo decenni di inattività, ma nell'ottica milanese dolorosamente stridente con la drammaticità della situazione dei parchi lombardi, che rimaneva ignota ai più e - quando veniva illustrata ai responsabili ministeriali - suscitava reazioni di freddezza e disinteresse. Evidentemente per Roma i parchi da difendere stavano altrove. Anzi in quegli anni lo Stato iniziò ad azionare una leva potente, in grado da sola di disintegrare il sistema lombardo: I'applicazione indifferenziata del divieto di caccia in aree protette concepite con una logica affatto diversa da quella della legge-quadro nazionale. Con intransigenza giacobina - sostenuta dall'entusiastico consenso di molte forze ambientalistiche - ma assoluta cecità politica, si incominciò ad affermare che il vero problema, la tabe originaria che affliggeva i parchi lombardi, era quello della caccia e per tutti gli anni successivi fino ad oggi questo falso problema avrebbe monopolizzato l'attenzione di una stampa distratta, avvolto in una nebbia fumogena l'opinione pubblica, immiserito e fuorviato il confronto politico, nascondendo i problemi reali. |
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Tentativo di una nuova sintesi riformista per rilanciare la politica di difesa della natura e del paesaggio. Giungiamo infine all'inizio della Vl legislatura regionale (1995). Le elezioni furono vinte dal Polo, con un larga maggioranza che garantiva la stabilità, in cui prevalevano forze che non avevano partecipato all'esperienza dei parchi o comunque ne erano fortemente critiche, pur senza aver maturato alternative valide. E bensì vero che - come abbiamo già affermato ciascuna parte politica, e tanto più chi raccoglie un così vasto consenso popolare, può dare un contributo alla difesa della natura e del paesaggio, conforme ai suoi principi ed alla sua identità. Tuttavia una linea politica alternativa non si può improvvisare ed era evidente il rischio che le riforme, ormai non più rinviabili, portassero di fatto non all'evoluzione ma alla liquidazione o ad un forte ridimensionamento della ventennale politica lombarda sulle aree protette. A questo punto chiedo scusa, ma devo essere almeno in parte autobiografico, perché altrimenti il lettore non capisce. All'inizio della legislatura, offrii alla Giunta regionale le mie dimissioni da dirigente del Servizio Parchi. Da anni contestato come troppo rigido custode delle leggi regionali e intransigente difensore dei parchi, se era giunto il momento di liquidare un'esperienza a cui mi sentivo tanto legato, quello era anche il momento per farmi da parte. Prospettai tuttavia anche un'altra soluzione: la ricerca di una terza via tra conservazione e liquidazione del sistema esistente, un intreccio positivo tra ambientalismo e riforme, una nuova linea politica che, affermando la validità complessiva dell'esperienza dei parchi, la storicizzasse per avviare una nuova fase di crescita, che facesse tesoro della parte più vitale, abbandonando quella più caduca ed inattuale e viceversa cogliendo le potenzialità migliori dei nuovi fermenti sociali e del processo di riforma istituzionale in corso nel nostro Paese. Si trattava in altri termini di tentare una nuova sintesi che - come nei momenti migliori del passato - fosse in grado di raccogliere i più vasti consensi in Consiglio regionale, in un dibattito di alto livello per una legge-quadro fortemente innovativa sulla difesa della natura e del paesaggio, comprendente anche le aree protette. La maggioranza avrebbe potuto sviluppare le componenti più vicine alla sua identità, legate al principio di sussidiarietà, alla tutela delle radici culturali, alla semplificazione amministrativa, alla promozione delle intese con i privati ed allo sviluppo compatibile. Questa proposta fu accettata, devo dire con interesse almeno iniziale; la prospettiva di mettersi alla testa di un grande movimento riformatore in Italia appariva affascinante. La Giunta regionale, con D.GR. 17 novembre 1995, n. 6/4762, approvò quindi un documento strategico avente il titolo "Indirizzi per una nuova legislazione sulla difesa, la gestione e lo sviluppo della natura e del paesaggio", con l'obiettivo del riordino dell'intero corpus normativo vigente in materia, da ricomporre in un unico testo (un vero e proprio codice), integrato da regolamenti. In 34 fitte pagine a stampa veniva delineata una nuova strategia che suscitò stupore anche fuori dall'ambito regionale, per la capacità di coniugare le riforme con una grande politica ambientale, ponendo di nuovo la Regione Lombardia all'avanguardia del Paese, come negli anni '70. Si deve peraltro precisare che questo ambizioso programma scontava sin dall'inizio un insufficiente approfondimento da parte delle forze che l'avevano approvato. Questo difetto avrebbe potuto essere sanato purché ci fosse stata la volontà di capire, studiando una materia difficile giuridicamente ed amministrativamente e dibattere a lungo in sede politica, ma ciò non venne fatto, anche dai soggetti più aperti. E ovvio che alla lunga, per sostenere una nuova e complessa linea di politica ambientale, non basta avere un documento strategico e non basta neppure la generica condivisione di valori ormai entrati a far parte della cultura comune e diffusi anche tra i giovani impegnati in politica. Per quanto riguarda l'apertura dei più anziani, va detto che la prevista codifica normativa mirava a coordinare strettamente politiche settoriali e strutture organizzative disperse in tre Assessorati (Ambiente, Territorio ed Agricoltura), ripetitive e poco comunicanti. Ma ciò richiedeva una forte disponibilità dei rispettivi vertici politici e dirigenziali. Ciò non si verificò, prevalendo le tradizionali logiche della spartizione politica secondo il manuale Cencelli e del conservatorismo burocratico, tra loro alleate. Il previsto programma di riforme restò quindi di fatto affidato ad una sola persona (chi scrive), giungendo alla fine del 1996 ad un testo del nuovo codice sulla natura e il paesaggio, che fu presentato alle associazioni delle Province, dei Comuni, delle Comunità montane, degli ambientalisti e degli agricoltori, ma quando ormai la situazione politica si era logorata, soprattutto a causa del problema caccia. |
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Riclassificazione delle aree protette: un vittoria scambiata per una sconfitta. Nell'attesa del nuovo codice, si era deciso di attuare subito alcune riforme urgenti. Nel 1996 il Consiglio regionale approvò due leggi importanti: la l.r. 26/96 sulla riorganizzazione dei Consorzi dei parchi e la l.r. 32/96 sulla riclassificazione delle aree protette. Con quest'ultima legge, il sistema dei parchi lombardi usciva, almeno parzialmente, dalla cornice soffocante della legge-quadro nazionale, mediante la creazione della nuova categoria dei parchi regionali, al cui interno avrebbero potuto essere identificati, con lo strumento del piano, parchi naturali soggetti alla disciplina della legge 394/91 e in particolare al divieto di caccia. Era un grande successo per la Lombardia, dopo ripetuti e vani tentativi nella precedente legislatura di trovare una strada che salvasse la diversità della sua esperienza. Il confronto con lo Stato, che non era mai stato facile in passato, fu allora ancora più duro, per la rivalità politica che contrapponeva i governi regionale e statale. Ma a ben vedere lo scotto da pagare per il consenso alla fuoriuscita dalla legge 394/91 (un sistema di divieti provvisori alla caccia su alcune aree di maggior interesse naturalistico) era poca cosa rispetto alla dimensione sostanziale del successo in termini di autonomia nella costruzione di un proprio sistema di aree protette e di assestamento a regime dello stesso vincolo venatorio. Tuttavia la tensione inevitabile con il mondo della caccia, nel periodo della trattativa col Governo e subito dopo l'approvazione della legge, mise fatalmente a nudo la superficialità e l'immaturità con cui era stata affrontata una riforma così complessa come quella decisa con la D.GR. 4762/95. Bastarono pochi giorni di assedio del Pirellone da parte di bande di cacciatori muniti di trombe e tamburi e qualche duro confronto in sede locale per far saltare i nervi a troppi consiglieri ed assessori regionali. Quella che era una vittoria fu, per ignavia e miopia, scambiata per una sconfitta. Per molti era giunto il momento di farla finita con una linea politica di cui sostanzialmente diffidavano e con la persona che la incarnava. |
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*Esperto di tematiche ambientali e territoriali |