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Le grandi trasformazioni del territorio meridionale, contadini e classe politica, politica dei beni culturali e delle aree protette, questi alcuni degli argomenti trattati in questa intervista con il prof. Giuseppe Giarrizzo, storico insigne, preside della facoltà di lettere dell'Università di Catania. Una conversazione a tutto campo dalla quale emergono le due anime di Giuseppe Giarrizzo, quella di profondo conoscitore della storia e della cultura del Mezzogiorno, ma anche la sensibilità pragmatica di un intellettuale che si è impegnato nell'amministrazione di una grande città come Catania e ha speso anni di lavoro per far restaurare e rendere utilizzabile a studenti e professori il grandioso monastero dei Benedettini, oggi divenuto prestigiosa sede della "sua" facoltà. Preside, vorremmo provare a percorrere con lei le grandi trasformazioni del territorio e del paesaggio del Mezzogiorno, per giungere poi all'attuale politica delle aree protette.
"Va subito detto che se in genere in Italia appare arduo trovare degli spazi in condizioni di naturalità perché storicamente si tratta di territori in cui rilevanti sono state le trasformazioni apportate dall'uomo nei secoli, ciò è ancora più difficoltoso nel Mezzogiórno in quanto si tratta di un'area sovraccarica da tempi non recenti, caratterizzata da una forte densità demografica, e da una rilevante concentrazione urbana, in Sicilia in particolare. Se ricomprendiamo nel Mezzogiorno, anche la Sardegna il dato medio demografico si abbassa leggermente ma il discorso comunque non cambia".
Può darci una misura delle trasformazioni avvenute nel Mezzogiorno?
"11° caso dell'Etna è abbastanza significativo; ancora i documenti del Settecento, prima metà, ci descrivono boschi estesi che si trovavano nella zona compresa fra Catania ed Acireale a poca distanza dalla costa, si racconta addirittura di militari austriaci che nel percorrere un tratto di "trazzera" che attraversava quella foresta scomparvero nel nulla, probabilmente uccisi da briganti. Io stesso vengo da un paese di mare, Riposto, in cui sin dai tempi degli arabi, come ci racconta il geografo alidrisi, i pini dell'Etna venivano utilizzati per costruire imbarcazioni e più recentemente per realizzare le botti per il vino.
Ma testimoni settecenteschi ci raccontano che già a quel tempo era divenuto difficoltoso il reperimento del legname necessario alla costruzione degli "sciabecchi", delle imbarcazioni. Del resto le stesse testimonianze settecentesche ci confermano i formidabili progressi altimetrici compiuti dalla coltivazione della vite che ha ormai superato i mille metri di quota. I boschi lì quindi non ci sono ormai più, al massimo resta qualche coltura promiscua, dei castagneti sparsi. E dunque ormai avviato, il processo di disboscamento del Mezzogiorno che continuerà sino a qualche decennio orsono. Io stesso ricordo bene l'impressione che mi fece negli anni '50 il primo volo aereo fra Catania e Palermo, osservai un'isola ormai "pelata", la cosa mi fece ancora più impressione ripensando ai documenti del periodo Normanno in cui si descrive una regione ancora largamente coperta da foreste".
Un ruolo importante in questo, processo di disboscamento della Sicilia fu certamente giocato dalle ricorrenti campagne per l'aumento della produzione granaria, sin dai tempi dei Romani passando per le iniziative dei grandi feudatari nel 17° secolo, sino al fascismo...
"Certamente le campagne per il grano ebbero un ruolo significativo. Anche se a volte si configuravano più che altro come un sistema adottato dai grandi feudatari per conservare la manodopera, offrendo ai contadini la possibilità di trasferirsi in nuovi borghi appositamente fondati (questo avvenne intorno al 1600) e consentendo loro di avere dei nuovi spazi per l'autoproduzione, attraverso gli strumenti dell'affittanza, dell'enfiteusi, della piccola proprietà.
Naturalmente ciò avvenne solo nei periodi in cui la forza lavoro non era sovrabbondante, quando esisteva dunque l'interesse del proprietario del feudo che i contadini non si spostassero altrove in cerca di fortuna.
Ma un ruolo forse ancora più grande nella trasformazione del territorio meridionale lo ebbero le grandi opere di ingegneria idraulica effettuate nelle piane già a partire dal Cinquecento, con l'obiettivo di strappare quelle terre fertili al dominio della malaria. E curiosamente nello stesso periodo i progressi dell'ingegneria idraulica consentono anche il diffondersi dell'uso dell'acqua per scopi di apparente diletto: vengono infatti edificate delle ville con giochi d'acqua anche se poi la stessa acqua finisce con l'avere anche degli scopi produttivi alimentando ad esempio dei mulini. Il problema comunque era quello di evitare che l'acqua diventasse stagnante e quindi malarica".
Mi pare comunque che l'andamento dell'economia meridionale ed i conseguenti processi di trasformazione del paesaggio siano stati fortemente caratterizzati da una accentuata dipendenza da influenze esterne, in particolare dall'andamento delle esportazioni...
"Certamente. L'economia meridionale è storicamente fortemente etero diretta.
Già nel Settecento per fare un esempio, le coltivazioni calabresi di olio ebbero una gravissima crisi a causa dell'arrivo di ingenti quantità di olio spagnolo e per la preferenza accordata dai consumatori del nord al grasso animale.
Del resto le mode culturali influenzano da sempre in maniera rilevante gli stessi consumi alimentari. Ricordo bene lo sviluppo che ebbe il consumo di margarina negli anni Cinquanta e Sessanta quando questo grasso veniva presentato come portatore di benessere e leggerezza, in confronto alla supposta"pesantezza" dell'olio di oliva. Alcune ricerche hanno dimostrato come nella Calabria della fine dell'Ottocento aumentassero i consumi di carne da parte delle famiglie di cosiddetti "americani", cioè i congiunti degli emigrati nel Nuovo continente, che identificavano nel consumo di carne animale un segno di riscatto ed una dimostrazione di benessere. Per altro verso va considerato che l'agricoltura meridionale aveva una endemica eccedenza di bocche da sfamare.
Si trattava infatti di un tipo di agricoltura, che in conseguenza del tipo di coltivazioni praticate (grano, vite etc), non consentiva più di 100/150 giornate lavorative in un anno. Impedendo di fatto le forme di sviluppo mezzadrile che si affermarono in altre parti del Paese".
Qual è secondo lei la forma di sfuttamento delle risorse naturali che più ha caratterizzato l'economia meridionale in età moderna?
"A mio giudizio, la forma prevalente è quella del monopolio naturale. Storicamente gli imprenditori meridionali hanno costantemente legato le loro sorti all'utilizzazione dei "monopoli naturali", siano essi gli agrumi, lo zolfo, la vite, oppure oggi i primaticci, restando però in una posizione di sostanziale subalternità al mercato, così come avviene - tanto per fare un esempio - da decenni ai paesi produttori di petrolio: dispongono di un monopolio naturale ma ne affidano l'utilizzazione a soggetti esterni, alle grandi multinazionali.
Ai tempi del grande sviluppo dell'industria zolfifera in Sicilia i Borboni in un certo momento cercarono di trarre maggiore profitto dalla sua commercializzazione, emarginando i mercanti inglesi. La risposta di Palmerston non si fece attendere: mandò la flotta navale a schierarsi davanti al Vesuvio e tutto ritornò come prima.
Gli stessi agrumi mutarono profondamente il paesaggio meridionale, che venne trasformato, da innumerevoli "giardini" creati dalla borghesia urbana. Ma il processo di sviluppo riuscì a reggere solo finché resistette il "monopolio naturale" che consentiva agli agrumi siciliani di raggiungere persino gli Stati Uniti".
In tutto ciò che ruolo ha giocato la classe politica meridionale?
"Va detto che il ceto politico espresso dal Mezzogiorno è stato sovente di alto livello: grandi intellettuali, esponenti delle professioni liberali di notevole cultura. In realtà si trattava spesso di personaggi che una volta assurti alla ribalta nazionale non mantenevano grandi contatti con il loro ambiente di provenienza almeno sino a quando non intervenne il suffragio universale.
Nel loro retroterra culturale non c'era comunque l'impresa, né l'industria. Non c'è quindi da stupirsi se gran parte dei politici meridionali ha tentato di pagare il proprio debito di riconoscenza verso le regioni di provenienza impegnando risorse pubbliche per difendere dal mercato un sistema sociale e produttivo sovraesposto, in ragione della sua debolezza, al mercato stesso.
Non bisogna dimenticare che, come raccontano le indagini svolte nell'Ottocento, il Mezzogiorno era veramente una terra dimenticata da Dio e dagli uomini. E dunque errato trinciare giudizi affrettati sugli "sprechi" nel Sud, perché il livello di vita nel Sud è comunque enormemente migliorato negli ultimi decenni, senza che il grado di corruzione politica sia stato necessariamente più alto che in altre parti del Paese".
Tutto ciò è avvenuto in realtà grazie a politiche di sviluppo fortemente dirigistiche e centralizzate... "Non c'è dubbio, i piani della ex Cassa del Mezzogiorno, assomigliano molto a dei piani quinquennali di stampo sovietico con una forte connotazione assistenziale.
La stessa Regione Siciliana ha messo in piedi una forte struttura burocratica destinata essenzialmente a gestire le politiche di spesa. E anche opportuno ricordare che una connotazione assistenzialista delle politiche meridionaliste non venne accettato dal PCI soltanto sino a quando fu un partito rivoluzionario, dopo la svolta i piani della Cassa del Mezzogiorno vennero sostanzialmente avallati anche dai comunisti".
Vede dei segnali di cambiamento nelle politiche di gestione del territorio meridionale?
"Stiamo assistendo alla diffusione delle riserve e dei parchi naturali ed in altro settore ad una nuova sensibilità verso il turismo culturale. E stato dimostrato che una parte consistente dei beni culturali si trova nel Mezzogiomo così a qualcuno è tornata in mente l'idea del monopolio naturale: tentare insomma di sfruttare senza grande fantasia qualcosa di cui disponiamo in esclusiva. Niente di più sbagliato. E un po' quello che sta accadendo per le riserve, anche lì propendiamo alla museificazione senza che le risorse impegnate consentano di percorrere un cammino di crescita economica e civile alle comunità coinvolte. Qualcuno vorrebbe far diventare il Sud un grande museo, come se disponessimo delle risorse necessarie per valorizzare l'enorme quantità di reperti archeologici, chiese barocche, palazzi nobiliari disseminati nelle città e nelle campagne.
Mi è capitato di citare un caso banale ma significativo: all'ingresso della mia facoltà sono stati riportati alla luce i resti di un calidariun. Il ritrovamento, in sé non è particolarmente significativo, si tratta di poche mura che senza una adeguata spiegazione dicono poco. Si trovano al centro di uno scavo che con un po' di vento diventa ricettacolo di foglie e immondizie. Chi può curarne la costante pulitura e con che benefici effettivi per la collettività? Io sostengo che resti archeologici di questo genere vadano documentati e subito dopo ricoperti. Molto meglio stabilire le compatibilità di massima per l'utilizzo dei beni culturali e poi lasciare, come è avvenuto per la mia facoltà, che un convento benedettino diventi luogo di lezione e di studio, che un palazzo barocco diventi ristorante o enoteca, che una chiesa venga adibita a sala concerti.
Insomma prendere atto che le risorse sono limitate e inadeguate rispetto alla quantità di beni culturali e naturali disponibili e stabilire pertanto un rigoroso elenco di priorità.
Ricordando che un oggetto museificato diventa certamente più fragile, in quanto sottratto ad una condizione a volte millenaria di conservazione, e rappresenta un onere enorme per la collettività che può farsene carico soltanto per pochi oggetti di grande, riconosciuto valore".
Lo stesso discorso ritiene che possa essere esteso anche alle aree protette?
"Le considerazioni sono le medesime. Anche in questo campo le risposte debbono essere flessibili. Dobbiamo realizzare una circolazione dei processi che renda possibile anche la crescita delle popolazioni interessate.
Altrimenti avremo il contrasto fra quanti collegano i parchi all'utilizzo del tempo libero e più in generale ad attività ricreative e quanti invece vi trascorrono la loro vita. Solo così potremo rendere più facile nel Sud quella coesistenza fra vecchio e nuovo, che pur essendo una condizione naturale dell'esistenza, dalle nostre parti è stata spesso forzata da una accentuata sensibilità al moderno, basta vedere le tante brutture delle città meridionali. Beninteso quello che mi preoccupa nell'attuale rapporto delle aree protette con le popolazioni locali non è la problematica inerente la compressione delle libertà individuali o dei diritti di godimento delle proprietà, quanto piuttosto il mancato utilizzo delle opportunità di sviluppo insite in una migliore gestione del territorio meridionale".
(L'intervista è stata curata da Giuseppe Riggio) |