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La cultura del bosco
Ciò che contraddistinse la politica veneziana in tema di boschi rispetto a quella contemporaneamente sviluppata degli altri Stati fu la concezione selvicolturale con cui si provvedeva all'uso delle foreste. S'è visto che nel XV secolo quasi ovunque si prese coscienza delle conseguenze ambientali del rarefarsi dei boschi; si promulgarono così molte leggi che avrebbero dovuto promuovere il risparmio del bosco imponendo la cessazione dei tagli. Venezia invece concepì l'idea che la conservazione delle foreste si potesse ottenere anche ammettendone un uso appropriato, e nei successivi tre secoli progressivamente affinò un sistema di selvicoltura che ancora ai giorni nostri conserva validità. Cominciò nel 1470 decretando la riserva di tutti i roveri cresciuti su qualsivoglia fondo di tutto il dominio veneto; non solo ogni quercia veniva dichiarata, senza indennizzo, proprietà della Serenissima, ma il terreno ove era cresciuta restava vincolato alla perpetua produzione di "possibili" querceti (I. Cacciavillani, 1983).
Fu certamente una legge severa, che tuttavia compensava in parte lo scempio di roveri e d'altre piante avvenuto durante i vent'anni d'applicazione d'una legge che affidava ai Comuni la gestione dei beni pubblici compresi i boschi.
Infatti, se nelle aree montane quella legge, del 1452, ridette fiato alle proprietà collettive, come le Regole cadorine e quelle del Comelico o i Colonnelli dell'Altopiano, in pianura essa diede invece corda ad ogni forma di appropriazione indebita e di abuso, infierendo un duro colpo soprattutto alla produzione del legname quercino.
Nel giro di pochi anni vennero però in seguito promulgate leggi di ben altro spessore. Si cominciò nel 1471 col conferire all'Arsenale ogni competenza in materia di boschi e di approvvigionamento di legname, e ad esso venne subordinato un Collegio di appositi Provveditori sopra le legne, organo tecnico di vera gestione forestale.
Un secolo dopo, nel 1601, questo collegio aveva assunto tale competenza e tanta autorevolezza tecnica da essere chiamato a rispondere direttamente al Consiglio dei X.
Nello stesso anno 1471 venne resa demaniale l'intera foresta del Montello, "che era stimato, non solo da questa Repubblica ..., per una delle singolari gratie che abbia fatta la Maestà d 'Iddio a questo Stato poiché, fondandosi la libertà di esso nelle forze del mare, con il mezzo di questo Bosco può esser sicuro di non haver mai mancamento di galee, essendo così vicino che si può stimare nel proprio Arsenale ".
Sul cominciare del 1500 Venezia diede anche il via ad una imponente opera di catasticazione dei boschi quercini che terminò soltanto pochi anni prima della sua caduta, di poco preceduta dalla più mirabile legge forestale del passato, inerente la "Terminazione Dei boschi della provincia delI'Istria", del 1777.
Ma la prima legge che Venezia stese per regolare in maniera organica l'uso dei boschi risaliva a due secoli prima, cioè al 1475. Essa divenne perpetua e venne estesa all'intero dominio veneto. Con l'intento di preservare i boschi "comunali", detti le comugne (cioè quelli affidate in uso perpetuo ai residenti ab origine delle Ville; 1. Cacciavillani, 1988) dall'uso intensivo come sede di pascolamento e da tagli abusivi (per farvi campi), la legge introdusse alcuni principi colturali assolutamente innovativi, ovvero:
- stabilì, come già aveva fatto Bologna qualche decennio prima, il regime ordinario del ceduo, su cui si poteva intervenire col taglio solo su polloni di 10 anni d'età e su prese annuali, arealmente definite e ben individuate sul terreno;
- impose il ripristino forestale, attraverso la semina o la piantagione di semenzali, sulle aree percorse dal fuoco o tagliate abusivamente (svegri);
- ordinò il rilascio, nelle radure e nelle tagliate (quelle ammesse nelle prese), di tutti i semenzali e delle roveri che in futuro potessero tornare utili ai cantieri navali. (quam nemorum dictorum le Comugne et nemorum nostrum banditorum teneantur et obligati sint relasare in ronchatissive robore, que in futurum noscantur esse apta et comoda pro arsenatu nostro et navibus).
- Quest'ultima deliberazione ebbe effetti forse insperati, poiché avviò con grande determinazione la prima conversione guidata dal ceduo semplice al ceduo composto, e quindi all'altofusto.
Si continuò anche successivamente su questa strada con una nutrita serie di altre leggi e raccomandazioni, di volta in volta mirate a rimpinguare la quantità delle roveri nei boschi attraverso semine e trapianti, a lasciare un buon numero di semenzali e di matricine nelle tagliate (almeno 25 per campo, cioè 60 per ettaro), a migliorare la qualità del fondo attraverso opere di bonifica idraulica, I'esclusione o la regolazione del pascolo, la periodicità degli interventi.
Non fu impresa facile, poiché a curare il rispetto delle leggi non provvedeva un corpo specifico di polizia, ma gli stessi reggitori e guardiani comunali, contro i quali, in realtà, l'Arsenale avrebbe dovuto difendere i propri interessi.
Nel 1530 il Consiglio dei X dovette così prendere atto del parziale insuccesso delle leggi precedenti, e comandare, con molta severità, il ripristino del bosco sui fondi agricoli ad ogni titolo ottenuti per disboscamento negli ultimi 40 anni. "... tutti quelli che da anni in qua hanno deboscato boschi ... de chi esser se vogli, sia ecclesiastici ... come seculari ... siano obligati a redur a boschi otto campi ogni cento ".
Un altro 2% dei campi, anche se mai prima erano stati boschi doveva comunque, in ogni contrada dello Stato, essere rimboschito, non necessariamente di rovere, ma delle "... sorte de legni che li piace ... a li patron"'. Viene infine stabilito l'obbligo della denuncia dei disboscamenti presso il Comune, e in copia presso l'occio de' Savii del Consiglio dei X in modo che tutti quelli concessi fossero rubricati e quelli indebiti potessero facilmente e incontestabilmente essere scoperti e puniti. Gli alberi di cui fosse stato concesso il taglio avrebbero dovuto essere segnati con un apposito sigillo (bollo). All'abbattimento dovevano assistere sia il Ministro (funzionario) dell'Arsenale (poi del Magistrato sopra le legne) sia il Degan o il Marigo della Villa, i quali si dovevano vicendevolmente rilasciare attestato della regolarità dell'operazione. Il buon governo del bosco non giovava tuttavia solo all'Arsenale. Grande attenzione era posta anche alle relazioni tra la coltura forestale e la qualità dell'ambiente,
e in particolar modo alla regimazione delle acque. In molti documenti si coglie una sorprendente capacità di osservazione e di interpretazione dei fenomeni naturali, quale per molti secoli poi sarebbe stata dimenticata. Il Consiglio dei X sosteneva, nel 1530: "Accade che el desboscar è causa manifestissima de far atterrar questa nostra lacuna, non havendo le piogge et altre inundation alcune retegno né obstaculo come haveano da essi boschi ad confluir in essa lacuna... ". Sessant'anni più tardi il medesimo Consiglio considerava: "Principalissima causa della subita escrescenza de Fiumi da certo tempo in qua, delle molte inondationi, e delle rotte ... che succedeva con l'innalzamento e atterrazione de gli alvei dei medesimi fiumi e insieme anco della nostra Laguna, senza alcun dubbio è il continuo disboscar con la disvegrazione e riduttione a coltura de li terreni boschivi, essendo quella terra portata à basso con furia delle acque piovane e delle nevi liquefatte.... Perciò non si permetti che, tagliato il legname, si cavino le zocche e si disvegri il terreno per zapparlo e porlo à coltura, ma si lasci continuar a pascolo e ritornar a bosco.... e divenga più lento il disfacimento delle nevi con ritardarsi per la presenza degli arbori la sùbita discesa delle acque ... ".
Famosissimo, ed esemplare come sintesi dell'intera cultura forestale e territoriale sviluppatasi sotto la dominazione veneziana, è il progetto di governo forestale e montano presentato al Consiglio dei X dai fratelli Paolini di Belluno nell'anno 1601. Vi si elencano alcuni dei principi basilari che ancora oggi sorreggono la buona selvicoltura e informano, o dovrebbero informare, la pianificazione territoriale, come la continuità della copertura forestale sufficientemente densa quale condizione essenziale per garantire la perpetuità del bosco, la distinzione tra i boschi di protezione e i boschi di produzione, l'opportunità di tagli solo occasionali in quelli di protezione confinati nella sommità dei monti, e di regolari tagli saltuari in quelli di produzione, sottostanti ai primi; e ancora, la separazione nello spazio dell'esercizio della selvicoltura da quello agricolo e pastorale, in una successione altitudinale ideale per dare equilibrio e stabile assetto fisico alle pendici montuose (L. Susmel 1965, 1994).
In alcune tavole grafiche allegate al progetto Paolini si legge: "Questa è la faccia d 'una Montagna boschiva così verdeggiante e folta, chepoca pioggia e neve può discendere al basso trattenute dagli Arbori, che il sole va pian piano risciugando col consumare anco si può dire insensibilmente quasi tutte le Nevi, e se cala al basso qualche poco d'humore, vien tosto assorbito dalle spesse radici, tronchi e foglie secche degli Arbori E se ben il bosco montuoso al suo tempo si taglia, non ne segue però l'effetto pernicioso; perché la sommità delli monti boschivi si lasciano con gli Arbori verdi che difendono per il suo uso quasi all'istesso modo, oltre che tagliando si lasciano gli arboscelli, le radici e li tronconi dalle quali in breve tempo pululano altri nuovi Arbori e il bosco presto si rinnovella. Conoscevano gli Antichi, che potevano dove serviva, il terreno coltivare, et far campi negli Monti purché nella sommità d 'essi vi fosse bosco ben folto, perché, come si vede dalla presente prospettiva non calavano tante acque al basso, e gl'istessi zappati, e pascoli si mantenevano in bonissimo stato come fanno al presente le Montagne d'Imperiali, se ben zappate, in molti luoghi senza però che s'accrescano soverchio i loro torrenti. S'abbrughiano i boschi da Contadini per ridurre i Monti nell 'essere che si vede dando fuoco alli Cespugli et all'Herbe secche per allargar li pascoli, et haver più presta, e più morbida I 'herba novella, di modo che ogni Anno sono più volte abbrughiate le Montagne di questo Sermo Dominio. Quelfuoco trasportato dal vento, da per tutto va serpendo, et allargandosi penetrando sino nelli Valloni, et alti dirupi che sono inaccessibili consuma ogni pianta novella, che dalla natura vien prodotta, et quindi nasce che le gran piogge e nevi liquefatte sendo esposte al sole, et ai sirocchi, non traendo alcun ritegno discendono con tanta furia, che portan seco il terreno e scuoprono in molti luoghi il sasso, come qui si vede ".
Anche per il taglio si davano prescrizioni, che per altro ricalcavano consuetudini e accorgimenti comuni in tutta la montagna alpina. Ad esempio si raccomandava di recidere raso terra le latifoglie. . . recider le piante d 'approfittarsi del pedale ..J, per agevolare il ricaccio di polloni robusti e ben equilibrati, mentre per le conifere, specie in prossimità del limite superiore del bosco, si doveva lasciare un ceppo alto da uno a tre piedi, ad impedire il movimento della neve. Tra gli strumenti di taglio a lungo dominò la scure, a ferro stretto e lungo e tagliente corto, mentre l'accetta a manico corto veniva impiegata solo per le operazioni di allestimento e sramatura.
La sega a doppio manico comparve solo verso la metà del 17° secolo, e portò con sé anche l'uso della mazza e dei cunei di legno duro, o di metallo, utili ad accelerare e a indirizzare la caduta dell'albero. L'esbosco si faceva guidando a mano i tronchi abbattuti, talvolta per rotolamento, ma più spesso per trascinamento.
Si usavano, e ancora si usano, i rampini e le catene. Talvolta si impiegavano i cavalli, o i muli, ma solo se la quantità di legname abbattuto ne rendeva economica la presenza. In montagna l'avvallamento fino alla strada, o al fiume, si faceva mediante risine, ovvero stretti canali di legno o di pietra entro cui si facevano scivolare i tronchi o, affastellata, la più minuta legna da ardere. La stagione migliore per l'esbosco era l'inverno, quando la neve pressata, o il ghiaccio che si otteneva spargendo di notte acqua sul fondo delle risine, rendeva più veloce e meno faticoso guidare a valle il legname.
Tra i boscaioli, accomunati da legami strettissimi dovuti alla condivisione della fatica e degli stenti, nonché al pericolo affrontato insieme, si sviluppavano linguaggi loro propri che, pur diversi da valle a valle, avevano un che di universale.
Molte volte si comunicava a distanza, dove la voce non sempre arrivava con chiarezza e la necessaria precisione; s'impiegavano allora segnali di mano e di braccia, come quelli poi codificati, nell'ottocento, dal nuovo servizio forestale Austroungarico (P. Soravia, 1885).
Al fiume operavano i menadas, ai quali spettava il compito di organizzare e di guidare la caduta dei tronchi nell'acqua, e di seguirne la fluitazione fin quando la forma e l'ampiezza dell'alveo non rendessero possibile legare le zattere e guidarle a valle, quasi sempre fino in laguna. Le zattere constavano di più ordini di taglie, cioè tronchi di quattro-sei metri di lunghezza, legati tra loro e vincolati in più elementi articolati come i vagoni di un treno. Quelle di maggiori dimensioni erano larghe fino a cinque metri e lunghe oltre venti, erano cioè composte da cinque elementi articolati; su quelli centrali venivano collocate merci e talvolta anche passeggeri. Le zattere scendevano i fiumi approfittando dei momenti di morbida o di piena moderata. Quelle che scendevano l'Adige giungevano a Chioggia; quelle che percorrevano la via della Pieve entravano in laguna all'altezza di Jesolo. Venivano quindi condotte fino a Venezia, ai due porti ad esse destinati (le Zattere e Sacca della Misericordia). La fluitazione del legname lungo l'Adige avveniva già prima del 1200; il legname cadorino prese a fluire lungo la Piave solo dopo la metà del XIII secolo, quando caddero le limitazioni imposte dal Maggior Consiglio, nel 1223, all'importazione della legna dalle montagne bellunesi. La fluitazione del legname continuò fino ai primi anni del nostro secolo. Sul finire del precedente, la via del fiume già diventava sempre più difficile da percorrere.
Prima fu la povertà e l'emigrazione a sottrarre al bosco la manodopera più capace. Poi furono le opere di sistemazione idraulica a interrompere il filo della corrente, oltre al progressivo depauperamento delle acque, derivate in gran copia per usi potabili, agricoli e industriali. Infine, ad impedire del tutto il passaggio delle taglie, furono gli imponenti sbarramenti idroelettrici con cui tutti i principali nostri fiumi vennero imbrigliati. Con lo sviluppo urbanistico il passaggio del legname divenne poi anche elemento di rischio per le case e per le persone. Così, ad esempio, il comune di Arsiero, nel 1883, non consentì il passaggio sul torrente Astico di 4.000 taglie di legname provenienti da Lastebasse.
"Le sponde del torrente, distrutte in parte dalle piene dello scorso autunno (I'alluvione del 1882 fu l'evento idrologico più intenso e luttuoso che si ricordi, ben più grave di quello del 1966), sono per il resto in condizioni cattivissime, e si teme che il passaggio del legname le danneggi ulteriormente". Cadde in disuso anche il mestiere di menadas, e le molte stue sparse lungo i torrenti, le reste, i cidoli e gli altri mirabili strumenti inventati, sperimentati e perfezionati nel corso di lunghi secoli, per condurre a valle il prezioso legname vennero dimenticati e a poco a poco distrutti dall'incuria. Le poche leggi forestali fin qui ricordate chiariscono tuttavia in maniera sufficiente i contorni tecnici e culturali della selvicoltura concepita dai Provveditori dell'Arsenale. A mano a mano che si acuivano i problemi territoriali e che si affnava l'esperienza sulla risposta del bosco agli interventi dei marangoni, dei boscaioli e dei contadini, prendeva corpo una summa organica di indicazioni tecniche e colturali che avrebbe ricevuto, alla fine del XVIII secolo, con una Terminazione datata al 1777, l'espressione più unitaria e completa. Per l'applicazione corretta di questi principi e per sancire la qualità ritenuta insuperabile della tecnica Veneziana in materia, venne istituita la prima Scuola in Architettura navale e scienza boschiva (1770). Meritano d'essere ricordati, almeno sommariamente, alcuni degli elementi di maggiore spicco di questa selvicoltura fondamentalmente pratica.
Il riconoscimento del ruolo delle matricine nei boschi cedui, legata al fatto che i Sopraintendenti e i Proweditori avevano appieno colto l'importanza della continuità della copertura del terreno e della protezione offerta ai polloni dai soggetti adulti sovrastanti (... i novellami acciò difender si possano dai venti senza perire dalle piegature troppo violente ...), questo fatto avrebbe gradualmente portato i cedui, e poi le fustaie, ad assumere la struttura disetanea che Susmel ritiene essere ottimale per i boschi di quel tipo.
- La dimensione di recidibilità fu, per i boschi quercini, primariamente legata alle necessità delI'Arsenale, mentre per quelli di conifere essa ristabilita solo in funzione della capacità di taglio delle seghe mosse dai mulini ad acqua, in grado di segare tronchi della dimensione massima di 8 piedi di volta, cioè di circa 90 cm. Nel primo caso anche questo elemento aiutò a conferire ai querceti una struttura mossa e articolata su più piani arborei, poiché, ad ogni intervento, dal bosco veniva tolta solo una parte delle piante, quelle cioè che avevano guadagnato la forma e la dimensione idonea alle funzioni richieste.
- La scelta del turno è forse la chiave di volta della cultura forestale e selvicolturale di Venezia. La terminazione del 1777, recuperando principi definiti già da almeno un secolo, prescriveva che tutti i boschi pubblici e privati fossero sottoposti a metodiche curazioni e schiarizioni, la cui cadenza fu stabilita in otto anni. In tal modo veniva univocamente sancita anche per le fustaie la necessità di interventi frequenti, ma non intensi, che consentivano cioè di trarre beneficio dal bosco senza modificarvi l'ambiente interno, assai utile allo sviluppo dei semenzali e alla armoniosa crescita delle piante che vi venivano educate. La pratica del taglio saltuario, già noto per le fustaie alpine col nome di taglio cadorino (basato però solo sulla dimensione dei fusti), con questa terminazione viene codificata in maniera assai precisa anche in termini cronologici.
- Il termine curazione, che ancora oggi vieneimpiegato nella selvicoltura naturalistica (basata sul taglio saltuario) non è da intendersi solo come taglio degli alberi maturi a svolgere la loro funzione per la Casa dell'Arsenale. Era allora un processo ben più complesso, oggi impensabile, attraverso il quale si disegnava davvero la forma di ogni singolo albero, o parte d'albero, indirizzandola verso quella ritenuta ideale al ruolo statico che avrebbe assunto nella struttura della nave. I Provveditori e i Marangoni ogni otto anni avrebbero dovuto ispezionare il bosco, controllandovi gli effetti delle passate curazioni e stabilendo ogni nuovo intervento idoneo a raggiungere l'obiettivo voluto. Si interveniva sia con la schiarizione, ovvero con il taglio degli alberi inutili, sia con potature su quelli prescelti per essere educati. "Il Piano delle schiarizioni, curazioni e recisione dei rami tanto per la coltura dei Roveri storti, quanto da Filo .... predisposto dal Sopraintendente ... sarà stampato, acciò che servir debba di regola." Esisteva cioè un Piano Stortami, finemente disegnato, in base alle cui figure e alle misure in esso riportate si compiva la scelta sul destino delle roveri.
E tutte quelle prescelte venivano bollate e registrate, ad evitare ruberie e altri delitti.
- I forestali di Venezia compresero subito l'importanza della giusta densità dei boschi sullo sviluppo formale e sulla crescita delle piante.
- "Ritrovandosi Roveri da filo si lasceranno assai folti, e fissi, mentre desiderabile essendo di questi la loro lunghezza, e grossezza, impedir si deve la troppo eccedente ramificazione delle Piante, acciocché tutto il nutrimento concorri a maggior alimento del fusto. Schiarendo e rimondando poi le piante stesse di ottennio in ottennio ... ".
Venne stabilito che la densità del bosco fosse determinata in base alla fertilità della stazione: "... nei fondi magri lasciandoli più chiari, perché non si rubino il vitale nutrimento una con l'altra ... ". Per i roveri da stortarne si stabilivano invece densità minori, per favorire la ramosità degli alberi e per privilegiare la grossezza sulla lunghezza. Essi venivano potati ad arte, avendo cura che "I tagli degli rami da separarsi praticati saranno dal disotto all'insù, onde al taglio ... non potendosi fermar l'acqua delle piogge, né altra umidità dell 'aria sulle ferite, riescano le amputazioni salutari e non pregiudizievoli alle piante stesse ". - Non venne invece compreso il significato della mescolanza delle specie all'interno del sistema forestale, quella che oggi viene detta biodiversità. Certamente era comprensibile lo sforzo d'ottenere dal bosco il maggior beneficio possibile, che era essenzialmente legato alla produzione di roveri (o di pecci per le antenne, larici per il fasciame e le fondamenta, o ancora faggi per i remi, ecc.) di buona qualità.
Ciò giustificava la selezione dei semenzali, attraverso la quale s'ottenevano consorzi fondamentalmente puri, o monospecifici.
Questa pratica valeva dunque non solo per i rovereti di pianura, ma anche per i boschi di montagna. Qui si tendeva in ogni modo ad eliminare le specie "competitrici" della picea o del larice, che spuntavano ottimi prezzi sul mercato veneziano. Così alle curazioni, oltre alle piante mature di specie pregiata, cadevano anche tutti i faggi e gli abeti, e le altre specie minori e ritenute allora diseconomiche o poco utili, mentre solo oggi ad esse viene riconosciuto un ruolo fondamentale nel mantenere la fertilità dei terreni. Sotto questa angolatura si può interpretare un documento notarile, vergato in data 1 maggio 1592, col quale i Capifamiglia della Villa di Roana, sull'Altopiano, riuniti in Adunanza Generale decidono di "... vender e alienar el boscho di fagari esistente nelle pertinentie e Comun de Roana predetto in contrada delli Pochestelle; cioè li legni de fagaro et no altro ... ". Il faggio era certamente utile e richiesto per la costruzione di utensili e per cavarne legna da ardere; la picea era invece destinata alla fabbrica o alla rifabbrica delle case, e dopo di ciò il rimanente veniva venduto oltre i confini dell'Altopiano. Attività, questa, che dava respiro all'economia dell'intera Comunità. Questa pratica, in verità, produsse non pochi guasti ai rovereti di pianura, e talvolta anche ai boschi di monte. Ricorda Susmel (1988) come nel bosco formato da più specie differenti ciascuna d'esse vada a riprodursi con maggiore frequenza sotto la chioma di una specie diversa (legge ecologica dell 'alternanza).
La riproduzione della rovere nel "letto" dei suoi stessi genitori avveniva, e avviene tuttora, con diffcoltà, o non avviene affatto.
Anche in montagna, in alcuni casi il taglio delle specie pregiate, come la picea, assunse tale intensità che nelle tagliate si insediava soltanto il faggio. Ricorda Di Berenger che in Cadore, alla fine del XVI secolo, per questo motivo il mercato delle taglie d'abete rosso era quasi cessato,
mentre prendeva piede quello delle borre di faggio. Però nel volgere di due secoli, per il taglio intenso delle faggete, e per il medesimo principio dell'alternanza, quei boschi tornarono ad essere dominati dall'abete.
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I Catastici
Certamente unico nel quadro della gestione dei boschi europei è il provvedimento che il Consiglio dei X prese a partire dal 1489, di censire, catasticare, i boschi di rovere nello Stato da Tera. Si cominciò coi boschi pubblici della Patria del Friuli. In un apposito libro un Procuratore f scale, Tommaso Turian, avrebbe dovuto riportare i dati necessari a conoscere la consistenza e il valore del patrimonio boschivo disponibile alla Serenissima. In quell'anno vennero catasticati circa 500 ettari di rovereti, ripartiti tra una trentina di boschi, ma l'impresa si ripeté molte altre volte fino all'ultimo censimento, compiuto verso la metà del 1700, sempre più perfezionandosi nella tecnica e nel significato selvicolturale. Una cinquantina d'anni più tardi, il Maggior Consiglio commissionò al Proweditorato sopra le legne un nuovo catasto dei rovereti, del Mestrino e dell'Asolano, per complessivi 1.500 ettari. Fu deciso che nei registri si riportasse la descrizione dei confini, la misura del perimetro e della superficie dei boschi e che si provvedesse, contestualmente, a recintare i fondi e a circondarli con fossi scoladori assai utili anche a impedire furti di legname e svegri abusivi. In tal modo, grazie al catasto e all'univoca individuazione dei confini, poteva essere rigorosamente applicata la legge che proibiva i tagli, se non espressamente autorizzati, e il danneggiamento degli alberi. Il più completo e perfezionato catasto forestale fu quello commissionato a Nicolò Surian, Proto dell'Arsenale, cui venne affidato il compito di battere, di Villa in Villa, tutte le province venete, esclusa Verona, e quelle del Friuli, per registrare tutti i rovereti pubblici e privati e tutti i bei roveri isolati, operando il confronto coi dati raccolti da Angelo Maris de Prioli, autore del catasto di trent'anni prima.
Si ordinava a Surian: "Volemo che nel tuo catastico debba lasar sempre una carta vacua all'incontro in quella che sarà scritta di modo che si possa di tempo in tempo, si come si andrà servendo l'Arsenal di essi roveri, farne nota per poter veder in ogni tempo quelli che fussero stati
tagliati senza licentia". Il catasticatore doveva quindi bollare i roveri utili all'Arsenale, mentre quelli provvisti di particolari forme, e pertanto preziosi, dovevano essere bollati in due punti, per rendere più ardui eventuali tentativi di frode.
Nicolò Surian si impegnò con una squadra di almeno venti operatori), tra cui un cancelliere, una guardia, sei marangoni e molti manovali.
Nel giro di alcuni anni portò a compimento il suo compito, lasciandoci un compendio della qualità dei boschi della pianura veneta d'una precisione che non venne più eguagliata fino ai giorni nostri. Come appare dall'esempio riportato, il catasticatore non si limitò a registrare dati di consistenza numerica delle roveri), ma provvide anche ad una vera indagine stazionale, come si direbbe ora nei piani di assestamento, suggerendo gli interventi che riteneva più idonei a perseguire il miglioramento dei boschi, ovvero per renderli più produttivi.
Esempio di Catastico redatto da Surian, nella Trevigiana, l'anno 1569.
Nella presente Villa il Comun ha un bosco de circuito de 1.258 piedi che sono campi n. 16 e 20 piedi 1/2 entro si trovano roveri n. 662 tra semenza lifino di 4 piedi e 1/2 de volta in cca. Bollati 498. Oltre di questi si trovano nel bosco molti spini. Ilfondo è di bon terren, ma sottoposto alle acque in gran parte, et non è lontan dalla Livenza più de un quarto de miglio. Corre detto bosco per Maistro pertiche 26.... e confina con il bosco de Messer Franco Michielotti de Sala, qual bosco par congiunto col sopraddetto comun e per aver delle soprascritte qualità di fondo si lassa unito ... Le qualità de i roveri che sono nel bosco delle zone de S. Zuanne.Alcuni dei boschi ritenuti di maggior pregio vennero catasticati molte volte fino alla caduta della Serenissima. Molti altri, invece, per vari motivi vennero censiti solo una o due volte; è il caso dei rovereti del vicentino, che forse non vennero ritenuti adeguati alle esigenze dell'Arsenale, almeno ai pari delle peccete dell'Altopiano. In generale, dal confronto tra i diversi catastici si coglie il successo delle scelte selvicolturali di Venezia. Pur diminuendo progressivamente la dimensione dei boschi e il loro numero, a causa del malcostume o delle necessità dei Comuni e dei privati, in quelli restanti migliorarono notevolmente la qualità strutturale e le dimensioni degli alberi, non pochi dei quali arrivarono a dimensioni veramente importanti, ben oltre i 9 piedi di volta.
Nella Provincia Vicentina venne "catasticata" una dozzina di boschi interessanti per l'Arsenale; Surian, nel 1569, censì quelli delle Ville di Caldogno, Dueville, Montecchio Precalcino, Camisano, ed altri minori. Solo pochi ebbero la sorte d'essere catasticati più volte successivamente; I'ultima catasticazione che interessò la Provincia fu quella guidata da Contarini, nel 1740, che riguardò le Ville di Costozza, Montegalda e Quartesolo. Quando la Serenissima s'arrese ai francesi, e ancor più quando il governo delle terre venete passò all'Impero d'Austria, gran parte degli sforzi colturali e culturali dei Proweditori sopra le legne venne dimenticata. In pochi anni, come scrisse Susmel, dei rovereti di pianura della Serenissima non rimase più nulla, o quasi. Pochi lembi di bosco, a mezzo tra il ceduo e l'altofusto, una dozzina in tutto, restano oggi a dare testimonianza di cosa potesse essere il paesaggio forestale della pianura veneta solo duecentocinquant'anni fa. Certamente anche prima del collasso finale le severe leggi di Venezia venivano talvolta, se non spesso, ignorate, e in tal caso i buoni principi di gestione dei boschi restavano lettera morta. Racconta Angelo Feriani nei suoi ricordi di Montegalda (1928) che a Colzé c'era un bosco di roveri, esteso su circa 200 campi, di cui si ha menzione fin dal 1306. Nelle carte di famiglia egli ritrovò un contratto di affittanza datato all'aprile del 1748, in cui si recita: "... colla presente scrittura privata .. (si dà) bosco a tagliare e ridurre in sgreve (ciocchi), passetti (tondame di paleria) e fascine, il tutto ai Signori col patto espresso che essi debbano tutte ziese per loro conto, ed il ricavato di tutta la legna venduta sarà diviso per giusta metà ... ".
Nell'aprile del 1806 il Conservatore delle miniere e dei boschi della Provincia Vicentina scrive al Sindaco e ai governatori del Comune di Colzé "Necessaria riconoscendosi la destinazione di un guardiano per la custodia dei boschi di codesto Comune, restano incaricati codesti governatori a proporre immediatamente un probo ed onesto soggetto, che sarà da questo Ufficio eletto a tal carica".
E forse un segno che il taglio del bosco di Colzé eseguito nel 1748 non ne aveva compromesso, almeno totalmente, le capacità di crescita Ma nell'ottobre del 1824 don Filippo Pietrobelli, Parroco di Colzé, elencando le entrate inerenti il suo ufficio, annotava "quartese per tutta la villa, eccettuato cento campi di bosco svegrato"
Da allora del bosco di Colzé resta solo memoria nella toponomastica; anche delle poche roveri isolate e ceffate, sparse lungo i fossi, secondo i ricordi di Feriani, non rimane più traccia.
Si ringraziano i proff. Giancarlo Della Fontana e Raffaele Cavalli e i dott. Magda Meneghin, Ettore Sartori e Daniele Zovi per aver suggerito alcuni importanti riferimenti storici.
(La prima parte dell 'articolo è stata pubblicata sul precedente numero 23 di Parchi)
* Dipartimento Territorio e Sistemi agroforestali AGRIPOLIS, Università degli Studi di Padova |