PARCHI | ||
Rivista della Federazione Italiana Parchi e delle Riserve Naturali NUMERO 25 - OTTOBRE 1998 |
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Tipologia dei boschi: uno strumento per l'interpretazione e la gestione, su basi ecologiche, dei sistemi forestali. di Augusto Zanella |
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Si sa che la nostra mente, per intendere e ricordare, ha bisogno di scomporre e di classificare gli oggetti complessi; a questa esigenza di analisi "merologica", o per parti, si informa anche lo studio delle tipologie forestali, in quanto, per capire la foresta il selvicoltore ha bisogno di coglierne l'eterogeneità, e di ricondurre le differenze ai possibili motivi. Cogliendo l'eterogeneità delle foreste, si dovrebbe poi poter interpretare ogni bosco con la propria specificità. Una foresta dove, ad esempio, dominano faggio ed abete bianco deve essere quindi collocata in una categoria diversa di un'altra dove si trovi il faggio misto, per esempio, a carpino nero. A muovere l'esigenza di produrre una rassegna di tipologie forestali vi è certamente un motivo scientifico, e la curiosità propria di ogni studioso di capire e interpretare l'assenza della natura e i principi su cui si basano i processi naturali. Nel caso delle tipologie forestali vi è però anche un motivo tecnico che si riconduca alla necessità, avvertita da ogni selvicoltore, di gestire i boschi che gli sono affidati in cura con i criteri più appropriati sul piano dell'economia e, soprattutto dell'ecologia. Oggi tutti sanno che domina una concezione naturalistica della selvicoltura. E un attributo importante che si applica ad un sapere e ad una pratica che fino a qualche lustro fa era considerata di mera rapina. Ma i selvicoltori dei nostri giorni, almeno nel nostro Paese, hanno imparato a vedere il bosco come ecosistema e a intervenirvi nel rispetto dei naturali dinamismi. Ora si preferisce osservare, e lasciare in larga misura alla sensibilità del tecnico, e alla sua capacità pratica, che viene dall'esperienza e dall'osservazione, la scelta puntuale, luogo per luogo, della qualità e della quantità dell'intervento. Se ciò si fa fuori dei parchi, a maggior ragione al tecnico forestale che opera all'interno delle aree protette si impone questo tipo di sensibilità ecologica. A costruirla può dunque molto giovare la conoscenza dei principi su cui si basano le tipologie forestali. In linea di principio, i possibili metodi impiegabili per distinguere tipologie forestali si dovrebbero ricondurre ai principi che permettono di stabilire la diversità tra ecosistemi, ovvero di comprendere la struttura ecologica del paesaggio. Da lungo tempo sono impiegate nella tecnica di interpretazione territoriale le fasce fito-climatiche di Pavari (Pavari A., 1916) ed i cingoli di Schmid-Susmel (Susmel L., 1980). A seconda dell'appartenenza a queste suddivisioni territoriali, le foreste si possono attribuire a diverse categorie, la cui impronta fisionomica viene prevalentemente ricondotta all'azione limitante di alcuni fattori climatici, e solo talvolta del suolo. E tuttavia appurato che per il forestale tale classificazione manca di utili dettagli. Infatti, tutte le foreste dove, ad esempio, il faggio è dominante appartengono alla fascia del Fagetum di Pavari oppure al cingolo del Fagus-Abies di Schmid-Susmel. Certo, lavorando sui parametri climatici, Pavari ha individuato alcune sottozone, così come studiando i popolamenti reali Susmel ha ritrovato nel cingolo F. A. diverse fitocenosi reali più o meno antropizzate, alle quali egli ha attribuito diverso significato colturale. Pur essendo state a lungo impiegate come strumenti di interpretazione sistemica, le chiavi di lettura vegetazionale offerte da Pavari e da Schimd vengono oggi considerate alla stregua di semplici, ma efficaci, classificatori del paesaggio forestale. Oggi si può andare più lontano, anche nella definizione del paesaggio e molto numerose sono le tecniche che permettono di arrivare a ottimi risultati. Diciamo, per riassumerle in poche parole, che tutte sono nate come estensione operativa delle indagini di tipo fitosociologico per poi ritrovare una loro autonomia in fase di applicazione alla pratica selvicolturale. Poiché la foresta è un ecosistema, per prima cosa bisogna definire la più opportuna scala di osservazione (Becker M., 1988). Ma, in prima istanza, si deve anche ritenere che ai forestali serva una scala di osservazione che permetta di far combaciare le sotto-categorie di foresta alle comprese dell'assestamento forestale (Del Favero R., 1992). Come è noto, la compresa è una unità di gestione che comprende più aree di bosco sottoposte al medesimo tipo di governo, e mirate al medesimo obiettivo colturale. Applicando il metodo fitosociologico puro si incontra un primo scoglio, poiché la compresa dei forestali può essere occupata da vegetazione appartenente ad una sola associazione (ma anche solo da una sotto-associazione, oppure da una sua variante...) oppure da un mosaico di associazioni vegetali (Barthes A., 1989). Il fitosociologo lavora ad una scala che è quasi indipendente dal contesto selvicolturale. Si accontenta di procedere al rilevamento nel "suo" areale minimo, riferendosi al concetto di curva area-specie. In Italia, l'approccio tipologico è stato ben definito da Del Favero (Del Favero R., 1992). Una tipologia forestale serve innanzitutto ai forestali; ha l'obiettivo di classificare i popolamenti reali così come li vede e li interpreta il forestale. Il tipologo forestale deve scegliere la scala di osservazioni più adatta agli scopi selvicolturali, e non potrà essere né troppo fine (intraparticella), né troppo ampia (zona fitoclimatica): deve cioè individuare quella che più gli è utile alla definizione delle comprese assestamentali, che hanno da rispondere innanzitutto a scopi di economicità gestionale. Poiché il tipologo deve classificare degli ecosistemi, ne dovrà considerare i diversi fondamentali componenti: clima, roccia madre, vegetazione e suolo. Definisce così più tipi forestali tenendo d'occhio tutti questi caratteri e cercando di inquadrare l'omogeneità nell'ottica dei principi selvicolturali (Dume G., 1998). Così l'omogeneità ecologica che caratterizza il tipo forestale si ritrova anche nella compresa forestale, che è oggetto dell'assestamento. L'appartenenza fitosociologica diventa un parametro secondario rispetto a quelli ecologico e selvicolturale (Rameau J.C., 1988). Gli aspetti fitosociologici, aiutando a riconoscere i tipi forestali, permettono di confrontare territori anche lontani tra loro. Un secondo problema che ogni tipologo forestale deve affrontare è quello dell'antropizzazione dei popolamenti attuali (Del Favero R., 1992; Rameau J.C., 1993). Le foreste subiscono, ed hanno subito, l'azione dell'uomo ed è illusorio credere di riuscire a classificarle come se quest'azione non fosse mai avvenuta; i concetti di vegetazione potenziale e quelli che ci sono sviluppati intorno all'idea di climax, in tipologia forestale restano in subordine, dovendo il selvicoltore, a differenza del botanico, confrontarsi con popolamenti reali e con concreti problemi di gestione. Lucio Susmel (Susmel L., 1980) ha percorso questa strada fino in fondo, costruendo un modello ideale di foresta e dando peso operativo a nove parametri che qualificano l'ecosistema. Le direttive colturali (o culturali?) che permettono di orientare l'evoluzione della foresta reale verso tale modello ideale (cioè normale) appartengono alla selvicoltura naturalistica t`ondata da Susmel e tanto cara a gran parte dei forestali italiani.
Infatti il fattore "tempo" instancabilmente opera cambiamenti. Esistono reazioni chimiche e fisiche irreversibili, e forze dispositive che impediscono il ritorno alle posizioni di partenza (Perigogine I., Stengers I., 1996). Ci si chiede oggi se tutto ciò che accade non sia almeno in parte il frutto di queste forze dissipative e quindi, ci si chiede se non sia irreversibile. E per questo che invecchiamo anche se controvoglia e, con noi, ineluttabilmente invecchia (cioè evolve) il mondo intero. Anche nello studio della vegetazione niente ha senso al di fuori dell'ottica dinamica. Il concetto di climax ha fatto il suo tempo. Molto più seguita oggi è la Scuola olandese di Henk Koop (Koop H., 1989) e Roelof A. A. Oldeman (Oldeman R. A.A., 1990) basata sullo sviluppo dinamico del bosco partendo da un nucleo di rinnovazione della foresta (l'eco-unit). In foreste "naturali", il risultato è un mosaico boscato (il sylvatic mosaic) di eco-units sparse a caso e di età diverse. L'intera foresta è di fatto un sistema composto da sotto-sistemi (gli eco-units), costituiti da sotto-sistemi (ecoidi), contenenti a loro volta altri sotto-sistemi (organi-ambiente, cellule-ambiente, macromolecole-ambiente) Una eguale immagine può essere disegnata salendo verso l'alto, ovvero verso entità sempre più complesse: sistemi più piccoli (il sylvatic mosaic) contenuti in altri più grandi (il fianco di una montagna, una regione climatica...). E un dramma per tutti i pianificatori, che sono chiamati a disegnare gli spazi urbani, a dimensionare le infrastrutture e gli spazi destinati alle attività umane sulla base di previsioni sugli andamenti dell'economia e di quelli della climatica dinamica e della crescita demografica. Anche per il forestale, in una certa misura, si pone l'esigenza di prevedere il futuro, soprattutto la crescita del sistema in ragione delle molte variabili, in larga parte naturali, che vi influiscono. Se gli eventi naturali hanno un loro orizzonte di prevedibilità, allora vi sono pure dei limiti nell'individuazione dello spazio entro cui l'evento avviene. Conseguenza di questo fatto è che i tipi forestali non possono avere limiti spaziali ben definiti. L'orizzonte di prevedibilità è tanto più lontano quanto più precisamente sono note le condizioni del momento presente e quanto più è lineare la dipendenza degli eventi della variabile "tempo" (Reeves H.,1995a). Supponiamo di avere un orologio che ci dia l'ora con una precisione di un secondo al giorno e che tale errore aumenti in modo lineare con il passare dei giorni. Trascorse due settimane, dovremo andare in stazione almeno un quarto d'ora prima della partenza segnata in "orario" per essere sicuri di prendere il treno; ma potremmo doverlo attendere fino a trenta minuti, se quello è in orario. Dopo due mesi la precisione è diventata di un'ora in più o in meno. Ma le leggi che regolano gli eventi naturali generalmente non sono dipendenti linearmente dal tempo. L'altezza di un albero, per esempio, ha un andamento sinusoidale con l'età. I prodotti del metabolismo cellulare crescono spesso con la stessa modalità grazie al controllo enzimatico e all'effetto stimolante o inibente del prodotto stesso. Supponiamo dunque che l'imprecisione del nostro orologio aumenti in modo esponenziale (come la prima parte della curva sinusoidale di cui abbiamo appena parlato), raddoppiando ogni giorno: un secondo dopo il primo giorno, due secondi dopo il secondo, quattro dopo il terzo, e così via. Dopo soli 16 giorni la precisione sarà di più o meno 12 ore. Anche se riuscissimo ad aumentare la precisione dell'orologio fino a più o meno un milionesimo di secondo al giorno, dopo soli 36 giorni l'errore sarà ancora di più o meno 12 ore. Così come esistono dei limiti per la velocità (i 300 mila km al secondo della luce) e per la temperatura (i meno 273° K), una frazione di tempo inferiore a 10 alla meno 43 secondi, nel nostro campo gravitazionale, non ha senso alla luce della fisica dei quants (Reeves H., 1995a). Anche utilizzando un orologio di questa precisione estrema, se l'errore si raddoppia ogni giorno, dopo soli tre mesi leggeremo l'ora con una incertezza di più o meno dodici ore. Un altro esempio che ci può fare riflettere è quello della piccola goccia di inchiostro che si diluisce in un bicchiere d'acqua (Reeves H., 1995b). Si pensava che bastasse conoscere la posizione e la velocità di ogni molecola di inchiostro diluito nel bicchiere per ricostruire la goccia intera al momento dell'impatto, invertendo la freccia del tempo e impiegando un potentissimo calcolatore. Dopo pochissimo tempo dal momento di contatto della goccia di inchiostro con l'acqua limpida del bicchiere, il calcolatore però perde le tracce della goccia intera. L'imprecisione non sta nelle formule del moto, ma nell'impossibilità di conoscere l'azione nell'infimo particolare. La materia al di sotto di un certo limite non esiste, almeno nel senso che i fisici attribuiscono oggi alla materia (Ortoli J.P., Pharabod F., 1998). Alla luce di questi esempi, immaginiamo l'infinità di reazioni che regolano la vita sul nostro pianeta. Esse sono complesse ma non basta. Il trascorrere del tempo permette lo stabilirsi di legami intrecciati. Ogni reazione ha un suo modo di esistere nel tempo (evolve), una legge che lega reagenti e prodotti e che tiene conto di una serie di controlli retroattivi. Il tutto cambia nel tempo. Torniamo ai nostri boschi e pensiamo ad una regione del pianeta, poi ad una montagna ed infine ad un tipo forestale (o a un sylvatic mosaic di Oldeman) che si sviluppa sul fianco di questa. Ecco il mondo reale alla scala del forestale: un intreccio di materia inerte e di materia vivente che riceve energia dall'esterno e che evolve (invecchia) grazie a un'infinità di reazioni generalmente non lineari nel tempo. Dobbiamo convenire che il carattere principale di ogni parte di natura è la complessità; da essa dipende l'impossibilità di conoscere il divenire dei sistemi naturali. Noi vorremmo arginare l'intreccio di reazioni all'interno di "zone ecologicamente omogenee", sperando di intuire un modello di funzionamento univoco per zona.
Limite spaziale: le barriere montuose naturali, le quali disegnano i confini della regione alpina orientale. La "scatola" regionale è rimasta aperta verso Sud per la presenza del grande Lago di Garda, che sconfina nella Pianura Padana. Le faggete di quest'area si devono quindi interpretare come terre di conquista per una vegetazione arrivata da una porta ancora aperta su una situazione climatica avente carattere quasi mediterraneo. Il faggio occupa attualmente una fascia situata tra i 500 ed i 1.500 metri di altitudine sulle pareti più o meno inclinate del perimetro regionale. A. faggete xero-termofile (alleanza: Cephalanthero-Fagion) B: faggete mesofile (alleanza Fagion o Eu-Fagion). C: Faggete acidofile (alleanza Luzolo-Fagion). All'interno dell'unità xero-termofila: All'interno dell'unità acidofila: Come si vede il lavoro di ripartizione e di classificazione sempre più precisa dei boschi, nel caso le faggete, si basa sull'individuazione di una sotto unità tipica e di altre in transizione verso le unità diverse e di ordine superiore. Il principio ritenuto valido per quest'area si informa all'ipotesi che la diversità tra le sotto-unità possa trovare riscontro a livello di suolo e/o di humus. Così si sono distinte, per esempio, tre sotto-unità mesofile, quella centrale e tipica, quella di trasformazione all'unità termo-xerofila e quella di transizione all'unità acidofila. A questo punto ci chiediamo: è utile individuare altre unità di rango inferiore nella struttura del paesaggio forestale e perché?
Tipo 6, faggeta montana dei substrati silicatici: faggio + betulla + sorbo degli uccellatori + abete rosso + larice + mirtilli + poche altre specie delle peccete; Tipo 7, faggeta termofila dei substrati silicatici: faggio + castagno + rovere + ginepro + altre specie dell'alleanza del Quercion robori petreae.
Un tipo forestale = un sito con dati caratteri geomorfologici e con un tipo di clima + un tipo di vegetazione + un tipo di suolo - humus (+ un tipo di zoocenosi). * Dipartimento Territorio e Sistemi Agro Forestali Facoltà di Agraria, Università di Padova 35020 Legnaro Agripolis
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