PARCHI | ||
Rivista della Federazione Italiana Parchi e delle Riserve Naturali NUMERO 26 - FEBBRAIO 1999 |
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Foreste e sviluppo sostenibile: qualche elemento di cultura ecologica e di tecnica selvicolturale a confronto Franco Viola * |
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Se dovessi suggerire qual è il più importante dei cambiamenti cui sono stato testimone, segnalarei il fatto che rispetto ai primi anni '50 oggi si vive (apparentemente) meglio e più a lungo. Lo conferma l'OMS: negli ultimi 50 anni l'attesa di vita è cresciuta (nel mondo intero) da 47 a 64 anni. Il prezzo pagato per questa crescita demografica e di benessere è il degrado delle risorse del pianeta. Nello stesso periodo si è infatti triplicato il consumo dei cereali e quello del legname, il consumo della carta è sestuplicato, quello dei combustibili forse è quadruplicato, come la concentrazione degli inquinanti nell'aria e nell'acqua, per quanto questi ultimi dati possano avere significato estrapolandoli a tutto il pianeta. Forse anche per questi motivi sono cambiate alcune posizioni culturali della gente, che sempre più spesso dà testimonianza di attenzione e di sensibilità verso la propria terra e segni di apprensione per un futuro che pare non più essere controllabile con le tecnologie che per questo abbiamo sviluppato. Ci sono molti segni di questo cambiamento, per mia formazione farò solo riferimento alle foreste, che un po' ovunque, e non solo a casa nostra, sono a poco a poco diventate simbolo della natura intera. E confonderò ecologia con economia, nella speranza che un po' dell' autorevolezza di questa disciplina si travasi in quell'altra. Ho ben poche speranze che ciò avvenga, anzi ho validi motivi di pessimismo. Ad esempio, recentemente, a Venezia, si è tenuto il secondo Congresso nazionale di selvicoltura, per dare testimonianza, a cinquant'anni dal primo, dei buoni risultati conseguiti dai forestali italiani nella gestione dei boschi loro affidati. Si è a lungo discusso di selvicoltura naturalistica, e di gestione sostenibile delle risorse forestali, che per molti di noi sono emblema di tutta la natura e per altri sono attesa di reddito o speranza di poter ancora vivere nella propria terra, soprattutto in montagna. Contemporaneamente a quello dei forestali si teneva un congresso degli economisti ambientalisti, al quale è andata tutta l'attenzione della stampa, anche quando essi hanno trattato di natura e di foreste. Si è avuta ulteriore conferma che a casa nostra vengono spesso ignorate anche le più valide realizzazioni, come quelle che ai forestali italiani vengono riconosciute e un po' invidiate in tutto il mondo e che sono frutto di un'esperienza maturata in lunghi decenni di studio e di osservazione dei processi naturali. Mentre altrove si comincia solo Oggi a sperimentare i principi di una selvicoltura fondata sulla conoscenza dei meccanismi ecosistemici, da almeno mezzo secolo, soprattutto qui nel Veneto, si stanno valutando i risultati di sperimentazioni che sono ormai antiche. Ignorando che da noi da anni si tratta sperimentalmente di gestione sostenibile delle risorse naturali, si finisce con l'esaltare i principi culturali che in altre parti del mondo stanno fermentando. Qualche esempio. Nel 1992, al secondo convegno di Ecological Economics, a Stoccolma, William Rees cominciava il suo intervento con una provocazione: "Oltre a questo in cui viviamo, supponiamo di poter disporre di un altro pianeta...". Qualche anno dopo, nel 1996, veniva pubblicato, anche in italiano, un suo volume, "Impronta ecologica", che oggi è un best seller della cultura ambientalista. Vi si prospetta il rischio del collasso del pianeta a causa del consumo delle risorse naturali. Il messaggio è chiaro e ben documentato, ma da molti viene rifiutato a causa del sapore "integralista" che da sempre mina alla radice ogni ragionamento sulle possibili catastrofi ecologiche. Di ben altro spessore pare invece il messaggio che nel maggio 1997 Robert Costanza, presidente di International Society for Ecological Economics e fondatore, con Odum e Daly, della teoria dello sviluppo sostenibile, mandava dalle pagine di Nature. Assieme a una dozzina d'altri firmatari, di diversissima formazione scientifica. Costanza provava a dimostrare come i servizi con cui l'ambiente contribuisce alla ricchezza dell'intera umanità, valgano ogni anno circa 33 trilioni di dollari, mentre il prodotto globale lordo delle attività umane ammonta annualmente "soltanto" a 18 trilioni di dollari. Il degrado del pianeta è dunque una perdita netta di capitale, capace di rendere ridicolo ogni incremento (per altro virtuale) del Pil complessivo. Le foreste, in questo contesto, sono per molti motivi tra gli elementi cardinali delle valutazioni proposte da Costanza. Il fisico Enzo Tiezzi, contrapponendo alcuni principi di termodinamica ad altri d'economia, osserva come "il tempo economico" ("il tempo è denaro"), che misura il progresso con la velocità con cui si produce ricchezza, ovvero si consumano le risorse della natura, si scontri con il "tempo entropico". Quanto più velocemente si consumano l'energia o le risorse disponibili del pianeta, tanto meno ci resta da vivere.
Di qui vengono le due accezioni economiche di sviluppo sostenibile proposte da Daly, che ritengo assolutamente accettabili anche in ecologia e nella gestione tecnica delle risorse naturali:
In sintesi, secondo Daly, le capacità di rigenerazione e di assorbimento devono essere considerate come capitale naturale, e il fallimento nel trattare queste capacità deve essere inteso come consumo di capitale, che è il primo e il più importante segno di sviluppo non sostenibile. In realtà si stima come solo negli anni '80 nella nostra regione sia stato abbandonato circa il 20% dei coltivi montani, soprattutto pascoli e prato-pascoli. Metà di questa area è stata destinata a diverse forme di urbanizzazione. Il resto fu "recuperato" dalle foreste. In quello stesso decennio, circa il 10% dei boschi fu lasciato alla naturale evoluzione. Inoltre, una parte non modesta dei popolamenti sottoposti a governo ceduo ha preso la via di una spontanea conversione in boschi d'alto fusto, certamente positiva se analizzata in base ai valori naturalistici guadagnati dai sistemi. Vi è tuttavia il rischio che questi nuovi popolamenti, organizzati su di un pregresso e differente disegno colturale, manifestino segni di improvvisa decrepitezza, diventando sede di imponenti pullulazione di patogeni difficilmente controllabili, oppure luogo di accentuata fragilità meteorica e idrologica. Né si può dimenticare che in queste condizioni si ha lo sviluppo di imponenti quantità di necromassa, che possono diventare rischiose esche per lo sviluppo di incendi. Nel recente passato, destinare il bosco a produzioni "immateriali" è stato spesso una scelta quasi obbligata. Vari motivi, sociali e occupazionali, hanno reso il controllo del territorio e la gestione corrente di quello forestale operazioni antieconomiche, talvolta improponibili, nonostante il fatto che da ogni parte si gridasse al rischio idrogeologico e si chiedessero interventi continui e attivi di presidio territoriale in area montana. Dopo l'alluvione del 1966 si discusse a lungo se affidare alla buona selvicoltura, oltre che alle imponenti opere d'ingegneria idraulica, la regimazione delle piene, il controllo e la mitigazione della vulnerabilità del territorio. Ancora oggi, dopo trent'anni, l'impiego della selvicoltura come strumento di difesa dei versanti viene relegato tra i buoni principi della pianificazione territoriale, che a tutti pare non più sufficiente a contrastare il crescente degrado generato dalla crescita economica e dal disordinato sviluppo dell'urbs. Ciò accade non solo a casa nostra, ma anche in tutto il resto del Pianeta. Se da noi il bosco avanza occupando, soprattutto in montagna, spazi che un tempo erano destinati all'agricoltura, altrove domina il degrado. Vorrei proporre qualche spunto di ragionamento per valutare se si tratti di vicende che non influiscono sulle nostre scelte di sviluppo sostenibile. Si calcola che oggi le foreste occupino ancora un quarto della superficie del globo, ovvero metà dell'originaria superficie che si stima occupassero agli albori della nostra "civiltà". Ogni anno se ne taglia per circa 10 milioni di ettari, soprattutto nell'area tropicale dove la "deforestazione totale" cresce al ritmo di 1% annuo. Si tratta tuttavia di dati assolutamente incerti, poiché il mercato "legale" del legname, che ammonta a 115 miliardi di dollari, una delle principali voci del commercio planetario, risulta per oltre 90% collegato alla selvicoltura delle foreste temperate e microterme. Il degrado reale delle altre foreste è conseguenza, in larga misura, della mancanza di selvicoltura e di pratica applicazione di buone regole colturali. Worldwatch Institute ha ripetutamente segnalato, negli ultimi otto anni, le ragioni di questo degrado e le conseguenze, spesso drammatiche, che si collegano all'uso delle foreste non sorretto da valide tecniche di gestione. Vale la pena di ricordarne almeno alcune.
Alla mancanza di legna si supplisce correntemente con lo sterco bovino. Ma altrettanto grave è l'erosione eolica, che è conseguenza anche delle modificazioni climatiche; nella fascia intertropicale dell'Africa, un tempo densamente forestata, un terzo delle superfici agricole è stato abbandonato in seguito alla perdita del suolo per erosione. Il medesimo destino è stato subito in quindici anni dal Kazakhstan, un tempo granaio dell'ex URSS. Come è stato detto, molti dei Paesi che un tempo erano grandi esportatori di legname hanno così oggi perduto rendita e capitale. Ciò accade prevalentemente nella fascia calda del pianeta ma anche nelle fasce temperate e in quelle fredde, soprattutto boreali, si taglia intensamente per far fronte alle carenze di denaro necessario a sostenere le importazioni. Si calcola che in Siberia si disboschino annualmente 250-300.000 ettari di foreste di conifere. E ancora poca cosa nello sconfinato mare verde, e disabitato, del grande nord. Ma questi dati dovrebbero indurci a qualche considerazione sulla bontà delle nostre scelte circa l'uso delle risorse naturali di cui disponiamo. La colpa del consumo del capitale naturale in gran parte dell'area tropicale e povera del pianeta è infatti da imputare ai paesi ricchi, che risparmiano le foreste di casa loro e acquistano a basso prezzo il legno altrui. In verità anche alcuni paesi industrializzati danno fondo alle loro riserve forestali; è il caso, ad esempio, del Canada, la cui superficie boscata cala, ogni anno, di 200.000 ettari. Gli altri paesi ricchi, salvo poche eccezioni, importano legname in gran copia. E una scelta che dà buoni risultati sul piano ambientale, almeno su scala locale, ma che forse costerà l'insostenibilità dell'uso del bosco a livello planetario. Riproducendo per il nostro Paese i calcoli d'impronta ecologica proposti da William Rees, si deduce che oggi noi consumiamo risorse della Terra in misura quintupla rispetto a quella che ci spetta in ragione della superficie del nostro paese. In particolare l'italiano medio richiede 3.11 ettari di sistemi produttivi, di cui 2.2 terrestri e 0.9 acquatici. Quell'italiano oggi dispone solo di 0.44 ettari di sistemi terrestri e avrebbe bisogno di l . l ettari di ottime foreste, sempre in crescita, solo per poter smaltire le sette tonnellate di anidride carbonica che ogni anno immette in atmo- sfera per il consumo di combustibili fossili di cui egli è responsabile. Altri 0.23 ettari di foreste sono necessari a soddisfare il nostro fabbisogno individuale di biomassa legnosa. Il fatto che non esistano, a livello planetario, sistemi ecologici destinati all'abbattimento delle emissioni carboniche fa sì che i consumi energetici vengano oggi pagati soprattutto in termini di instabilità del clima, ovvero in dilapidazione del "capitale climatico" (Paolo Lombardi, 1996). Stando a questi dati saremmo dunque chiamati a importanti decisioni che coinvolgono non solo le attuali tendenze d'uso del territorio e il consumo del suo capitale naturale, ma anche scelte economiche, sociali ed etiche di fondo. In tale contesto, e limitandomi al solo aspetto della pianificazione, mi preoccupa il fatto che quasi mai in passato vi sia stata sintonia tra i diversi strumenti di programmazione economica e territoriale che direttamente o indirettamente coinvolgono i boschi. I buoni principi declamati e sostenuti nelle premesse dei piani territoriali di rango regionale e provinciale non di rado vennero poi dimenticati negli strumenti d'attuazione. A farne le spese in larga misura è stata la foresta, il più delle volte interpretata dai pianificatori, d'estrazione urbanistica, come spazio complementare all'abitato, come polmone d'espansione per le infrastrutture e per i sistemi produttivi, come terra di conquista per attività economiche quasi mai compatibili coi delicati equilibri, non solo biologici, maturati nel territorio boscato. E ciò, nonostante che da cinquant'anni si parli di ecologia, di ecosistemi forestali e di selvicoltura naturalistica, grazie anche alle buone sperimentazioni che Susmel avviò in quegli anni in alcuni distretti del Veneto e del Trentino. Ancora oggi, e anche nelle Regioni di più lunga e qualificata tradizione forestale, la pianificazione rivolta al bosco pare culturalmente subalterna a quella urbanistica, di cui finisce comunque per patire le scelte di fondo, sempre mirate a produrre ricchezza o a rendere recettivo il territorio verso i sistemi capaci di generare nuovo benessere. In passato il forestale ha avuto a disposizione lo strumento dei vincoli, col quale ha tentato di fare opposizione a scelte territoriali improprie. Sarebbe meglio non dover dare ragione tecnica all' opposizione, quanto piuttosto avere a priori la giustificazione tecnica di una scelta che influisce non solo sugli assetti d'economia forestale d'una Regione, ma anche sulla sua stabilità fisica o sulla qualità biologica paesaggistica e ambientale. Ad esempio, da una decina d'anni, è al lavoro una commissione internazionale per lo studio dei cambiamenti climatici (IPCC, filiazione della Organizzazione Meteologica Mondiale, WMO, e del Programma Ambiente delle Nazioni Unite, UNEP); le è stato affidato il compito di dare dimensione ai cambiamenti climatici, in corso, di valutarne l'impatto socio economico e di formulare le idonee strategie di risposta. In conseguenza di ciò durante la Conferenza per l'Ambiente e lo sviluppo, a Rio de Janeiro, nel 1992, 155 paesi firmarono una convenzione con la quale si impegnarono a conservare e a migliorare gli ecosistemi capaci di assorbire i gas ad effetto serra, e dunque soprattutto le foreste. Sempre a Rio 168 paesi firmarono una seconda convenzione riguardo la conservazione della diversità biologica, alla quale giova soprattutto la tutela e il giusto governo dei sistemi forestali. Se questo fosse lo spirito con cui oggi si vuole gestire il nostro territorio, si potrebbe facilmente sostenere che le foreste stanno bene. Ad esempio, nel Veneto e nel Trentino, le terre che meglio conosco, hanno brillantemente superato le vicende di grave distruzione e di altrettanto pesante rapina avvenute durante e dopo le due guerre. Sono sopravvissute a ripetuti attacchi di parassiti e di defogliatori e hanno evitato i danni mortali delle piogge acide patite da molte altre foreste nei paesi centro-europei. Per cinquant'anni si è riasparmiato sul capitale e sugli incrementi, e i boschi sono diventati più ricchi e più sani, ovvero, nella maggioranza dei casi, funzionano meglio. Dovremmo, tuttavia, anche segnalare che stanno cambiando le attese della società verso i servizi che i boschi possono erogare: non più solo legna e legname, ma molto più paesaggio, ricreazione, spiritualità. E molti funghi, frutti minori, ed altre erbe aromatiche. Forse i boschi non sono stati "educati" a fornire queste "produzioni" immateriali, o "secondarie". C'è dunque molto da lavorare al riguardo, per "inventare" e sperimentare una nuova selvicoltura per i territori a vocazione turistica e ricreativa. Il legno potrebbe essere prodotto altrove, "fuori foresta", cogliendo le molte occasioni fornite dalla riorganizzazione dei sistemi agricoli di pianura. La ricerca sui temi della selvicoltura e dell'ecologia forestale mai come oggi, ha conosciuto il favore dei finanziatori. I risultati sono incoraggianti e danno buone speranze per il futuro dei nostri boschi. Tra gli studi più finanziati a livello europeo si pongono quelli sul global change. Da essi vengono indicazioni confortanti su come i ritmi fisiologici delle specie arboree forestali si stiano adeguando all'accresciuta concentrazione di CO2 e al conseguente innalzamento della temperatura. Entreranno certamente nuove specie nella compagine dei boschi che oggi conosciamo, e alcune di quelle che ora vediamo si sposteranno a quote maggiori e a latitudini più elevate. Insomma, intorno a casa, avremmo boschi diversi, ma altrettanto efficienti e gradevoli. Il problema più grave è che già ora non abbiamo più boscaioli, e i selvicoltori non hanno a chi affidare gli interventi pratici in foresta. E poiché nell' area montana è in crisi l' intero comparto primario, non si sa nemmeno a chi demandare l'attento e diffuso controllo del territorio che è fondamentale per mantenere non solo gradevole il paesaggio, ma soprattutto stabili i versanti e sicure le acque che vi sgrondano fino ai collettori. Solo qui potranno intervenire con efficacia, pur se con costi elevati, gli ingegneri idraulici. Forse questo è il primo forte limite della nostra selvicoltura naturalistica, che corre il rischio di non essere più selvicoltura, e di rendere non più sostenibile la gestione dei boschi in altre parti del pianeta.
Alcuni problemi tecnici di selvicoltura e di gestione delle risorse naturali in area montana Sul piano tecnico non pochi sono i problemi con cui si deve confrontare la selvicoltura. Alcuni hanno profonde radici storiche, altri hanno origini più recenti perché legate ai cambiamenti sociali di questi ultimi anni. Farò riferimento solo ad alcuni dell'uno e dell'altro tipo. Meno consistenti di quanto non fossero in passato sono invece i danni a carico del novellame e della rinnovazione, o quelli arrecati agli alberi adulti a seguito dello scortecciamento e della diffusione di fitopatie. Al posto degli animali domestici, in questa direzione ora agiscono gli ungulati selvatici, soprattutto caprioli e cervi, questi ultimi in costante e rapida diffusione, ma anche camosci e mufloni, ai quali, in alcuni popolamenti, si imputano vere devastazioni a carico della rinnovazione. E cessata, invece, quasi del tutto, l'antica pratica della raccolta dello strame, cui si imputava l'innesco di processi di depauperamento del suolo capaci d'annullare le potenzialità di sviluppo del bosco. Turismo. Il turismo grava oggi sul territorio montano e alpino con forme di fruizione molto differenti, e con effetti più pesanti rispetto al passato. Soprattutto è cresciuta la frequenza con cui il turista si avvicina alla foresta, così che gli effetti del calpestio si sono moltiplicati. Ma sono cambiate anche le attese e le attenzioni verso il recupero di risorse che non sono più solamente estetiche e "spirituali", ma anche materiali, come i funghi e i cosiddetti frutti minori. Ai danni generati dal turismo che si esercita in prossimità dei centri abitati, si riesce a porre argine attraverso tecniche di selvicoltura che mirano a rendere il bosco poco percorribile dalla gente, oppure, all'opposto, attraverso il sacrificio solo di alcuni lembi di foresta, resi particolarmente gradevoli e recettivi, a vantaggio degli altri, più fragili, e resi meno "visibili" al visitatore. Più sottile e più grave pare invece il danno portato in profondità grazie al diffondersi della viabilità minore. La disponibilità di facili accessi e la moda del fuoristrada hanno favorito infatti non solo la penetrazione in massa degli "utenti", ma anche la dilatazione nel tempo della loro permanenza in foresta. Si registra per questi motivi anche il diffondersi di patologie dovute a specifiche forme d'inquinamento. Il fatto più grave pare comunque il decadimento della qualità dei frequentatori della montagna e del bosco che spesso mostrano verso i fragili ecosistemi alpini sensibilità inversamente proporzionale alla potenza dei mezzi impiegati per salire in quota. Anche la pratica della mountain-bike, per certi versi da considerare a basso impatto ambientale, dovrebbe essere ammessa sulla viabilità forestale solo se siano stati valutati localmente i rischi d'erosione e d'altre forme di danno a carico del suolo. Il turismo invernale di norma non è conflittuale con la sopravvivenza del bosco, nemmeno lo ski esercitato "fuori pista", purché praticato quando la coltre nevosa ricopre totalmente la vegetazione pioniera d'alta quota e nei siti in cui la rinnovazione, o i giovani alberi, abbiano i getti apicali ben sopra il piano della neve. Forse, non banalmente, qualcuno paventa il rischio che atteggiamenti tipo "usa e getta", spesso acquisiti da chi vive solo nell'ambiente cittadino, possa prendere piede nella società montanara. Per emulazione del turista, che con la ricchezza porta fuori della città anche i propri stili di vita, si può perdere coscienza dei limiti tra le attività compatibili con l'ambiente della montagna e quelle che recano danno alle stesse fonti di reddito. Si prospetta dunque una questione di capacità, al pari di quelle inerenti alla raccolta di funghi, di fiori e di frutti e di erbe officinali, che va scientificamente valutata in termini di quantità, di luogo e di tempo. Fauna e bosco. Poco sentita, anche solo pochi lustri fa, era l'esigenza di garantire nicchie idonee alla permanenza o alla diffusione di particolari specie animali che nell' immaginario collettivo sono la massima espressione di naturalità. E il caso emblematico di certi grandi ungulati, di cui certamente è piacevole la vista, ma che possono creare non pochi problemi alla stessa perpetuazione del sistema. Questo è di certo un nuovo, importantissimo fronte che si apre alla selvicoltura che viene chiamata a sviluppare tecniche e tecnologie che siano capaci di conciliare esigenze diverse, tra loro a volte in netta antitesi, come la rinnovazione forestale e il sostentamento di questi animali, capaci anche di una forte azione limitante su molte altre utili o essenziali, componenti della biocenosi. L'effetto serra e l'innalzamento della temperatura, per via diretta o attraverso i cambiamenti dei regimi delle piogge, producono spostamenti del limite superiore del bosco, la rottura di equilibri compositivi e l'innesco di processi successionali di cui non si conosce il possibile risultato. In tale direzione agisce anche il cambiamento qualitativo dell'aria, che vede crescere il tasso di CO2, con effetti ancora imprevedibili sull'evoluzione di molte foreste. E così agiscono tanti altri fattori dell'ambiente, come i regimi udometrici, che diventano sempre più estremi, il flusso radiante, l'abbassamento delle falde e tanti altri, tutti capaci di modificare, anche in tempi brevi, il destino delle foreste del nostro pianeta. Resta invece ancora importante il rischio della diffusione di incendi, oggi dovuto alla presenza distratta del turista più che al perpetuarsi di pratiche agricole che affidavano al fuoco l'eliminazione dei residui colturali. Le fiamme, oltre che compromettere la vitalità del sistema, sopra e sotto la superficie del suolo, alimentano il rischio d'instabilità idrogeologica, specie quando percorrono aree a forte pendenza e di scarso valore, quelle, cioè, di più difficile accesso e ricoperte da vegetazione di esclusivo pregio scenico, sulle quali poco frequente è il controllo della proprietà e del selvicoltore. Sicuramente lo sviluppo di nuove tecnologie ha giovato molto ai mestieri forestali, rendendoli un po' meno pesanti, più sicuri e più veloci rispetto al passato. Ma nonostante questi decisi miglioramenti, l'imprenditoria legata alle utilizzazioni forestali mostra i segni di un deciso declino. Pochi, e solo per breve tempo, sono coloro che si dedicano ai lavori in foresta, forse non solo per questioni di reddito, ma soprattutto per motivi di prestigio sociale, che assolutamente non viene riconosciuto a questa categoria di imprenditori. * Redazione di "Parchi" |