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Negli ultimi 150 anni, i vari governi che si sono succeduti negli Usa si sono dedicati ed hanno gestito i terreni pubblici secondo i diversi ideali del paesaggio, tra cui "parchi, foreste" ed "aree wilderness". Sebbene siano stati spesso confusi, ognuno di questi modelli intellettuali hanno comportato diverse politiche di gestione del territorio spesso sostenute da collegi elettorali diversi. Soprattutto, ogni ideale rifletteva in modo preciso valori specifici del suo tempo e delle circostanze. L'atteggiamento nazionale verso la gestione del territorio pubblico mutava in base ai cambiamenti del rapporto della società con il mondo della natura. Gli ideali paesaggistici erano in questo senso ideali sociali, che servivano a definire il carattere essenziale della società americana attraverso il suo rapporto con la natura, che doveva essere gestito, sfruttato, fruito, esaltato, oppure lasciato a sé, a seconda degli ideali esposti. Questa analisi storica può essere di particolare interesse oggi, in un'era in cui si stanno formando nuovi ideali di gestione del territorio, spesso in contrasto tra di loro.
Il termine "parco" fu usato nel XIX secolo come strumento di riforma ambientale e con il tempo è diventata arte pubblica nel senso più profondo. Negli anni tra il 1830 e il 1840 nacquero le città, non diversamente da quanto è successo negli ultimi decenni, che hanno sfidato il precedente nel grado e scala di urbanizzazione. A metà del secolo, ampie reti di nuove strade furono costruite intorno a New York, Baltimora, Chicago e dozzine di altre città. Nello spazio di una generazione, intere popolazioni sono state allontanate per la prima volta da qualsiasi contatto diretto con estesi spazi aperti. In queste circostanze, il parco fu proposto come strumento di salvaguardia, nel senso che i governi cittadini avevano l'urgenza di acquisire certi luoghi per preservarli dagli effetti diretti dei nuovi assetti geografici. La salvaguardia come parco pubblico ha comunque sempre implicato una trasformazione, e tutelare il paesaggio non è mai stato un atto passivo. Al Ethan Carr *
Central Park di New York, per esempio, furono scavati dei laghi e creati dei tappeti verdi per trasformare il semplice terreno in un paesaggio e il luogo in un parco. Tali valorizzazioni, però, erano solo parte di un progetto: infatti, furono lasciate inalterate altre porzioni dell'area parco tranne che per l'aggiunta di viali di accesso e sentieri. Nella parte settentrionale del parco meno modificata, si dovette interferire il meno possibile con le caratteristiche paesaggistiche già esistenti del parco, secondo l'opinione dei progettisti del parco (Beveridge e Schuyler 1983, 119). Boschi fitti, affioramenti rocciosi e vedute panoramiche rendevano il paesaggio pittoresco, e richiedevano piccoli interventi di risanamento o di modifica. Queste aree oggi rimangono tra i pochi luoghi in cui si possa toccare con mano il carattere preindustriale dell'isola di Manhattan.
Il Central Park ha fuso insieme con successo l'idea di valorizzazione e tutela, ed è diventato contemporaneamente l'incarnazione degli ideali sociali del XIX secolo: una rappresentazione vivente della salute fisica e del benessere mentale che, come molti ritenevano, la città industriale aveva rimosso dalla vita quotidiana. La creazione di parchi fu perciò considerata negli Usa come un aspetto integrale e mitigante della modernizzazione. Il grande parco del paesaggio assicurava forme sociali più salutari e attuabili per una repubblica sempre più industrializzata e urbanizzata. Come forma di arte pubblica, il paesaggio del parco poteva essere apprezzato a livello emotivo secondo le convenzioni dell'estetica pittoresca; iconograficamente esprimeva la convinzione che la modernizzazione della nazione poteva continuare senza perdere valori ed esperienze ritenute essenziali al benessere umano. È stato nei parchi che gli americani hanno dimostrato l'abilità (o inabilità) a riconciliarsi come comunità varia, unita da certi valori comuni. È stato nei parchi che abbiamo costruito modelli culturali (in forma di strade, edifici ed altri servizi) che hanno tentato di ricreare una relazione immaginata, premoderna tra società e natura, stabilendo una presenza umana che ancora una volta armonizzava con l'ambiente paesaggio.
L'ideologia del parco di paesaggio del XIX secolo non era limitato alla scala urbana o al contesto del governo cittadino. Nel 1864, il Congresso concedeva la Yosemite Valley alla Califomia, purché il governo locale mantenesse la proprietà pubblica in perpetuo finalizzata ad "uso pubblico, come luogo di vacanze e svago". Quello Stato fu anche incaricato di occuparsi della "tutela e valorizzazione" della valle, un mandato che era prioritario nell'idea di parco. Se, in seguito, questo mandato a tutelare la Yosemite Valley e a renderla accessibile al pubblico risultò una contraddizione, a coloro che nel XIX secolo auspicavano la creazione del parco essa appariva sensata. Il grande teorico del Central Park e della Yosemite Valley fu Frederick Law Olmsted, che in entrambi i casi avanzò l'idea di parco. Olmsted considerava l'accesso alle aree panoramiche un requisito per il benessere umano. Nel 1865, perciò, egli descriveva la valorizzazione della Yosemite Valley come parco "un dovere politico di grande importanza", perché, se il governo non rendeva accessibile a molti un luogo come la Yosemite Valley, i benefici derivanti dalla fruizione della bellezza del paesaggio sarebbero stati inevitabilmente monopolizzati da pochi (Tolson 1993, 64; Ranney 1992, 488-516). La repubblica che era stata recentemente tutelata ad un costo tanto alto avrebbe perciò fallito nel suo obbligo fondamentale nei confronti dei suoi cittadini: mantenere delle opportunità perché tutti i membri della società inseguissero e raggiungessero il benessere.
La teoria di Olmsted
Per Olmsted, lo svago pubblico forniva l'ultimo scopo e giustificazione logica per la tutela del paesaggio, che fosse a Central Park o alla Yosemite Valley. Tutela di un luogo e uso del luogo da parte del pubblico erano facce dello stesso ideale di paesaggio. "Salvaguardia e valorizzazione" erano quindi una singola impresa, come suggerisce la legislazione di Yosemite. Per Olmsted, il parco paesaggio permetteva agli individui un senso di "libertà allargata", e ai gruppi di unirsi su un terreno comune, senza che questi si sentissero imbarazzati dalle loro differenti condizioni economiche o origini etniche (Olmsted eVaux 1967, 98-102 ). Il parco ideale di Olmsted era un paesaggio popolato e tollerante, in cui una società che si diversificava rapidamente riuniva ed affermava valori comuni, soprattutto quello di tutelare e apprezzare lo scenario naturale. La tutela del paesaggio era giustificata, in ultima analisi, come mezzo per la tutela della società stessa.
La teoria descritta da Olmsted dette l'impronta ad uno sviluppo intensivo di parchi negli Usa da parte di governi delle città, dei singoli Stati e del governo federale. Ma il parco non era l'unico ideale di paesaggio nei decenni che seguirono la guerra civile. Fu sostenuto anche il bosco pubblico come alternativa al parco per la gestione delle riserve statali ( 1 ) più grandi e, soprattutto, per i terreni federali negli Stati occidentali. I sostenitori del parco e del bosco erano dapprima alleati naturali e inseguivano molti degli stessi scopi. Nel 1883, per esempio, l'assemblea legislativa dello Stato di New York creò la Riserva forestale degli Adirondack, al fine di tutelare il paesaggio e di protegge i bacini idrografici e i flussi d'acqua vitali per la navigazione commerciale. Charles Sprague Sargent, che era sia un selvicoltore che un progettista di paesaggio, contribuì ad abbozzare la normativa del 1885, in base alla quale la riserva doveva essere mantenuta per sempre a "foresta selvaggia" (Donaldson 1963). In California, nel 1890 furono creati dal Congresso i parchi nazionali Sequoia e Yosemite, ancora una volta in gran parte per il desiderio di proteggere i bacini dal pascolo e dal taglio intensivi. Gli agricoltori nella San Joaquin Valley dipendevano dalla regimazione delle acque provenienti dalla Sierra Nevada, ed altri interessi economici, a loro volta, dipendevano dagli agricoltori. Il risultato fu la creazione di vasti parchi di montagna (i parchi nazionali Sequoia e Yosemite) con la cessazione della quasi totalità dei tagli e dei pascoli entro i loro confini (Disalver e Tweed 1990, 62-73).
Ma dopo il 1891, la legge sui parchi non fu più l'unico mezzo per limitare il taglio del bosco o proteggere i bacini, almeno sui terreni federali. Quell'anno il Congresso promulgò la legge sulle riserve forestali, che permise al Presidente di dichiarare semplicemente "riserve pubbliche" quelle che si trovavano su qualsiasi terreno boscato della proprietà pubblica. Nel giro di venti anni, quattro presidenti avevano istituito riserve forestali federali (più tardi ridefinite foreste nazionali) per 150 milioni di acri. Se, all'inizio, non era chiaro in cosa le foreste nazionali avrebbero differito dai parchi nazionali, nel 1897 il Congresso aprì ufficialmente le foreste alla vendita del legname, al pascolo ed ad altri sviluppi commerciali. Nel 1898, Gifford Pinchot arrivò al settore foreste (un settore del Ministero dell'agricoltura), e la sua influenza crebbe costantemente, specialmente una volta che diventò Presidente Theodore Roosevelt. Nel primo decennio del nuovo secolo, Roosevelt e Pinchot ottennero il sostegno politico degli allevatori di bestiame e degli agricoltori occidentali che favorivano politiche volte a considerare le foreste nazionali in termini di uso economico molteplice (anche se tale uso implicava tasse e permessi), piuttosto che considerarle come vasti parchi. La politica dell'uso molteplice confidava nel fatto che, se ben regolato, il taglio e il pascolo potevano continuare nelle foreste senza minacciare la regimazione delle acque. Nel 1905, la giurisdizione sulle riserve forestali fu trasferita dal Ministero dell'ambiente al settore foreste (ribattezzato U.S. Forest Service), dove Pinchot aveva il pieno controllo sulla loro gestione (Steen 1991, 26-27; Williams 1989, 403-415).
Roosevelt e Pinchot
Per Roosevelt e Pinchot, la foresta nazionale era un paesaggio che incarnava gli ideali di " tutela" dell'era progressista. Una volta che milioni di acri di foreste, per la maggior parte montuosi, furono ritenuti di dominio pubblico come foreste nazionali, i tecnici che lavoravano per il governo federale (tra cui forestali, ingegneri delle bonifiche e biologi) poterono controllare lo sfruttamento del legname, dell'acqua e dei pascoli. Fu ritenuto che la silvicoltura scientifica, l'ingegneria idraulica e il "controllo della caccia" potessero definire pratiche sostenibili ed assicurare una produzione continua. Le finalità scientifiche dovevano sostituire la politica d'interessi e la corruzione, che erano alla base della gestione federale del territorio da troppo tempo. Le motivazioni scientifiche ebbero anche la precedenza sugli interessi estetici dei protezionisti del paesaggio. Per Pinchot, chiudere a chiave delle risorse in vasti parchi equivaleva a lasciarle distruggere dai magnati dell'industria. Pinchot riteneva che l'idea di parco fosse obsoleta, o che almeno essa dovesse essere limitata ai "parchi urbani", che, secondo lui, non avevano niente a che fare con la gestione del territorio occidentale. I parchi nazionali, pensava, dovevano essere trasferiti dal Ministero dell'ambiente al suo dipartimento, dove potevano essere gestiti fondamentalmente come foreste nazionali, scevre da "condizionamenti emotivi".
La costruzione di dighe, il pascolo e il taglio sarebbero allora stati permessi nei parchi come nelle foreste nazionali, eliminando effettivamente qualunque distinzione tra i due.
La reazione a questa minaccia tra i protezionisti del paesaggio e i sostenitori del parco ebbe come risultato la creazione nel National Park Service all'Interno del Ministero dell'ambiente nel 1916. Il Congresso costituì questo nuovo organo per gestire i parchi nazionali espressamente come parchi. Questo implicava, ancora una volta, un mandato a "salvaguardare e valorizzare" i parchi, oppure, come fu stabilito dalla normativa del Park Service, a "conservare il paesaggio, con i monumenti storici e naturali, le piante e gli animali al suo interno, e a provvedere alla fruizione di esso", ricordando inoltre di fare questo in modo da lasciare intatti i parchi, perché le future generazioni potessero goderne" (Tolson 1933, 9-10).
Salvaguardia e valorizzazione
Questo linguaggio è stato spesso descritto come doppio mandato. Ma, ancora una volta, la salvaguardia e la valorizzazione erano parti indivisibili di un unico compito: la trasformazione concettuale e fisica di terreno in paesaggio, e di luogo in parco. Sebbene la scienza ebbe certamente un ruolo in questa trasformazione, in fondo essa risultò un processo artistico nel progettare strade, sentieri ed altre infrastrutture che permettevano ad un pubblico vasto e vario di visitare un luogo, senza degradare le sue caratteristiche visive o la qualità dell'esperienza estetica ed emotiva che offriva. I fautori del parco come Frederick Law Olmsted, jr., e Horace J. McFarland, descrivevano lo "sviluppo del parco" come l'unica forma appropriata di sfruttamento per i parchi nazionali, che loro enfaticamente differenziavano dalle foreste nazionali.
Nel corso dei decenni successivi, gli architetti e progettisti del paesaggio del NPS svilupparono l'identità "rustica" dell'architettura e dei servizi del parco nazionale, che da allora nell'immaginazione del pubblico è legata fortemente all'esperienza del paesaggio e al gradimgnto della natura stessa. Il bosco, comunque, rimaneva un forte ideale di paesaggio alternativo: il simbolo del governo progressista di tecnici ed altri esperti disinteressati. Ma l'enorme popolarità dei parchi nazionali e statali negli anni Venti e Trenta smentì l'idea di Pinchot, secondo la quale il parco non aveva più un posto nella gestione di ampi tratti del territorio pubblico. Durante l'amministrazione Roosevelt, solo la costruzione di autostrade ottenne una quota delle disponibilità economiche dei New Deal più grande dello sviluppo di nuovi parchi. Oltre all'espansione del National Park System, furono costituiti centinaia di parchi statali e urbani. In una indicazione delle priorità variabili, il Ministro dell'ambiente di Roosevelt, Harold L. Ickes, fece pressione per avere la giurisdizione sulle foreste nazionali trasferite nuovamente al Ministero dell'ambiente, dove, presumibilmente, potevano essere gestite di più come parchi, ponendo l'accento sugli usi ricreativi piuttosto che sulle industrie estrattive.
Ma, durante gli anni Trenta, si ebbero nuove controversie intorno all'idea del parco, e un nuovo modello di paesaggio fu esposto dai protezionisti che ritenevano con forza che né il parco, né la foresta rispecchiavano il loro ideale di tutela in un'era di urbanizzazione crescente. Robert Sterling Yard presso la National Parks Association, Robert Marshall della Wilderness Society, Arthur Newton Pack della American Nature Association, e Rosalie Edge dell'Emergency Conservation Council, tra gli altri, denunciarono quello che videro come uso eccessivo dei parchi nazionali. Essi ritenevano che il vero mandato del Park Service era quello di tutelare "l'integrità della natura incontaminata (wilderness) originaria, non quello di facilitare il campeggio con mezzi a motore, l'escursionismo, lo sci, o qualsiasi altra attività popolare in via di espansione descritta come "svago all'aperto". In pratica, questo significava trovare un modo per ridurre il numero delle persone e automobili nei parchi, e non sviluppare paesaggi nelle zone periurbane, poco abitate per la loro ulteriore accoglienza. Nel 1936, la National Parks Association e una coalizione di altri gruppi suggerirono di progettare parchi negli Stati occidentali più grandi come un sistema di parchi nazionali originari, dal momento che essi ritenevano che gli standard per il "sistema originario" non erano stati mantenuti quando il NPS diversificò le sue attività e inseguì dei piani ricreativi, oltre a sviluppare nuove "aree ricreative nazionali" e parchi storici" (Miles 1995; 148-149).
Intorno alla fine del decennio, un numero crescente di critici accusò il Park Service di abbandonare il mandato tradizionale per proteggere aree naturali che non erano dannaggiate. Ma, sia la definizione di "salvaguardia" sia quella di "naturale" erano soggette a cambiare. Semmai, il NPS aderiva in modo troppo ostinato alla teoria e pratica tradizionale della creazione dei parchi che facevano da guida alle sue azioni dal 1916. I nuovi sostenitori delle aree wilderness non stavano chiedendo un ritorno ad un ruolo tradizionale per il Park Service, quanto l'adozione di nuovi modelli e linee di condotta. Questi proto-ambientalisti stavano sostenendo un nuovo ideale di paesaggio - aree wilderness -, secondo cui la salvaguardia doveva essere fine a se stessa, non finalizzata ad un uso molteplice (boschi) o alla fruizione pubblica della natura (parchi). Per i sostenitori delle aree selvagge, la fruizione pubblica poteva essere dannosa proprio quanto il taglio o l'industria estrattiva, specialmente se era permesso l'accesso con le automobili.
Progetti di Thomas C. Vint
Per la fine degli anni Venti, sia il Park Service che il Forest Service avevano già stabilito per alcune zone una classificazione di "area wilderness" a livello amministrativo. Al Park Service, le designazioni di aree wilderness facevano parte di un piano di progettazione generale, sviluppato dal più importante architetto paesaggista Thomas C. Vint alla fine degli anni Venti. Vint sosteneva l'atteggiamento protettivo nei confronti dei valori della natura incontaminata, che lui osservava affermarsi già a quel tempo, ma riteneva anche che il suo mandato "comprendeva le parole "per la fruizione e lo svago della gente"". Egli riteneva che, se il pubblico accesso non era necessario, il suo lavoro sarebbe stato considerevolmente semplificato: "Il piano di sviluppo del parco potrebbe essere limitato alla costruzione di una efficace barriera intorno alle sue linee di confine. L'amministrazione non avrebbe bisogno di andare oltre un controllo adeguato per impedire la violazione di confine". I progetti generali, preparati da Vint e dal suoi colleghi, restringevano in modo rappresentativo lo sviluppo in un parco ad uno stretto corridoio stradale. Al di fuori di queste "aree sviluppate", i progetti di solito suddividevano in zone le aree rimanenti del parco come "aree wildernerss" una denominazione che non impediva la presenza di sentieri, rifugi dei ranger, e strade. I progetti impiegavano anche una zona più restrittiva (e più controversa), l'"area di ricerca", che limitava l'accesso di qualunque tipo. Tali denominazioni amministrative erano soggette a cambiare periodicamente, quando venivano rivisti i piani generali del parco, e non escludevano l'area wilderness del parco dalle politiche gestionali di tutto il parco (inclusi la lotta ai predatori e al fuoco), che potevano avere maggiori implicazioni ambientali. Tuttavia, i progetti generali di parco nazionale divennero un mezzo vitale non solo per la programmazione e la progettazione di aree sviluppate, ma anche per limitare la loro estensione" (Vint 1938, 69-71; Tweed 1980, 8-10).
Se le definizioni contrastanti di area wilderness erano già manifeste negli anni Trenta, si intensificò la controversia durante il dopoguerra come pressione sui terreni pubblici. Nei primi anni Cinquanta, quando l'ufficio di bonifica propose una diga più grande per l'area dell'Echo Park nel Dinosaur National Monument, il Park Service non riuscì a mettere al bando l'idea in modo abbastanza energico fin dall'inizio (sebbene il direttore del NPS Newton B Drury fu oggetto di attentato nel 1951, soprattutto per la sua opposizione alla diga).
La diga fu più tardi annullata, non dal Park Service, ma da una nuova coalizione di organizzazioni private senza scopi di lucro, tra cui il Sierra Club e la Wilderness Society, e dai loro alleati nel Congresso (Harvey 1994). Le pressioni per scopi ricreativi sul terreni pubblici aumentarono in modo drammatico negli anni del dopoguerra, ed il direttore del NPS, Conrad L. Wirth, ed il suo principale progettista, Vint, sentirono l'obbligo di modernizzare il sistema parchi e renderlo funzionale, nella società del dopoguerra.
La Mission 66 di C.L. Wirth
Nei primi anni Cinquanta, stavano arrivando nel parchi milioni di visitatori che mai si erano visti prima, virtualmente tutti con le loro automobili. Strade, campeggi, e servizi sanitari erano invasi, e i sovrintendenti del parco erano a corto di personale e di attrezzature di base per soddisfare l'incrementata domanda di servizi. Nel 1956, Wirth svelò i suoi piani per la Mission 66, un programma di dieci anni delineato per convincere il Congresso a spendere centinaia di milioni di dollari sull'ampliamento delle strade, aree di parcheggio, centri visite, oltre alla sede e alla formazione del nuovo personale del parco. Il Congresso rispose concedendo a Wirth tutto quello che aveva chiesto, e inizialmente la Mission 66 fu salutata con grande successo (Wirth 1980, 237-284).
Ma, per i sostenitori delle aree wilderness, non si poteva contare sul Park Service per quanto riguardava la limitazione dello sviluppo ricreativo nei parchi nazionali più di quanto si potesse contare su di loro per bloccare la costruzione federale della diga al Dinosaur. Questi primi ambientalisti misero su le loro organizzazioni e sfruttarono il crescente credito che avevano all'interno del Congresso per avanzare il loro programma di salvaguardia dell'ambiente. Spesso guidati da David
R. Brower, direttore del Sierra Club, i sostenitori delle aree wilderness quasi immediatamente chiesero perché la Mission 66 poneva una priorità così alta a nuove costruzioni, in opposizione a qualsiasi altro mezzo di salvaguardia. Per questa nuova generazione di sostenitori, "1a salvaguardia e la valorizzazione" dei parchi nazionali non sembravano più un traguardo possibile, dal momento che la "valorizzazione" implicava la compromissione del concetto di "wilderness".
Ma, né i progettisti del NPS, né i sostenitori del wilderness affrontarono in realtà la contraddizione intrinseca tra il concetto di parco pubblico, un'area delimitata dal pubblico accesso alla bellezza naturale, e il nuovo ideale di wilderness, che i suoi sostenitori descrivevano in termini di assenza di qualsiasi attività umana. La controversia del Echo Park aveva fatto presagire conflitti tra i nuovi ambientalisti e il Park Service, e la Missone 66 esacerbava la controversia. Wirth ed il suo gruppo di progettisti e direttori di parco non potevano accettare una definizione di "parco" che escludesse lo sviluppo delle zone periurbane per un comodo accesso del pubblico. Ritenevano che solo le zone poco abitate, lontane dalla città, fossero sufficientemente incontaminate (e sarebbero state adeguatamente protette), e che le aree sviluppate dovessero essere rivalorizzate, perché necessarie a soddisfare l'accresciuta domanda di servizi.
Gli ambientalisti, da parte loro, non potevano accettare una definizione di "parco" che, per qualsiasi ragione, continuasse a permettere l'ampliamento di strade, la costruzione di motel, ed un numero sempre crescente di visitatori con le loro automobili (anche se limitate ad aree adiacenti il parco). Essi ritenevano che le zone poco abitate, lontane dalla città, sotto tali pressioni non sarebbero state protette abbastanza, e che sarebbe stato meglio spendere il denaro nella ricerca scientifica per capire appieno i sistemi ecologici. Il paesaggio poteva essere tutelato attraverso la tradizionale gestione dei parchi; ma l'ecologia dei sistemi biologici avrebbe continuato a degradarsi in modi che non erano necessariamente chiari ai non tecnici.
Di fronte alla forza distruttiva di quello che Aldo Leopold chiamò "ricreazione meccanizzata", e che Edward Abbey più tardi descrisse come "turismo industriale" intorno agli anni Cinquanta i sostenitori della aree wilderness avevano abbandonato quella che era stata la teoria centrale della creazione dei parchi: la salvaguardia poteva essere raggiunta attraverso uno sviluppo programmato per l'accesso e il gradimento pubblico (Leopold 1970, 269-272; Abbey 1970, 45-67). I sostenitori delle aree wilderness, specialmente Howard C. Zahniser della Wilderness Society, aggirò il NPS e fece pressione sul Congresso apertamente, per far approvare delle leggi che avrebbero permesso una denominazione legale di wilderness non soggetta alla discrezione amministrativa degli organi federali. Per Zahniser ed altri sostenitori, le aree wilderness erano definite come aree che "mantenevano il loro carattere e influenza originari, senza valorizzazioni permanenti", dove "l'uomo stesso è un visitatore che non rimane" (Disaver 1994, 277-286, citando il Wilderness Act (Legge sulle aree wilderness) del 1964). Il Park Service, riconoscendo forse la differenza tra questa definizione e la propria, si oppose alle leggi sulle aree wilderness. Ma su questo punto il nuovo ideale di paesaggio aveva catturato la fantasia del pubblico - con considerevole avallo politico - e il Congresso varò il Wilderness Act nel 1964. Durante i successivi trent'anni, il Congresso continuò a istituire quasi cento milioni di acri di aree wilderness sui terreni pubblici della nazione, principalmente nelle foreste nazionali, ma anche nelle zone poco abitate e lontane dalla città di molti parchi nazionali.
Il Congresso fissa il concetto di wilderness
Sebbene il parco nazionale ha sempre evocato l'idea di wilderness nella fantasia della gente, il Congresso definì il nuovo, ufficiale concetto di wilderness in termini quasi opposti: come aree del paesaggio da tenere inaccessibili al pubblico (wilderness), opposte alle aree da rendere accessibili al pubblico (parchi). La teoria di base del wilderness del dopoguerra, in effetti, non apparteneva alla tradizione della creazione dei parchi che aveva guidato la creazione del National Park System, oltre a parchi statali ( 1 ) e locali, fino a quel punto. L'idea di wilderness non era stata sviluppata da progettisti del paesaggio, da pianificatori regionali, o da tecnici. L'ideale paesaggistico di aree selvagge nel dopoguerra derivava dalle tradizioni poetiche e letterarie di Richard Payne Knight, Wordsworth, Thoreau, John Muir, e Aldo Leopold. Con salde radici nella preferenza dei Romantici per la bellezza aspra e non artefatta della natura, il modello di paesaggio di aree selvagge comportava che non ci fosse nessuna gestione del territorio e che la natura dovesse essere libera da qualsiasi intervento umano di "valorizzazione", per conservare la sua forma più autentica, più "naturale".
I sostenitori delle aree wilderness insistevano sul fatto che queste dovessero essere gestite secondo principi scientifici, ma questa non era un'idea scientifica. Gli storici del movimento Wilderness hanno enfatizzato lo sviluppo letterario del concetto (Huth 1990; Nash 1982). Alcune figure eminenti del movimento, come Aldo Leopold e Rachel Carson, erano in verità tecnici, ma anche loro vengono ricordati per i loro scritti e il loro impegno e non per la loro attività di ricerca, e questo lascia intendere che l'ideale di wilderness fu abbastanza problematico in termini di definizione ufficiale (ad es. Wilderness Act). L'impatto delle prime pratiche di gestione del territorio dei nativi americani, per esempio, come pure gli effetti dei cambiamenti indotti nella composizione e nel numero di popolazioni selvagge, ci indica che poche zone paesaggistiche nel Nord America sono sfuggite, storicamente parlando, ad un certo livello di influenza umana. La lotta agli incendi, la distruzione degli insetti, e l'avvelenamento dei predatori sono esempi più recenti di diffusi disturbi che hanno influenzato il paesaggio più tardi designato come wilderness. In molti casi, infatti, i sistemi e i rapporti naturali alterati devono essere riparati e ripristinati per "tutelare l'area wilderness" con successo e, quindi, dopo tutto è necessario un certo grado di intervento di risanamento da parte dell'uomo (Jordan 1994; Cronon 1995). L'ideale del paesaggio wilderness implicava anche un modello culturale profondamente diverso da quello del parco. Dal tempo di Olmsted, questi ideali americani sono strettamente alleati a nuove proposte di progetti urbani e regionali. Lo sviluppo di sistemi di parchi urbani, per esempio, è stata la prima forma di urbanistica in America. I parchi regionali e nazionali furono progettati come espressioni ideali di una "armonia" comune, in cui la società e la natura potessero convivere. Ma area wilderness significava mantenere la società e la natura separate, e la forma urbana più strettamente vicina all'area wilderness è il mondo appartato delle ampie aree a verde del dopoguerra. Il movimento per le aree wilderness fiorì quando furono ampliate vaste aree a verde intorno a quasi tutte le città americane. Le nuove periferie cercavano di offrire piacevoli paesaggi, oltre ad ambienti esterni tranquilli per fare picnic, giochi su prato, piscine, e di offrire anche attrezzature per campi di gioco. Le famiglie che avevano vissuto in case a schiera di città ebbero bisogno di parchi pubblici piacevoli e valorizzati; una volta comode e al sicuro in ampie e tranquille zone residenziali, esse non erano più propense allo svago pubblico. Come l'area a verde, l'area wilderness era un luogo naturale appartato, nel senso che veniva vissuto a livello individuale, o a livello di un piccolo gruppo che si è autoselezionato. Progettato fuori dai terreni pubblici, l'area wilderness tuttavia non era un paesaggio in cui ci si aspettava la presenza di un gruppo ampio e vario (il "pubblico"). Le attività che di solito venivano intraprese nelle aree wilderness - presumibilmente limitate all'escursionismo, l'alpinismo ed alcune altre attività - venivano svolte da pochi membri di un ristretto gruppo demografico. Nella sua dimensione sociale, almeno, l'area wilderness rifletteva l'esclusività e l'isolamento che rendeva popolari le nuove periferie a bassa densità tra il ceto medio durante lo stesso periodo. In un periodo critico, l'area wilderness incontrò un disperato bisogno di tutelare le rimanenti aree naturali da qualsiasi forma di sfruttamento (tra cui lo svago). Ma, diversamente dal parco, l'area wilderness non potè mai servire a riunire una società varia in una mutua conferma di valori comuni. Come ideale di paesaggio dell'America del dopoguerra, l'area wilderness rifletteva, come faceva l'area a verde e il parco costituito, la preferenza generale di una società più ricca per uno spazio più tranquillo.
Ci sono aspetti problematici nell'ideale di wilderness, come ha recentemente notato lo storico ambientalista William Cronon. Questo non significa che molti milioni di acri di terreno pubblico non dovrebbero essere designati come area wilderness. La normativa relativa alla gestione dell'area wilderness è uno strumento riuscito e indispensabile per la salvaguardia del paesaggio da quasi quaranta anni e dovrebbe continuare ad essere impiegato in modo energico. Il problema nasce quando non riconosciamo anche la continua necessità e la attuabilità di altri ideali di paesaggio, compreso il parco e il bosco, che dovrebbero essere, insieme con l'area wilderness, modelli per la gestione del territorio che si rafforzano a vicenda. Riconoscere i diversi obiettivi, talvolta contrastanti, degli ideali di paesaggio americani può forse contribuire a chiarire le attuali controversie sul terreno pubblico e a cominciare a rispondere alla domanda: dove è diretto il parco americano nel prossimo secolo?
Ormai da più di 150 anni, il movimento americano dei parchi serve a garantire che il pubblico in i critici hanno continuato a denunciare il fallimento del NPS nell'adottare politiche di gestione del territorio su basi scientifiche. Un giornalista del Washington Post ha fatto notare che, "come un vecchio ubriaco ... che cerca la bottiglia", il Park Service era assuefatto ad un modo di agire orientato allo sviluppo. Altri critici hanno suggerito che la "tradizione" del Park Service ha ostacolato l'ente nel guardare alla scienza come base della gestione dei parchi (Kenworthy 1999; Sellars 1997). L'elasticità di questa tradizione può essere spiegata, comunque, in parte con il fatto che i parchi - specialmente quelli delle zone più vicine alla città - rimangono, dopo tutto, dei parchi; cioè il NPS continua ad essere incaricato del compito di provvedere alla sicurezza, alle comodità e allo svago di un vasto pubblico. L'ente, perciò,
generale continui ad avere l'opportunità di apprezzare e godere della bellezza del paesaggio.
Sviluppo urbano e accesso alla natura
Alla metà dell'Ottocento, questo significava creare parchi al limite di aree urbanizzate in espansione per consentire alla gente il libero accesso agli spazi aperti e alla natura. La nostra situazione odierna è paragonabile a quella. Le grandi città a bassa densità che abbiamo costruito nella seconda metà del secolo scorso possono sembrare diverse dagli sterminati quartieri urbani delle case a schiera del XIX secolo, ma in un solo senso stanno avendo un effetto simile: lo sviluppo urbano irregolare sta eliminando un accesso comodo e importante al vicino mondo della natura. La designazione di milioni di acri dell'area wilderness ufficiale è stata un traguardo ineguagliato, ma importanti rapporti con il paesaggio naturale periurbano (che non si qualifica come area wilderness) sono diventati sempre più difficili da mantenersi. E quando vengono visitati i paesaggi pubblici, la loro condizione - che sia un parco urbano abbandonato, una foresta o una prateria sfruttate eccessivamente, oppure una zona non lontana dalla città di parco nazionale superaffollato - suggerisce una visione culturale in crisi. In nessun altro luogo che nei nostri parchi nazionali più grandi e più popolari come Yosemite, il problema è più manifesto. A dispetto dei servizi delle zone verdi più vicine alla città, qualche volta terribilmente superaffollate, i parchi non sono veramente "amati da morire". Sebbene continuino ad esserci dei seri problemi per mantenere globalmente il buono stato ecologico dei parchi (la maggior parte dei quali originati fuori dai loro confini), le designazioni di aree wilderness (e le linee di condotta politica a livello amministrativo del Park Service) hanno contribuito ad assicurare che, in molti parchi, le zone poco abitate, lontane dalla città, rimangano tali e gestite almeno con l'intento di tutelare i valori di natura incontaminata e di proteggere i sistemi naturali. Questo aspetto della gestione del parco nazionale, sebbene con fondi insufficienti e sempre bisognosa di maggiore e migliore ricerca scientifica, ha fatto un notevole progresso negli ultimi trent'anni. Durante lo stesso periodo, comunque, rimane addetto alla gestione dei parchi oltre che alla gestione delle aree wilderness. Se, nelle zone lontane meno abitate, possono essere prese decisioni su basi completamente scientifiche, l'architettura del paesaggio e l'ingegneria ambientale continuano ad essere discipline fondamentali se, nelle zone adiacenti la città, devono essere creati e ripristinati spazi sociali importanti, riducendo al minimo, nello stesso tempo l'impatto di un gran numero di visitatori.
Quello che manca nelle aree "parco" periurbane - come ha detto Mark Daniels, un architetto paesaggista del Ministero dell'ambiente, nel 1914, - è "una sorta di progetto culturale" (Ministero dell'ambiente 1915, 15-20). Al fine di tutelare il carattere estetico del paesaggio e ostacolare il deprezzamento della esperienza di quello scenario da parte del visitatore, deve esserci una visione culturale che si basi sulla possibilità di riunire un pubblico vasto e vario con lo scopo comune di godere della bellezza dell'ambiente. Non possiamo sperare di applicare una politica di gestione appropriata alle aree wilderness delle zone poco abitate, lontane dalla città, al parco periurbano, almeno con qualche successo. Ma in molti casi questa è l'enfasi della progettazione dei parchi nazionali dagli anni Settanta. E quando i critici denunciano la condizione deplorevole del National Park System, di solito non descrivono i problemi delle aree più lontane (seri come possono esserlo quelli); piuttosto sono offesi dagli ingorghi del traffico, dalla confusione e dai servizi al di sotto del livello standard che spesso caratterizzano l'esperienza delle zone verdi periurbane. La condizione deplorevole di queste aree è il risultato inevitabile della mancanza di una visione culturale necessaria alla positiva gestione del paesaggio a "parco".
Come allargare i sistemi di parco
Un'altra sfida che i direttori di parco continueranno ad affrontare in questo secolo sarà come i sistemi di parco dovrebbero essere allargati, se proprio questo è un traguardo auspicabile. Sarà una magra consolazione se, dal momento che le nostre ultime vestigia degli spazi naturali, dell'habitat e della bellezza dell'ambiente scompaiono, ciò nonostante noi difenderemo con successo il nostro sistema designato come area wilderness (vitale come lo è l'integrità di quel sistema). In una società che valuta solo l'ideale paesaggistico di area wilderness, il contatto con il mondo della natura quasi scomparirà per la maggior parte della gente. Questo è quello che sta succedendo negli ultimi trent'anni, visto che la vita viene vissuta sempre di più nell'ambito di tranquilli spazi urbanizzati, nelle automobili, nei centri commerciali.
La migliore speranza per i parchi americani e lo spazio pubblico può essere l'abilità a capirli e a gestirli in termini di molteplici ideali del paesaggio. I sostenitori e gli utenti dei parchi (ad esempio, turisti motorizzati), delle foreste (cacciatori, taglialegna, venditori di attrezzature), e delle aree wilderness (escursionisti, scalatori e tecnici) dovrebbero unirsi con lo scopo comune della tutela della natura. Molto spesso rimaniamo isolati dai conflitti interni ai diversi ideali di paesaggio. Quando tali differenze possono essere riconciliate, accadono fatti positivi. Quando gli interessi della salvaguardia del paesaggio e della tutela utilitaristica trovarono un punto d'incontro nel 1885, si ebbe come risultato, per esempio, la Riserva Forestale degli Adirondack (in seguito Parco degli Adirondack). Il Parco degli Adirondack offre ancora un esempio interessante di un "parco", che è un mosaico di sei milioni di acri di terreno a proprietà privata e statale. Dal 1971, l'ente Parco degli Adirondack è autorizzato a stabilire usi appropriati per i terreni pubblici, ed anche a regolare lo sviluppo su terreno privato entro i confini del parco. Come risultato, il Parco degli Adirondack combina la più forte legge della salvaguardia delle areewilderness (inclusa nella costituzione dello Stato locale), con forme d'uso ricreativo appropriate alle diverse zone (inclusa la caccia), il taglio del bosco ed altre attività regolate (sui terreni privati del parco).
Come parco originario della "linea blu" il Parco degli Adirondack rimane unico negli Usa, sebbene una variazione sulla linea blu (o "linea verde" o "patrimonio protetto") è stata suggerita a lungo come parco nazionale del futuro. Iniziative più recenti per una gestione e una regolamentazione globali del territorio, coordinati a livello regionale, hanno suggerito direttive collegate tra di loro per lo sviluppo di nuove concezioni di paesaggio.
Dal 1984 il Congresso ha designato 18 aree del patrimonio nazionale ed ha anche provveduto a finanziarle (oltre ad un vago ruolo di gestione per il Park Service). Le aree del patrimonio nazionale non comprendono acquisizione o gestione diretta del territorio, ma sono iniziative pubbliche - private per incoraggiare i governi locali a salvaguardare le caratteristiche locali del territorio, promuovendo forme non distruttive di crescita economica, specialmente il turismo. Il Ministro dell'ambiente Bruce Babbitt ha lanciato anche recentemente una iniziativa dei monumenti nazionali del paesaggio, in cui ampie aree di terreni federali sono state designate monumenti nazionali con dichiarazione esecutiva. Questi nuovi monumenti nazionali (tra cui il Grand Staircase-Escalante e il Grand Canyon-Parashant) rimarranno sotto la giurisdizione dell'ufficio della gestione del territorio, non del NPS, una mossa che permetterà una accresciuta protezione nell'ambito di "strategie flessibili di gestione" come la caccia e l'industria estrattiva limitata (Babbitt 2000, 24-25). Anche il nuovo modello del programma di conservazione dell'habitat (un tentativo da parte del governo federale di trattare di questioni di specie in pericolo su base regionale) accenna a cosa può significare un nuovo tipo di ideale di paesaggio che nasce dalla collaborazione e da una visione globale, che prende forma a livello federale.
Un cambiamento drastico
Nel frattempo, proprio la natura del ruolo dei governi nella salvaguardia del paesaggio è cambiata drasticamente nell'ultimo decennio. L'iniziativa per la salvaguardia del paesaggio - specialmente a livello regionale - si sta spostando dagli uffici del parco e della tutela del paesaggio ai molti consorzi privati senza scopi di lucro che proliferano nel paese. I confini regionali (e non politici) di grandi ecosistemi hanno stimolato altre organizzazioni private senza scopi di lucro a proporre iniziative di progettazione del territorio di portata straordinaria. Dalla iniziativa di tutela da Yellowstone a Yukon (Yellowstone-to-Yukon Conservation Initiative) a quella della Foresta Settentrionale di 26 milioni di acri di New York e del New England, i sostenitori della tutela della natura stanno cercando un approccio globale e regionale per la salvaguardia del paesaggio e delle risorse naturali nell'ambito di comunità locali economicamente autosufficienti.
Qualunque forma possano prendere gli ideali del paesaggio, sembra probabile che il settore privato (specialmente le organizzazioni private senza scopi di lucro) avrà un ruolo considerevole come i loro partner di governo nella protezione e gestione del paesaggio pubblico. Sembra altresì chiaro che gli ideali del paesaggio oggi emergenti spesso tentano di combinare i vantaggi del parco, della foresta, delle aree incontaminate per proporre un approccio globale alla salvaguardia delle caratteristiche regionali, delle risorse naturali e delle economie locali. Rimane da vedere, comunque, se i sostenitori della salvaguardia della natura di oggi possano capire abbastanza bene gli ideali di paesaggio di altri per trovare un terreno comune di azione.
* National Park Service - USA
( 1 ) Dei singoli Stati della federazione.
traduzione dall'inglese di Franca Moscati |