PARCHI | |
Rivista della Federazione Italiana Parchi e delle Riserve Naturali NUMERO 34 - OTTOBRE 2001 |
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DOPO DIECI ANNI DI 394 Opinioni e considerazioni di Enzo Valbonesi, Giulio Ielardi, Enrico Borghi, Carlo Desideri, Franco Ferroni e Renzo Moschini. |
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Sono trascorsi dieci anni dall'approvazione della legge quadro nazionale sulle aree naturali protette, meglio conosciuta come 394. Si tratta di una legge che non è azzardato definire "storica" e che oggi deve essere valutata oltre che per il suo impianto istituzionale, soprattutto per la capacità che ha avuto -o non ha avuto- di avviare il processo costitutivo di un nuovo ciclo per le aree protette del nostro paese. La legge fu il risultato di un lungo, difficile confronto, non solo parlamentare, e di un ampio movimento che vide come principali protagoniste le associazioni ambientaliste. Sicuramente fu il frutto di un compromesso tra diverse culture e differenti impostazioni politico-istituzionali, che ebbe l'indubbio merito di far convergere molte forze intorno all'obbiettivo di potenziare in Italia, attraverso le aree protette, le politiche per la conservazione e la valorizzazione del patrimonio naturale. Oggi, a dieci anni di distanza, si può trarre un bilancio sufficientemente maturo dei risultati ottenuti e quindi della validità della legge - e delle modifiche successivamente ad essa apportate - intesa come strumento per favorire la nascita dei parchi e, più in generale, per promuovere quella che si può definire la "rete ecologica nazionale". Oltre a ciò è opportuno riflettere sull'attualità dell'impianto generale e delle finalità della 394 anche alla luce delle grandi novità intervenute nel frattempo tanto sul terreno istituzionale (con il decentramento amministrativo ed il federalismo) quanto su su quello delle politiche ambientali e della loro strumentazione (come i grandi progetti di sistema quali Ape, Cip, le direttive comunitarie le leggi regionali, ecc). In altre parole si tratta di valutare se oggi servono o meno nuovi strumenti normativi per sostenere al meglio una nuova stagione delle aree protette italiane, maggiormente caratterizzata sui versanti dello sviluppo locale "autosostenibile" e sul più forte protagonismo degli attori istituzionali e sociali locali. Queste valutazioni sulla legge quadro 394 e sui risultati delle politiche della aree protette si intrecciano con le crescenti preoccupazioni per le minacce che da più parti sono portate ai parchi, e che preannunciano una sorta di possibile, pericolosa onda di riflusso contraria alle aree protette quali strumenti speciali e straordinari di conservazione e di promozione della nostra biodiversità. Il cuore del dibattito che intendiamo aprire prendendo spunto dal decennale della legge 394 è quindi questo: come sia possibile riprendere e rimotivare un movimento ampio a sostegno della missione dei parchi e con quali obiettivi si possa avviare una fase ancor più efficiente delle politiche di sistema per la conservazione e la valorizzazione del nostro patrimonio naturale. di Enzo Valbonesi |
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Come premessa, vorrei esprimere il mio pieno consenso all'iniziativa - assolutamente opportuna - del seminario di San Rossore dedicato ai dieci anni dal varo della legge 394. Una iniziativa che dà il via ad una fase di riflessione non solo retrospettiva e che culmina nel seminario previsto a Roma il 30 novembre, dieci anni esatti dopo l'approvazione del Parlamento della legge quadro sulle aree protette. Credo che partendo dalla 394 ci sia bisogno di un'analisi del lavoro svolto e degli obiettivi futuri, della missione, cioè, che attende i parchi. Qual è questa missione, la missione in senso generale? Superata la fase istitutiva, in accordo con la legge quadro, è quella di svolgere un ruolo preciso, quello di un luogo dove sperimentare appieno un modello di gestione del territorio, un modello più razionale e intelligente dell'utilizzo delle risorse naturali che consenta di avviare un processo di sviluppo locale autosostenibile. Ma siamo tutti d'accordo su quale sia la missione? Tutti d'accordo sul fatto che i parchi siano stati realizzati con un loro peso politico- istituzionale? Su questo ho dei dubbi: molti italiani vedono oggi le aree protette come qualcosa di consolatorio, di compensativo per "mettersi a posto la coscienza". Ma torniamo alla legge in oggetto, la 394. Qualsiasi legge, anche quelle di indirizzo, le leggi quadro, fissano degli obiettivi ed indicano degli strumenti: nel momento in cui si fa la verifica, dobbiamo andare oltre gli aspetti tecnico-legislativi, dobbiamo capire se gli obiettivi posti dalla legge in questi dieci anni sono stati raggiunti. E capire se e quali problemi sono stati affrontati e risolti, che cosa ci serve per risolverli e, in prospettiva quali aspetti vanno confermati ed approfonditi, per proseguire con quella scelta che il Parlamento fece dopo una lunghissima riflessione. Quello che a suo tempo venne considerato un ritardo (l'approdare ad una legge che ci vedeva fanalino di coda in Europa, che avviava l'Italia a istituire una vasta rete di aree protette) in realtà fu il frutto di un lungo, tormentato dibattito che ci aveva visto divisi, e tuttavia un dibattito utile e costruttivo. Un presupposto da non sottovalutare, oggi, in una fase in cui molti con una certa fretta pongono l'esigenza di cambiare la legislazione. Questa legge ha toccato dei principi fondamentali: è il frutto di una maturazione che ha portato ad una sintesi, credo, felice. Ripeto, ciò che va fatto adesso, a dieci anni dalla legge, è verificare se le azioni che la legge ha promosso hanno raggiunto la gran parte degli scopi prefissati. La risposta che si può dare credo sia affermativa per quanto riguarda gli obiettivi legati all'istituzione di nuove aree protette nazionali e anche per quanto riguarda gli stimoli dati alle regioni a darsi una propria legislazione in questo quadro. Non sono stati invece raggiunti - o solo in parte - gli obiettivi legati alla messa a punto di quegli strumenti generali importanti, come la Carta della Natura, che dovevano fare da base alle linee fondamentali di assetto del territorio, che dovevano cioè indurre una migliore organizzazione nell'uso delle risorse del territorio da parte del nostro paese. Altro obiettivo non raggiunto, quello che riguarda le aree protette marine, non istituite rispetto al numero previsto dalla legge. Restano poi questioni politiche aperte delle quali dobbiamo discutere anche se il dibattito che si sta riproponendo attorno ai parchi sia a livello centrale, sia delle regioni mi sembra trovi quasi tutti d'accordo sul valore, sull'importanza, sulla validità delle aree protette. Tutti, incluso il nuovo ministro dell'Ambiente sono addirittura d'accordo su estendere il numero. Ma dobbiamo stare attenti a non banalizzare il ruolo ed il concetto di parco. Molti hanno una propria, individuale, concezione dei parchi: non tutti li vedono come enti importanti, autonomi, bensì come una sorta di ente misto, di "pro-loco verde" (senza nulla togliere alle pro-loco). Le aree protette devono essere il luogo della diversità, ma - come diceva Giacomini - della diversità provvisoria per estendere quel modello di gestione delle risorse naturali nel rapporto con le attività antropiche al resto del territorio. Sul piano politico, nei dibattiti nazionali e regionali, c'è a mio parere la tendenza ad evocare obiettivi poco chiari: nelle dichiarazioni del ministro Matteoli, di cui peraltro apprezzo la pragmaticità, si fa sempre e comunque riferimento al fatto che le aree protette si possano e si debbano riperimetrare se questa è la richiesta che viene dal territorio. Un fatto talmente scontato e ovvio sul quale non è necessario insistere perché fa sorgere il sospetto che l'obiettivo sia proprio quello di riperimetrare. E ancora, porre l'accento su un avvicinamento nella gestione e nella partecipazione alle istituzioni locali non fa una grinza - è uno degli obiettivi della Federazione, attuato con la legge 426 - ma fa anche pensare ad un declino localistico, particolaristico delle aree protette che sono per loro natura beni di interesse generale. Se questo tema porta l'Uncem a pensare che i parchi devono essere gestiti unicamente dai Comuni e dalla Comunità dei parchi, ci preoccupa. E si badi bene che non abbiamo sempre difeso a spada tratta, come se si trattasse di una Bibbia, la 394. Ci siamo adoperati per quelle modifiche con le quali si sono volute recepire le istanze delle istituzioni locali e si è dato maggior peso alle comunità dei parchi. Sull'operato del governo non siamo qui a dare giudizi: per la Federazione contano i fatti e su questi ci esprimeremo. Certo il quadro non è roseo e mi sento abbastanza pessimista per il futuro, rispetto al peso politico che i parchi potranno guadagnare, date le premesse odierne. Siamo preoccupati perché nella legge finanziaria ci sono meno risorse per i parchi e perché in alcune regioni si tenta di rimettere in discussione i sistemi delle aree protette, utilizzando parti delle 394 per premere sull'istituzione di quelle aree contigue, vuote di significato, che dimezzano i perimetri dei parchi come in Liguria. Dobbiamo essere vigili e attenti per respingere con intelligenza gli attacchi, valorizzando le cose buone fatte finora, lanciando obiettivi nuovi, come la rete ecologica nazionale e i progetti di area vasta. Il tema forte è quello della connessione delle aree protette. Qui si gioca il futuro, per arrivare ad una seria politica di gestione del territorio. * Presidente della Federazione nazionale dei parchi e delle riserve naturali - Giulio Ielardi |
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Trenovequattro, vien voglia di chiamarla così. La legge "che non si tocca", che "va migliorata" e di cui s'invoca ogni mattina "un bilancio", quella "paracadutata dall'alto" oppure "mirabilmente integrata dal basso", cui si affidano dubbi amletici - "prima l'uomo o il muflone ?". Insomma, "riformiamo la legge-quadro" ma poi "giù le mani dalla 394". Trenovequattro, dopo dieci anni un numero ormai familiare per la piccola comunità che legge&scrive di parchi in casa nostra. Più del codice PIN del Bancomat, più dei maledetti decimali dell'euro. Trenovequattro, forse non starebbe male nemmeno come titolo di questa rivista - direttore che ne pensi ? Carta della Natura, art.3. Istituzione e gestione delle aree protette marine, artt.18 e 19. Parco del Gennargentu, art.34. |
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La 394 è stata una legge utile e positiva. E per il tempo nel quale è stata definita, dopo anni di dibattito dentro e fuori dal Parlamento, anche una legge positivamente innovativa. Sembrano fortunatamente ormai superate le polemiche, anche aspre, e le diffidenze che in passato hanno contraddistinto l'approccio delle popolazioni al tema dei Parchi. Le organizzazioni ambientalistiche da parte loro hanno ormai inteso che la presenza umana nell'area del Parco - e soprattutto di una popolazione attiva nell'agricoltura, nell'attività connessa al bosco, in un turismo compatibile, nell'artigianato, - è un fatto positivo e non negativo. Anche le comunità locali, oltre agli Enti locali, cioè le popolazioni, hanno acquisito una diversa cultura ed un diverso atteggiamento nei confronti del Parco. Il Parco è certamente dello Stato, della Regione o della Istituzione che lo ha promosso, ma è soprattutto di chi in quelle zone - e mi riferisco ovviamente per la mia parte alle zone montane - vive e lavora e avendo da sempre una cultura legata al territorio ed alla sua gestione, al suo utilizzo e alla sua tutela, è portato a sentire il parco come proprio. Certo, è all'interno di queste popolazioni che molto spesso trova origine chi incendia, chi è dedito al bracconaggio, chi cerca di speculare su proprietà intercluse nei confini del parco. Ma allorché gli atteggiamenti, da collettivi come erano un tempo, diventano sempre più atteggiamenti individuali e residuali, sono quelle stesse popolazioni che finiscono per isolare comportamenti che prima erano tollerati e che ora diventano inaccettabili. Va quindi continuata ed incentivata ogni azione che tenda a coinvolgere le popolazioni col parco, certamente sotto il profilo dell'interesse economico, del lavoro, del reddito, questo è ovvio. Ma soprattutto va incentivata e continuata ogni azione che tenda a riconoscere, valorizzare, rispettare, assumere la cultura locale, perché così salderemo la cultura delle popolazioni locali con l'interesse della tutela ambientale e della tutela del parco. La tutela dell'ambiente ci appartiene naturalmente, perché quello è il nostro ambiente; noi ci viviamo e vogliamo viverci e vogliamo avere un ambiente che sia consono ad una adeguata qualità della vita. Sui parchi e sulle aree protette le visioni degli amministratori locali e degli ambientalisti debbono convergere verso un ambiente sano e tutelato, non come riserva indiana ma come habitat di eccellenza che necessita di cura, manutenzione, controllo di presenza attiva agroforestale, artigianale, turistica, in modo da mantenere la popolazione e di assicurarne possibilità di fruizione dall'esterno. In questa prospettiva, è senz'altro positiva e ben accolta la crescente istituzione di nuovi parchi e aree protette, in particolare in area montana, in un quadro di concertazione con le popolazioni locali. Credo che il punto di intesa in ordine al pensiero non solo sui parchi ma sulle tematiche dell'ambiente nelle aree montane si è avuto con l'approvazione della legge 97 del 1994, dove si è assunto il concetto di habitat e non soltanto il concetto di tutela ambientale. Gli uomini ed i loro rappresentanti nella montagna hanno riconosciuto, tanto per farmi capire, il diritto di esistere del lupo, e coloro che intendevano tutelare il lupo hanno inteso il diritto di esistere dell'uomo sulla montagna. Oggi è necessario andare oltre questo momento di equilibrio, favorendo ad esempio rapidamente la presentazione di un testo legislativo di aggiornamento della 394 che, congiuntamente con la riforma della legge sulla montagna, possa portare a quegli aggiustamenti utili alla legge per garantire un rilancio della politica e soprattutto delle azioni in questo settore al quale riconosciamo, Comunità montane e Comuni montani, sempre più rilevante importanza. Il Testo Unico n. 267/2000, di riforma dell'ordinamento delle autonomie, ha riconfermato e valorizzato il ruolo dell'ente locale Comunità montana-unione di comuni, sia come soggetto di programmazione e sviluppo di tali territori, che come istituzione dotata di ampia autonomia statutaria preposta all'esercizio associato per conto dei Comuni di servizi e funzioni. Si è quindi ulteriormente accentuata la naturale vocazione della Comunità montana a cooperare e "fare sistema" con il Comune. D'altro canto è sempre più importante sviluppare adeguate forme collaborazione con gli altri Enti presenti nel territorio, primi fra tutti i Parchi, in relazione all'esigenza di valorizzare il metodo della pianificazione e della programmazione, che investe tutti i soggetti di scala sovracomunale. E' proprio di questi anni una importante iniziativa che vede insieme presenti Province, Parchi e Comunità montane nella realizzazione del Progetto APE (Appennino Parco d'Europa), patrocinato dal Ministero dell'Ambiente e da alcune Regioni, con una visione certamente non vincolistica ma aperta a tutte le potenzialità dello sviluppo ecocompatibile, nel rispetto delle esigenze di tutela e di quelle che intendono promuovere la sollecitazione virtuosa di ogni risorsa presente, umana e materiale. Un modello interessante che ad avviso dell'UNCEM deve essere esteso anche all'arco alpino, sfruttando il percorso di lavoro concertato all'interno della Consulta per l'applicazione della Convenzione per le Alpi. Devo aggiungere che tale approccio è sempre stato presente negli orientamenti dell'UNCEM. A seguito dell'emanazione dell'ultima legge sulla montagna, la 97 del 1994, che disciplina gli interventi speciali per le zone montane con una visione, come detto, di habitat, l'Unione ha stipulato ad esempio un protocollo d'intesa con il mondo della cooperazione, che coinvolge anche la sfera dei parchi. L'art. 9 di tale protocollo, dal titolo "Parchi e altre aree protette", recita infatti: "Le parti si impegnano ad azioni comuni per la tutela e lo sviluppo di attività economiche all'interno delle aree protette. L'impegno di cui al comma precedente potrà prevedere accordi formali con gli Enti gestori delle aree protette ed il coinvolgimento delle associazioni dei coltivatori diretti, degli agricoltori, degli artigiani, degli operatori turistici e delle imprese di utilizzazione e trasformazione boschiva.". L'invito che rivolgo è quindi quello di lavorare insieme per far sì che le popolazioni montane sentano sempre più il parco, o la riserva o l'area protetta, in genere non come cosa altrui e come tale estranea se non nemica, ma come cosa propria. Se vive la montagna nel suo complesso, vive anche il parco. Se la montagna muore, il parco non vive, diventa un "museo" scarsamente frequentato, e la stessa politica di tutela non coglie il segno dello sviluppo sostenibile che l'ha ispirata. * Presidente UNCEM - Carlo Desideri * |
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1. Premessa Dieci anni dopo "Uomini e parchi" di Valerio Giacomini, la legge n. 394/1991, dopo un dibattito quanto mai lungo e complesso, viene approvata con l'aspirazione di superare le incertezze istituzionali seguite alla seconda regionalizzazione (D.P.R. n.616 del 1977), di tradurre in soluzioni istituzionali e giuridiche i mutamenti di idee e di approcci nel frattempo sviluppati in ordine alla conservazione della natura e ai parchi. Per vedere se la legge n. 394 dia una risposta ai problemi posti da "Uomini e parchi", ma anche se e come le idee di Giacomini possano essere oggi ancora utili a interpretare, indirizzare e sviluppare il senso delle innovazioni avviate dalla legge n. 394, ho esaminato qui di seguito, sia pure sinteticamente, i caratteri essenziali della legge stessa; alcuni aspetti della sua attuazione e quale sia oggi lo stato, per così dire, "vivente" della legge, vale a dire ciò che essa ha effettivamente prodotto. 2. I caratteri essenziali della legge n.394
3. Problemi di attuazione e limiti della legge
Franco Ferroni * |
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Sono passati più di venti anni dal 1980, anno in cui il Wwf con il Comitato Parchi e Riserve analoghe e l'Università di Camerino, lanciarono la sfida del 10% di natura protetta entro il 2000. Quella sfida rianimò il dibattito sulla conservazione della natura e la gestione sostenibile delle sue risorse nel nostro paese costituendo l'indispensabile premessa all'approvazione undici anni dopo, nel dicembre del 1991, della Legge quadro sulle aree protette. Il dibattito istituzionale e culturale sulla normativa per i parchi è durato in realtà quasi un secolo, sia nelle aule parlamentari che nei preziosi scritti di singoli specialisti e addetti ai lavori. Ricordiamo la mozione parlamentare alla Camera nel 1905 con cui si invitava il Governo a presentare un disegno di legge "per la conservazione delle bellezze naturali che si connettono alla letteratura, all'arte, alla storia d'Italia" e l'ordine del giorno del Senato del 1909 con cui si invitava il Governo a tutelare i beni ambientali, fino all'istituzione nel 1922 del Parco Nazionale del Gran Paradiso e nel 1923 del Parco Nazionale d'Abruzzo. Nel dopoguerra (1952) fu affidato al C.N.R. l'incarico di redigere una proposta di legge sulle aree protette, ma il testo non fu mai portato all'esame del Parlamento. Nel 1962 il lavoro del C.N.R. fu recuperato da un deputato, Vincenzo Rivera, che lo presentò alla Camera senza però alcun risultato concreto. Nel 1964 su proposta di Italia Nostra si presentò un altro disegno di legge mai approvato ed il dibattito fu congelato a cavallo tra gli anni '60 e '70 sul trasferimento di competenze alle Regioni, un tema che si ripropone oggi a dieci anni dall'approvazione della desiderata Legge quadro. Con queste premesse ed in un contesto di polemiche, enormi tensioni e fraintendimenti strumentali sulle finalità delle aree naturali protette e le relative competenze dello Stato, delle Regioni e degli Enti Locali, l'approvazione il 6 dicembre del 1991 della Legge quadro sui parchi rappresenta un indiscutibile conquista di civiltà per il nostro paese, che mette in secondo piano le gravi carenze comunque presenti nella Legge 394/91. Una vera sistematica politica dei Parchi è stata quindi avviata in Italia solo dal 1991, ma l'azione di alcuni parchi nazionali storici e l'esperienza di alcune Regioni, che avevano anticipato la Legge quadro con proprie specifiche normative, hanno costituito i primi importanti modelli di gestione per le aree naturali protette. Fino al 1980, solo 5 parchi nazionali e 43 aree protette regionali risultavano istituiti, di queste 28 erano parchi naturali regionali. Nei dieci anni che separano l'appuntamento di Camerino del 1980 dalla data storica dell'approvazione della Legge quadro sulle aree naturali protette risultano istituite complessivamente 155 nuove aree protette regionali, di cui 40 parchi naturali regionali, 100 riserve naturali regionali, 15 altre aree protette. Il contributo maggiore alla natura protetta in quegli anni arriva dalle Regioni del nord - ovest con 90 nuove aree protette regionali (la Lombardia in particolare con 73 aree, seguita dal Piemonte con 15 aree), nel nord - est nascono 17 nuove aree protette di cui 12 in Emilia Romagna e 3 nel Veneto, mentre il sud del paese e le grandi isole si distinguono per il grave immobilismo nella tutela del loro straordinario patrimonio naturale. La sfida del 10% lanciata dal Wwf fu quindi chiaramente raccolta più dalle Regioni che dallo Stato, e fu sostenuta dall'azione di tutto il movimento ambientalista italiano ormai diffuso sul territorio ed in forte crescita durante quel decennio. Sarà l'approvazione della Legge quadro nel 1991 a determinare però la vera svolta per la conservazione della natura in Italia, anche per il numero delle nuove aree naturali protette istituite. Oltre alla nascita di 16 nuovi parchi nazionali, per alcuni formalmente anticipata nel 1989 in un capitolo della Legge finanziaria, la legge quadro ha promosso anche l'istituzione da parte delle Regioni e degli Enti locali di 230 nuove aree protette regionali. Un incremento determinato dal recepimento da parte di molte Regioni della Legge quadro sulle aree protette attraverso una loro specifica normativa regionale per l'istituzione e la gestione di parchi, riserve naturali ed altre varie tipologie di aree naturali protette, come previsto dall'art.28 della stessa Legge 394/91. I nuovi parchi naturali regionali istituiti dal 1991 alla fine del 2000 saranno così 46, le nuove riserve naturali regionali 111, le nuove altre aree protette di varia classificazione 73, con il sud e le isole che recuperano rapidamente il loro storico ritardo. Se consideriamo i parchi nazionali, le riserve naturali dello Stato e le aree naturali protette istituite dalle Regioni e da altri Enti Locali il traguardo della percentuale del 10% di territorio italiano protetto entro il 2000 è stato sicuramente raggiunto. Complessivamente oggi le aree naturali protette nel nostro paese sono rappresentate da 21 parchi nazionali, 143 riserve naturali dello Stato, 18 riserve marine statali, 114 parchi naturali regionali, 252 Riserve naturali regionali e 128 altre aree naturali protette (dati del Check Up realizzato dal Wwf Italia nel 2001 che integra l'elenco ufficiale delle aree protette approvato il 20 luglio 2000 dalla Conferenza permanente Stato Regioni). Il sistema delle aree naturali protette nel nostro paese, anche se riteniamo ancora prematuro definirlo tale, risulta essere però molto giovane, sicuramente ancora fragile, con una gestione ostaggio di poteri più forti che ne prevaricano le reali finalità. Un sistema di aree protette che deve per questo essere difeso e rafforzato, nonostante le sue lacune e le sue contraddizioni. Se ci limitiamo ai numeri dell'Italia protetta potremmo dire che la nostra ambiziosa sfida è stata vinta, in realtà questo risultato quantitativo non corrisponde proprio alle aspettative di tutela e valorizzazione sostenibile del territorio che motivarono l'azione del movimento ambientalista e non si configura ancora realmente come un successo concreto in termini di conservazione della natura e delle sue risorse. Una analisi più accurata della realtà riduce, purtroppo, l'entusiasmo per una sfida che appare vinta nella pratica quotidiana solo sulla carta. Importanti aree naturali del nostro paese attendono ancora di essere adeguatamente salvaguardate e gestite come parchi nazionali, nonostante fossero previsti dalla legge quadro nel 1991 e da successive leggi e decreti attuativi. Problemi non mancano neppure per i primi parchi nazionali istituiti dopo il 1991 con l'approvazione della legge quadro. Se è stato fortunatamente superato lo scandaloso commissariamento del parco nazionale del Cilento e Vallo di Diano, con una brutta figura per il Ministro Matteoli che aveva voluto la sostituzione del presidente in carica con un commissario ex costruttore edile, ex deputato di Alleanza Nazionale non eletto alle recenti elezioni politiche nelle liste di Forza Italia, venendo poi smentito dal Tar della Campania che ha dato ragione a quanti, tra questi il Wwf, avevano ricorso contro il commissarimento, altri due Parchi nazionali risultano ad oggi (ottobre 2001) commissariati. Sono i parchi nazionali della Maiella e del Gran Sasso - Monti della Laga, per i quali il Ministero ha avviato dal 27 luglio scorso le procedure per il rinnovo dei Consigli direttivi e si attende la nomina dei rispettivi Presidenti. Uno dei punti deboli della Legge 394/91 è risultato essere senza dubbio la figura del direttore del parco, una debolezza che per il Wwf resta irrisolta nonostante le modifiche apportate dalla Legge 426 del 1998. La difficoltà con cui si riesce a garantire ai parchi nazionali un direttore stabile, oltre che professionalmente competente, è una delle principali ragioni dell'inefficenza della gestione delle nostre aree naturali protette nazionali. Il risultato tangibile di questa difficoltà è il seguente: il parco nazionale dell'Arcipelago Toscano è senza direttore dal 1 giugno di quest'anno, ha quindi passato l'estate cioè il periodo d'incendi e di balneazione senza il massimo responsabile dell'organizzazione. Senza direttore anche il parco nazionale della Maddalena che, peraltro, non uscendo dalla situazione di gestione straordinaria, l'ha avuto solo come incarico temporaneo e non di ruolo. Non ha mai avuto il direttore neanche il parco nazionale delle Cinque Terre. Senza direttore il parco nazionale del Gargano: il direttore precedente, dimessosi oltre due anni fa, non è stato mai stato formalmente sostituito. Senza direttore il parco nazionale dell'Asinara poiché il direttore precedente era un dirigente regionale comandato ed ha avuto altri incarichi senza che fosse sostituito. Senza direttore stabile infine il parco nazionale della Val Grande, il precedente direttore si dimise oltre un anno fa e l'Ente con un contratto annuale di consulenza ha provvisoriamente incaricato un addetto facente funzioni di direttore. La precarietà dei direttori, la carenza di personale, i problemi burocratici e la lentezza dei processi decisionali, oltre alla difficolta' di trovare un interesse comune tra Ente parco e Comunita' del parco (in pratica con la maggioranza dei Comuni territorialmente competenti) si traduce spesso in un'incapacita' di spendere anche i fondi per investimenti messi a disposizione dal ministero dell'Ambiente. Si valuta che i residui di cassa a tal fine destinati oggi a disposizione dei parchi nazionali superino i 400 miliardi. I parchi in tal senso piu' "esposti" e quindi con maggior potenzialita' di investimento, risultano essere attualmente il Pollino, il Cilento, l'Aspromonte e il Gargano. Mentre gli enti parco vengono paralizzati da una complessa e soffocante burocrazia amministrativa il patrimonio naturale che dovrebbero tutelare continua ad essere spesso sottoposto ad aggressioni, vandalismi e scandalose speculazioni. Non possiamo non riconoscere che l'attuale situazione di emergenza per molti parchi nazionali è in buona parte ereditata e la responsabilità di ritardi ed omissioni non è certo attribuibile all'attuale Governo. Pur alla presenza di pessimi segnali come il commissariamento strumentale del Parco nazionale del Cilento, l'adozione di criteri per l'utilizzo delle risorse finanziarie che rilanciano l'insostenibile obiettivo dell'autosufficienza economica degli enti parco, la dichiarata volontà di dare riscontro alle richieste dei Comuni di modifica dei perimetri di alcuni parchi e di una ridefinizione della rappresentanza nei consigli direttivi a vantaggio di un maggiore potere per gli enti locali, il ministero dell'ambiente, non solo è per tutti un interlocutore obbligato, ma resta il potenziale artefice dell'indispensabile, quanto auspicabile, rilancio della politica dei parchi per garantire la conservazione del patrimonio naturale nel nostro Paese. * Responsabile Unità Aree Protette del Wwf Italia - Renzo Moschini |
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In un ponderoso fascicolo disponibile anche sul sito Parks.it che i lettori della rivista hanno ricevuto, ho cercato di tratteggiare criticamente luci e ombre del decennale della legge quadro. Anche per questo nello spazio limitato di cui dispongo vorrei soffermarmi in queste note su un aspetto specifico al quale peraltro ho già dedicato in altre occasioni qualche approfondimento che ritengo, però, non sia inutile riprendere. Il tema è quello delle aree protette marine. Recentemente il ministro Matteoli ha annunciato una specifica iniziativa, Afrodite', per rilanciare il tema con particolari iniziative di monitoraggio riferite soprattutto ad alcune realtà isolane. Dovremo capire meglio di cosa si tratta sulla base di elementi e dati di cui al momento non dispongo. Ma non è la prima volta che in sede ministeriale si preannunciano impegni, talvolta progetti e piani anche con suggestive denominazioni, in più di un caso accompagnati da qualche decreto istitutivo di nuove riserve marine o correttivo' di riserve già istituite, talvolta comprensivi anche di finanziamenti dall'esito quasi sempre incerto. E tuttavia nonostante queste sporadiche iniziative più che alla costruzione di un sistema di aree protette marine (la legge del mare e la 394 ne prevedono complessivamente una cinquantina) sembra di assistere alla defatigante tessitura di una sorta di Tela di Penelope. L'elenco dei decreti in questi anni si è naturalmente allungato, di riserve marine se ne sono inventate addirittura di nuove, ma l'elenco di quelle in lista d'attesa da troppi anni rimane lunghissimo. Questi dati niente affatto entusiasmanti vengono ogni tanto ricordati in qualche documento più o meno ufficiale, a cui segue l'immancabile impegno a fare in futuro più e meglio di quel che si è riusciti a combinare in passato. Ma il quadro d'insieme rimane, come sappiamo, sconsolatamente deludente e modesto. E soprattutto riesce sempre meno spiegabile perché, a fronte di una complessiva crescita del sistema delle aree protette terrestri di ogni tipo, a mare la situazione non decolli, resti di fatto al palo, come ha scritto poco tempo fa un noto quotidiano. Un bilancio questo che non riguarda peraltro solo il decennio della legge quadro ma anche i quasi dieci anni che l'hanno preceduto con la legge sul mare che prevedeva la istituzione di circa 25 riserve marine. E' dunque da qui che bisogna partire per cercare di capire anche quello che è successo o non è successo nei dieci anni della legge quadro. Intanto va detto che quella italiana è una situazione assolutamente singolare rispetto a tutti gli altri paesi europei che si sono dotati prima' di una legge nazionale sui parchi che ha trovato poi una sua applicabilità anche a mare. Da noi il percorso è stato opposto. Nell'82 ci siamo dotati di una legge sul mare che dopo una serie di vicende e rimpalli parlamentari ha stabilito la istituzione di una serie di riserve marine che originariamente non erano previste dal testo. E ciò mentre continuava ad essere rinviata una legge nazionale sui parchi che sarebbe arrivata in porto soltanto nel' 91. Le riserve marine precedevano dunque nella legislazione nazionale le aree protette terrestri con una normativa rimbalzata nelle aule parlamentari un po' per caso. Esse quindi non solo non erano collocate in un contesto nazionale adeguato, ma presentavano connotati sia nelle finalità che nelle forme di gestione che la legge quadro avrebbe profondamente ridefinito. Se le finalità delle riserve marine coerentemente con concezioni allora dominanti anche nelle elaborazioni internazionali apparivano fortemente conservazioniste', gli strumenti di gestione erano indelebilmente segnati da una connotazione ministeriale al punto che risultavano affidati ad organi militari' (le capitanerie di porto) che gioco forza non potevano disporre delle competenze indispensabili per definire e programmare politiche di protezione. E per quanto fossero state correttamente inserite nel piano delle coste, non avendo quest'ultimo mai visto la luce, è chiaro che le riserve marine si sono trovate a fare i conti da un lato con una collocazione istituzionale impropria (ministero della Marina Mercantile) e dall'altra con la mancanza di un valido quadro di riferimento nazionale, sia per il fallimento di qualsiasi politica di pianificazione del sistema costiero, sia per la carenza di una normativa organica generale sulle aree protette che ne precisasse meglio compiti e ruoli. Se dunque il mancato decollo delle riserve marine nonostante i molti studi avviati ma raramente conclusi in sedi diverse, ministeriali e non, fino al' 91 si può spiegare anche se non del tutto per queste anomalie', le cose cambiano (e avrebbero dovuto cambiare profondamente) con l'entrata in vigore della legge 394. Poiché questo non si è verificato, i motivi di questo deludente risultato non possono più essere spiegate semplicemente con l'invito a portare pazienza. Eppure le novità introdotte dalla legge quadro erano molte e assai importanti a cominciare dal fatto che le riserve marine non erano più "orfane" di una legge nazionale. Finalmente anche noi disponevamo di una legge in grado di delineare per tutte le aree protette di qualsiasi tipo e dimensione finalità e strumenti di gestione. Su entrambi i fronti la legge 394 presentava rimarchevoli novità che avrebbero finalmente potuto liberare anche le riserve marine da quella "settorialità" e rigidità che era sicuramente alla base di un fallimento in parte "annunciato". Con la legge quadro venivano innanzitutto ricalibrate - diciamo così- le finalità della protezione che perdeva alcuni caratteri di "rigidità" che ormai non si attagliano più alla nuova realtà non solo del nostro paese. La protezione - e ciò valeva anche per la protezione a mare- si apriva a forme di collaborazione e coinvolgimento di interessi fino ad allora considerati estranei se non compromettenti. Inoltre, e proprio in conseguenza di questa "correzione" di tiro, anche la gestione delle aree protette veniva a perdere quei caratteri di burocraticità ministeriale che erano compendiati in maniera esemplare nelle Commissioni di riserva, alle quali era stata affidata dalla legge dell'82 la gestione delle riserve marine con gli esiti che abbiamo visto. La legge quadro assegnava la gestione delle aree protette nazionali e regionali ad enti misti assolutamente diversi dalle Commissioni di riserva presiedute dalla capitaneria di porto. Se questo era estremamente chiaro, non lo era però altrettanto il fatto che ciò doveva valere a tutti gli effetti anche per le aree protette marine che impropriamente e ambiguamente continuavano invece ad essere definite "riserve". Mentre insomma parchi e riserve nella legge quadro trovavano ormai un netta e distinta collocazione, a mare permaneva una zona grigia di confusione che permane al punto che qualcuno pensa che persino all'interno di un parco nazionale la riserva marina debba avere una gestione distinta, affidata appunto ad una commissione di riserva. La quale in sostanza sopravvive - perché questa è la realtà anche se troppi fanno finta di non vederla- come un reperto normativo incompatibile e in contrasto con le caratteristiche degli enti di gestione delle aree protette quali configura la legge quadro. E le modifiche introdotte dalla legge 426 che dopo il passaggio delle competenze precedentemente assegnate al ministero della Marina mercantile al ministero dell'Ambiente, hanno affidato a quest'ultimo la designazione della presidenza della Commissione prima affidata alla capitaneria di porto, non solo non hanno risolto questa incongruenza, ma se possibile l'hanno accentuata. E' infatti una vera assurdità che lo stesso ministero debba ricorrere per aree protette affidate alla sua titolarità ad un "doppio" comando per aree protette a tutti gli effetti "unitarie", essendo ormai acclarato come risulta da tutti i documenti europei, che la gestione mare - terra deve essere integrata'. Lo stesso ministro Matteoli ha dichiarato che ci vuole vedere chiaro su questo punto prima di decidere cosa fare per i parchi nazionali dell'Asinara, Maddalena e Arcipelago Toscano la cui estensione delle competenze a mare non dovrebbe presentare problemi, come non ne presenta negli altri paesi europei anche a noi vicini. Lo faccia evitando le "trappole" della legge. Se proprio ritiene come taluni in sede ministeriale si ostinano cavillosamente a sostenere che la legge lega le mani' al ministero che non può fare a meno della Commissione di riserva, si precisi in una qualsiasi forma e uno dei tanti strumenti a disposizione, che le aree protette marine sono gestite come tutte le altre e che quando terra e mare fanno capo ad un unico parco sono gestite da un unico ente. Possibile che sia tanto complicato fare quello che altri paesi fanno da sempre senza imbarcarsi in operazioni che a quasi venti anni dalla entrata della legge dell'82 hanno impedito che a mare si potessero conseguire i risultati positivi e tangibili che si sono ottenuti in metà tempo a terra? Se c'è una cosa davvero sorprendente da apparire persino inspiegabile è che su questo punto le critiche, quando ci sono, si riferiscano genericamente ad un "ritardo" di cui non ci si prende mai la briga di analizzare concretamente. Può accadere perciò che a cominciare dai responsabili di questa situazione per i quali è venuto meno anche l'alibi della "doppi" titolarità ministeriale, si continui a presentare la gestione separata delle riserve marine come ispirata alla massima collaborazione con gli enti locali coerentemente - si dice - con i nuovi indirizzi di politica istituzionale. Ma chiunque vada a vedere cosa succede (e non è molto) in alcune delle riserve marine di più o meno recente istituzione potrà verificare agevolmente che il ministero si muove con la più sfrontata discrezionalità ora coinvolgendo il comune ora anche la provincia che però altrove è rigorosamente esclusa. Insomma ci si muove come torna meglio e non secondo lo spirito e la lettera della legge quadro che vuole che le aree protette siano gestite sulla base della "leale collaborazione" di tutti i livelli istituzionali. Il che conferma, se ancora ce ne fosse bisogno, che le Commissioni di riserva sono ormai solo uno strumento superato di cui ci si serve per conservare un "potere" ministeriale che non ha più senso proprio alla luce dei nuovi indirizzi di politica istituzionale operanti non soltanto nel campo delle aree protette. D'altronde, se non fosse questo lo spirito che anima la gestione delle aree protette marine, come potrebbero spiegarsi vicende grottesche e allucinanti come quelle verificatesi a Portofino dove, grazie alla "lungimiranza" ministeriale, si è riusciti in un colpo solo a mortificare il parco regionale non affidandogli la gestione della riserva marina per darla in gestione ai sindaci nemici del parco che ora stanno gestendo il consorzio della riserva con lo stesso animo con cui partecipano alla vita del parco. Ecco perché nel momento in cui si fa un bilancio di questo decennio non si deve dimenticare che il punto davvero irrisolto rimane proprio quello delle aree protette marine. E deve dire pure qualcosa il fatto che, pure essendo sotto gli occhi di tutti il bilancio fallimentare in questo comparto delle aree protette, quando si parla della legge quadro raramente a questo si faccia riferimento. C'è anche in questa sottovalutazione probabilmente la conferma di un ritardo culturale che fa considerare le vicende del mare e della costa come altro' rispetto ai problemi terrestri. Non è questa una novità e neppure una specificità solo nazionale, se è vero che sono sempre più frequenti e ricorrenti i richiami dell'Unione Europea ad una politica integrata nella gestione costiera segno che i ritardi non riguardano unicamente il nostro paese. Ma ciò non rende meno preoccupante il nostro ritardo che almeno per quanto attiene alle aree protette appare più grave che in altri paesi. Se vogliamo dunque che il bilancio di questo decennio serva non a riaprire vecchie contese ma a individuare cosa ancora non va o non va abbastanza bene all'interno di un risultato complessivamente estremamente positivo, sarà bene mettere nel conto la vicenda delle aree protette marine. E ciò riguarda in prima persona innanzitutto il Ministero dell'Ambiente ma anche le regioni ed in particolare quelle speciali' che in taluni casi dispongono di competenze di cui possono e debbono avvalersi di più e meglio. Penso alla Sicilia e non solo. Anche la Federazione dei Parchi e le aree protette impegnate con CIP debbono dare un loro contributo più e meglio di quanto in questo specifico settore sono riusciti fin qui a fare. Questo stesso fascicolo d'altra parte non può non essere considerato un importante contributo che la rivista non ha ma fatto mancare. |
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