PARCHI | |
Rivista della Federazione Italiana Parchi e delle Riserve Naturali NUMERO 35 - FEBBRAIO 2002 |
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QUELLA STAGIONE VERDE DAL NOVANTACINQUE AL NOVANTASEI In un clima di timidezza generale |
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Sono grato alla Federazione dei parchi per questo invito alla giornata dedicata al decennale della legge 394. Grato perché mi offre l'occasione di ricordare lo straordinario periodo a cavallo tra il 1995 - 1996 nel quale, nella mia qualità di Ministro dell'Ambiente, ebbi l'opportunità di firmare i decreti per la costituzione del Parco della Majella, del Parco Nazionale del Gran Sasso e i Monti della Laga, del Parco del Vesuvio, del Parco del Gargano, quello del Cilento, nonché quello delle isole della Maddalena e di dare quindi attuazione al corpo centrale della legge 394 e di sancire a parco nazionale una vasta area del Paese (si trattò circa del raddoppio, se ben ricordo). Nel 1995 entrai come Ministro dell'Ambiente nel governo Dini, un governo tecnico che aveva i compiti tipici dei governi tecnici, un compito di transizione, ma da svolgere in senso attivo. Il governo di per sé non aveva tra i suoi programmi, in modo specifico, la formazione dei parchi nazionali, ma mi capitò di trovare sul tavolo del Ministero, tra le varie iniziative possibili che avrebbero potuto qualificare l'attività del nuovo Ministro in carica, le bozze dei progetti di individuazione e perimetrazione dei parchi a vari stadi di definizione. Ritenni di dedicare a questo tema tutto l'impegno personale possibile e cercai di sollecitare e seguire tutte le azioni necessarie per poter completare i procedimenti di formazione, che richiedevano, tra l'altro, un intenso lavoro nei confronti degli enti locali e dei soggetti che concorrevano al procedimento. Una stagione "verde" Fu davvero una grande avventura, una stagione assolutamente particolare, una primavera verde dei parchi, che poté essere svolta in un clima politico che circondava quei governi tecnici di transizione, caratterizzato, su molte questioni, da una certa dose di timidezza, oserei dire, una certa dose di clandestinità. Non erano all'opera sul piano politico e parlamentare quelle tensioni programmatorie che avevano portato alla formazione della legge; pressanti problemi politici pesavano sul Paese che inducevano semmai alcune disattenzioni su alcuni obiettivi specifici. Era diffuso un senso, come ho detto, di timidezza e di incertezza. Non incontrammo né bandiere di battaglia, né steccati di opposizione. Semmai una certa preoccupazione di esporsi, sia in un senso che nell'altro: in generale nelle forze politiche un certo timore di essere esclusi da fatti importanti, una certa adesione all'affermarsi di interessi di natura pubblica, ma con motivazioni tra le più svariate, concepite più per parare osservazioni altrui che per manifestare opinioni proprie. Eravamo abbastanza consapevoli di questo stato di cose, ma anche consapevoli che se non avessimo affrontato con grande energia tutte le fasi finali e le complesse procedure necessarie a concludere gli atti e quindi la firma dei decreti, molto probabilmente quella stagione non si sarebbe più ripetuta. Esisteva un forte rischio che la legge finisse con l'essere se non accantonata, quantomeno rivista e ridisegnata, e ciò anche perché, dietro le bandiere del decentramento istituzionale ed amministrativo, che in quel periodo si diffondevano nell'intero arco politico, si intravvedeva una sempre più diffusa tentazione di sospensione delle leggi nazionali riguardanti il territorio. Furono scelte necessariamente elitarie La costituzione di questi parchi avvenne dunque in questo passaggio particolare della nostra vita politico-istituzionale. Si trattò di scelte compiute in queste particolari circostanze, sulla base di una buona dose di volontà di governo e di una meno individuabile dose di convincimento politico diffuso e partecipato. Queste scelte furono necessarie perché, come ho detto, se non si fosse fatto così, era alto il rischio di una generale sospensione. Ciò lasciò naturalmente in parte aperti e rinviati al dopo i problemi della attuazione e realizzazione ed organizzazione del consenso, intendo quello dato alle iniziative in sé e per sé, non quello più generico dato per non dispiacere all'opinione pubblica. La questione che mi pare tuttora presente, ogni volta che ci riuniamo e discutiamo intorno a questi temi è quella dell'opinione locale, quella degli interessi locali, delle regole interne, del rapporto tra centro e periferia, tra governo centrale ed enti locali. Che cosa significhi esattamente "parco nazionale" era certamente allora, e forse in parte tutt'oggi, qualcosa di non precisamente chiaro alle popolazioni locali, che non furono informate fino in fondo. Non sono chiari i diversi significati e i diversi obiettivi perseguiti attraverso la delimitazione di un'area del territorio nazionale, nella sua destinazione a parco, quali possano essere le diverse implicazioni e i diversi contenuti delle azioni di protezione all'interno di ogni parco e le diverse ragioni che hanno reso necessaria quella protezione. E' ampia la gamma tra il concetto di protezione ed il concetto di tutela. Vi è chi considera i parchi come la realizzazione di una politica più intensa di protezione del paesaggio, vi è chi li considera strumenti indispensabili per specifiche azioni di difesa di specie e di ambienti particolari. Si tratta di scopi e contenuti che devono essere ben chiari dal momento che trattasi di istituzioni che, se possono nascere come sono nate in quel particolare frangente, per volontà di governo, si reggono però nel tempo effettivamente solo sul diffuso consenso. E' difficile, in qualsiasi realtà politico-geografica, che un parco possa esistere ed essere correttamente governato in relazione ai suoi fini, se intorno ad esso non vi è una civiltà che faccia propri quegli obiettivi e che faccia propria questa realtà tutelata. Uno spirito di comunità è fondamentale per poter condividere l'orgoglio di essere parte di un sistema speciale tutelato: l'orgoglio di appartenere ad una comunità fondata su valori che non sono quelli di una comunità agricola o valori derivati dalla storia e dalle vicende del passato, ma quelli di una comunità al cui centro è questo "bene comune" con il quale si convive e del quale si condividono i destini. Questo è il completamento necessario, ancorché complesso, per una realtà nella quale i parchi non sono i figli di una cultura preesistente che li ha sentiti come necessari, ma sono figli di un intervento necessariamente centrale ed unitario: ora si chiede agli uomini che li guidano e alle istituzioni che li governano di diventare promotori di quella cultura locale non presente e non diffusa al momento della partenza. E qui entrano in gioco i dilemmi sui ruoli, le responsabilità e i rapporti tra le diverse istituzioni centrali e locali. Un dilemma che rischia in realtà di essere paralizzante, se non viene superato in una visione più oggettiva, nella consapevolezza dei diversi modi in cui necessità ed opportunità si articolano, nel tempo, per il governo di un Paese. Voglio cioè dire che se è ben vero che occorre una forte adesione dei soggetti locali, è altrettanto vero che è difficile procedere se non si ha una forte convinzione ed altrettanta determinazione politica a livello nazionale. Non vi è infatti dubbio che nelle realtà locali, sono presenti mille interessi possibili che possono rivelarsi antagonisti all'idea della delimitazione di un parco e della sua corretta gestione. In un momento della nostra storia che tende a redistribuire la sovranità verso livelli sempre più bassi, fino ad accarezzare le estreme forme di individualismo, non c'è dubbio che aumenta il numero di coloro che possono intervenire sulle decisioni relative al paesaggio e al territorio e non vi è dubbio che aumenta la capacità di rappresentazione di interessi particolari contrari, mentre aumenta la difficoltà di rappresentazione degli interessi collettivi. Si tratta di un dato di fatto. Se non vi è nel Paese, e quindi anche al centro, nella civiltà nazionale, nei partiti politici, nelle leggi nazionali, una forte tensione verso l'obiettivo di tutela di queste realtà in quanto realtà pregiate, nell'interesse generale, e se questo non fa parte di un programma politico per il Paese e per l'intero continente cui apparteniamo, le realtà locali rischiano di essere troppo deboli nei confronti degli interessi locali antagonisti. Ed è per questo che, più che di dilemma tra centro e periferia, parlerei della indispensabile necessità di un concorso di volontà e reciproco sostegno. Sul piano più propriamente politico ... Ed è anche a questo fine che mi pare necessario aggiungere una considerazione di ordine puramente politico. Mi riferisco al modo con cui la questione ambientale è avvertita e assimilata (o non) nella cultura politica italiana sia di sinistra, sia di destra. La sinistra ha sempre avuto in sé la tentazione di considerare la tutela ambientale come obiettivo parzialmente contrario allo sviluppo economico, da qui la necessità continua di dimostrare (a se stessa innanzitutto) che attraverso queste iniziative si "crea occupazione". Ma il problema ha una ben più ampia portata e non può essere risolto nei termini di qualche equazione investimenti-occupati. I valori in gioco infatti sono di altra natura e di altra dimensione e identificano una alternativa di sviluppo e di civiltà. Non si può scegliere dell'ambiente quello che fa occupazione e quello che non la fa, come non si può scegliere nella questione sociale quello che porta voti e quello che non ne porta. Se si riconosce nella tutela dell'ambiente una esigenza della nostra società, la si deve assumere quale linea strategica complessiva. In questa "assunzione", l'obiettivo ambiente va considerato nelle sue forme più moderate e nei suoi obiettivi estremi. Perché deve essere riconosciuto parte integrante di una cultura politica. Solo così si mantiene vivo il meccanismo del riconoscimento dell'interesse pubblico, tema centrale per la sinistra. E anche per la destra c'è un problema di coerenza. Perché la destra ha la tentazione di considerare la tutela dell'ambiente come qualcosa di antagonista rispetto all'individualismo politico-sociale e culturale che sembra voler rappresentare. E questo è un equivoco grosso. Questo è l'equivoco di chi vuole limitarsi a considerare l'individualismo come l'individualismo del possesso e che considera realizzato l'individuo nel momento in cui possiede personalmente beni materiali. Ma l'individualismo nella cultura liberale più tradizionale è ben altro che questo. L'individualismo nella cultura liberale è valorizzazione dell'individuo, che realizza se stesso attraverso la propria iniziativa, la propria coscienza e l'articolazione dei propri desideri. L'individualismo nasce dall'edonismo. E perché l'edonismo della buona tavola e di una bella casa deve venire prima dell'edonismo del godere di un pezzo di natura? La destra potrebbe e dovrebbe recuperare pienamente il senso del godere di quel benessere interiore che non sia solo il benessere dovuto al possesso ed al conseguimento dei beni fisici. Guai se consideriamo antagonista la tutela ambientale rispetto ai principi dell'individualismo. La cultura liberale è una cultura che si fonda, ad esempio, sul principio e sull'accettazione del mercato, ma il mercato non è la semplice sommatoria dei singoli individui, dei singoli egoismi individuali. Il mercato è esattamente l'opposto. Esso consente infatti che l'egoismo di un individuo contrasti, attraverso la concorrenza, l'egoismo di un altro individuo e questo contrasto rende possibile che all'egoismo sia sottratto il privilegio e i suoi frutti positivi siano trasferiti al benessere della collettività. Non si può scendere a meschinità E' principio liberale, è principio del liberismo economico la concorrenza, non l'individualismo egoistico punto e basta. Il mercato è un bene collettivo, è bene pubblico proprio come lo è l'ambiente. Dico queste cose perché su questi temi non si può scendere a meschinità. Qui sono in gioco i destini dell'uomo e il concetto stesso di uomo, di individuo e di società che facciamo nostri. E dunque, la tutela del bene pubblico "ambiente" è necessaria in quanto conseguente un corretto individualismo e perciò è corollario della cultura "liberale", è completamento della cultura "riformista", in quanto riguarda la costruzione di istituzioni per la tutela di beni collettivi e di beni pubblici. Concludo rivolgendo ai presenti un invito, facile a farsi e difficile a tradursi in atti, di mantenere sempre alto il livello della discussione, proprio perché siete portatori di valori che arricchiscono la realtà politica del nostro Paese. Valori che possono portare a chiarire molte cose che vedo confuse nella vita politica italiana e nella vita culturale del Paese. E' tutto il Paese che deve trovare nella tutela dell'ambiente il riconoscimento di sé, il riconoscimento degli obiettivi della propria singolare esistenza, come individuo e come comunità. Senza questo sforzo l'ambiente diventa tutelato solo in quanto affidato in concessione alle minoranze. Ma alle minoranze, si sa, si fa spazio quando conviene, ma quando non conviene le si mette tranquillamente da parte. Chi ha potuto godere di un periodo nel quale, ripeto, più per timidezza generale che non per convinzione, si è potuto fare per la creazione dei parchi nazionali di nuova generazione in Italia più di ogni altro periodo della nostra storia, ha - forse - oggi più di altri precisa consapevolezza delle opportunità che si offrono, ma anche delle debolezze dei meccanismi psicologico - politici del nostro Paese. Dopo quegli atti eccezionali tocca all'opinione politica sviluppare quei contenuti e quelle convinzioni che era assurdo pretendere ci fossero "prima", ma che è assolutamente indispensabile pretendere che ci siano "poi", altrimenti la costruzione da sola non riuscirà a stare in piedi. |
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