Federparchi
Federazione Italiana Parchi e Riserve Naturali


PARCHI
Rivista della Federazione Italiana Parchi e delle Riserve Naturali
NUMERO 36 - GIUGNO 2002


NUOVI PRESIDI DEL TERRITORIO
di Mariano Guzzini
  Fino al momento della nostra richiesta di vederci per ragionare insieme Piero Bevilacqua era solo un autore della Donzelli, meridionalista, che a noi di "Parchi" piaceva più di altri autori perché quando si occupava di "risorse" non dimenticava mai di inserire i parchi e le aree protette nel ventaglio di opportunità che un nuovo sviluppo economico è in grado di offrire.
Era, insomma, una idea astratta circondata da grappoli di altre idee astratte. C'era piaciuto il suo "Tra natura e storia. Ambiente, economie, risorse in Italia" (1996). Così come c'era piaciuto quando aveva dedicato un intero numero della sua rivista "Meridiana" alle risorse, con un saggio dedicato all'economia dell'ambiente (dove si contrastava ragionevolmente l'opinione radicale degli "ecocentristi", esaminando i rischi dell'abbandono dell'individualismo, che si chiamano paternalismo o elitismo) e con una sua introduzione generale nella quale sosteneva la tesi che "una nuova valutazione della natura porta a rendere più ricca la nozione stessa di ricchezza". Ci era piaciuta l'altra rivista con la quale ha a che fare in quanto presidente di Imes, l'istituto meridionale di storia e scienze sociali: "Storica". Tuttavia non era ancora una persona. Un composto di fisicità e di loquacità che apre differenti canali di comunicazione, spesso del tutto differenti.
Del resto, anche la casa editrice Donzelli era un monte di libri interessanti, più alcune riviste intriganti, ma non era ancora una sede, un tavolo da riunioni, e delle persone fisiche sparse negli uffici che insistevano affinché accettassimo un caffé. In una mattinata fredda e piovosa, la metamorfosi si realizzò in un intrico di strade aggomitolate tra la breccia richiusa di porta Pia e la sede della Repubblica intesa come quotidiano, in piazza Indipendenza (come dire nel triangolo delle Bermuda dell'Italia laica).
Un tocco di classe, nella connotazione del palazzo sede della Donzelli, in via Mentana 2b, lì dove Piero Bevilacqua ci aveva dato appuntamento, sono gli edifici scolastici adiacenti.
Il liceo scientifico statale "Plinio seniore", e soprattutto le scuole elementari "E"(cioè Heinrich) Pestalozzi".
Plinio il vecchio è organico al mondo dei parchi per ragioni ovvie. Non a caso Maurizio Fraissinet quando cercò un titolo oggettivo per il periodico del parco nazionale del Vesuvio scelse "Plinius".
Il Giovanni Enrico Pestalozzi ha invece un legame più misterioso e più torbido. In quanto esempio clamoroso di come si possa perseguire efficacemente un fine positivo (il superamento dei limiti della famiglia tradizionalmente agricola, schiacciata dall'industrializzazione emergente) senza porsi il problema di risolvere le contraddizioni del capitalismo, ci suggerisce lo scenario di uno sforzo educativo che si occupa molto delle aree protette ma non si impegna per la sostenibilità dello sviluppo. Evento che si verifica. E che va tenuto almeno sotto controllo.
Sulla strada noto la stazione dei Carabinieri Roma-Macao con un minimo di spaesamento. E, con un tuffo al cuore vetero stalinista, nientemeno che l'hotel Lux. Con fin troppi segni di presagi imminenti, mi sono presentato alla sede della Donzelli editore, in cerca dell'intervistando Piero Bevilacqua. L'ultima cosa che mi da da pensare, qualche strada prima di imboccare il cortile d'ingresso, é l'insegna "Riclotto", posta all'angolo tra via Palestro e via Montebello.
Ci rifletterò con calma.
Nella redazione di ben due riviste ("Meridiana" e "Storica") mi sono ambientato subito.
Tra montagne di volumi sulla "Storia dell'emigrazione italiana", e vallate di riviste, alcune fragili e gentili creature in grado di distinguere tra un saggio ed una recensione erano al lavoro per la rinascita culturale del sud, e mi offrivano caffè.
Dopo avermi lasciato il tempo di godere l'aria di redazione, che per me è più balsamica di quella delle alte vette, Piero Bevilacqua è arrivato dall'Università, dove insegna storia contemporanea, e si è sottoposto alle nostre domande nella sala riunioni della Donzelli, dove immagino nascano i libri e le riviste che poi troviamo in libreria.
La mia prima domanda si perde nei ricordi di Bevilacqua su una sua recente visita a Pantelleria. Che non è area protetta.
Né riserva. Eppure...
Eppure, dice Piero Bevilacqua, Pantelleria "... è una realtà agricola molto speciale, molto particolare, assai vincolata a un habitat esclusivo, dominato dalla siccità e dal vento, dove le popolazioni contadine sono riuscite a ritagliarsi una capacità produttiva, in un territorio sostanzialmente avverso, con forme originalissime di utilizzazione delle risorse locali.
Penso a Pantelleria come una realtà da parco, nel senso che i muretti a secco tendono ad essere abbandonati, i terrazzamenti tendono a sfaldarsi, esiste anche una spinta ad abbandonare in qualche modo l'agricoltura per la valorizzazione turistica.
Però anche qui vanno operate delle scelte, perché valorizzazione turistica può significare, effettivamente, una utilizzazione delle risorse ambientali, storiche e paesaggistiche dell'isola, ma può significare anche la distruzione di tutto questo. Da una parte, c'é chi mira alla costruzione del grande albergo, dall'altra -ed è la linea che condivido- c'é chi crede fortemente nel recupero dei "dammusi" abbandonati, nelle microforme di ospitalità insediate nel territorio che non alterino l'unicità di quest'isola. Nello stesso tempo c'è da valorizzare l'agricoltura, cosa che si sta già facendo. Una realtà economica ancora marginale e di nicchia, quella dell'agricoltura, a Pantelleria, ma che ha comunque ottime possibilità di crescita. Una realtà in cui, secondo me, si può sperimentare quello che si può fare nei parchi."

"Un parco serve proprio a garantire, in molti luoghi, che si attui uno sviluppo sostenibile piuttosto che "di rapina".
Una situazione che ha punti di contatto con quello che dicevi di Pantelleria si sta verificando nel parco nazionale delle Cinque Terre. Ricordo una "lezione" del presidente Franco Bonanini che all'Enea di Lerici ci spiegò quello che si fa per i muretti che stanno crollando, e per sostituire i coltivatori che se ne stanno andando.
Una delle soluzioni sono contratti a termine, stipulati con giovani con il patto che gli affittuari lavorino anche la terra, e con la speranza che restino.
Perché "parco" vuol dire soprattutto rilancio e riuso di quanto si tutela.
Non si fanno i parchi per isolare un ricordo, ma per scatenare un nuovo sviluppo ecosostenibile."

"Difatti ci vuole una capacità di progettazione innovativa. Si tratta di individuare, inventare forme nuove di utilizzazione del territorio con nuove figure di operatori, soprattutto giovani. Per il progetto "Cento idee per lo sviluppo", ho prodotto un piccolo studio sul sistema economico nel bosco.
Il bosco può essere, in tante aree dell'Italia centro-meridionale, il punto di partenza di una vera e propria filiera economica o filiera produttiva, perché significa non soltanto produzione di essenze vegetali, per l'industria della carta, per l'industria del mobile, ma significa anche il sottobosco (i funghi, le fragole, i mirtilli). Tutta una produzione, anche questa minore, ma con un mercato in grandissima espansione: mirtilli, ribes, uva spina sono prodotti molto richiesti dal mercato, dai ristoranti. Il bosco significa anche la possibilità di allevamento di fauna selvatica, dal cinghiale alle lepri, ai fagiani, la produzione di legna: c'è una grande richiesta di legna per le seconde case. Il bosco significa poi, naturalmente, l'escursione, la possibilità di produzione di prodotti cosmetici di tipo naturale, biologico ecc.
Tutto questo può costituire una macchina di valorizzazione delle risorse locali, di produzione purché ci sia una proposta generale che non contempli semplicemente l'impiego di giovani addetti come boscaioli ma la loro partecipazione ad un progetto globale nel quale si valorizza l'ambiente, si producono beni..."

"Una filiera di sviluppo sostenibile.
Chi se ne può fare carico?
La può sperimentare il parco per poi diffonderla sul territorio, perché una volta che l'ha sperimentata a fondo la può applicare anche in zona non parco.
Il fatto che i parchi siano organi speciali preposti alla tutela attiva non è una contraddizione perché la tutela attiva è questo.
Il nostro problema, pertanto, è quello di diffonderlo.
E proprio a riguardo della diffusione, della comunicazione, qual è il suo punto di vista sulle riviste, a che servono questi periodici di nicchia, molto specializzati, rispetto ai problemi di cui parliamo?"

"Servono sicuramente, in considerazione del fatto che le altre voci che dovrebbero dare conto dell'esistenza dei parchi, della loro attività, anche dei loro ritardi sono davvero fioche. Le riviste costituiscono uno strumento di monitoraggio di ciò che avviene in un mondo che purtroppo, soprattutto in Italia viene vissuto come separato rispetto al resto del Paese.
Naturalmente queste sono riviste che secondo me dovrebbero avere una più larga circolazione, dovrebbero arrivare soprattutto nelle scuole, nelle amministrazioni comunali, cioè dovrebbero avere una circolazione massima.
Per quanto mi riguarda, avevo cercato di promuovere (poi ho sperato che gli altri amici realizzassero il progetto) la creazione di un osservatorio delle riviste con la possibilità di un minimo di finanziamento europeo, che doveva servire a realizzare poche ma importanti soluzioni. Avevo preso contatti con l'Università della Calabria, si pensava in primis alle riviste meridionali, avviando un sito web nel quale collocare le testate di queste riviste e gli articoli più importanti; informare sulle novità, sui nuovi numeri, quindi una possibilità di aggiornamento continuo del sito; la possibilità, anche, di avere qualche supporto finanziario per promuovere abbonamenti, per penetrare nelle istituzioni e così via.
Credo che le riviste oggi si leggano poco, abbiano un limitato raggio di influenza e di discussione e debbano per questo essere in qualche modo aiutate con strumenti particolari. Uno è quello delle immissioni in rete e l'altro è quello della penetrazione in alcune istituzioni fondamentali. Fra queste la scuola e l'università.
Naturalmente questo potrebbe aiutare il salto culturale che si dovrebbe fare: le riviste dovremmo cominciare a pensarle come un settore specifico tra ricerca e mercato, che andrebbe sostenuto anche pubblicamente.
È chiaro che non pensiamo a delle cose meramente assistite, perché poi non si reggono, però immaginare che le riviste stiano da sole sul mercato e si reggano secondo criteri rigidi di bilancio economico non è pensabile: vanno invece viste e valutate come strumenti della ricerca e della diffusione della ricerca, quindi con una rilevanza sociale elevata, soprattutto in un Paese come l'Italia dove si legge moltissimo."

"Sul versante di un discorso sulla risorsa natura, potrebbe essere interessante ed utile fare qualche cosa di comune, tenendo conto che il ruolo delle riviste, secondo me, c'entra anche con questa crisi di leadership di cui discutono nel mondo e quindi che alcuni argomenti che riusciamo a fornire costituiscono un grosso servizio culturale e sociale, senza falsi pudori.
La situazione è talmente disperata, che è meglio dirci le cose come le pensiamo.
Da questo punto di vista vedremo cosa si potrà fare.
Venendo alla questione del sud, tu prima parlavi delle idee per lo sviluppo del famosissimo convegno di Catania, del quale anche noi ci siamo occupati. Ora quei progetti di area vasta non sembrano in queste ore andare per la maggiore."

"No, decisamente."

"E meno che mai si incardinano sui parchi. Questo è un fatto nazionale, una preoccupazione che abbiamo in generale.
In particolare esiste, nel sud, una questione in più? C'è una passività in più o no?
E comunque come reagire a tutto questo?"

"Non so se c'è una passività in più, forse ci sono delle maggiori opportunità nel sud, perché se si fa eccezione per alcune aree di de-industrializzazione come Bagnoli o alcuni poli chimici del dopoguerra - Siracusa, Gela e così via - questo territorio, che pure è stato devastato, soprattutto per ciò che riguarda le coste, ha una sua verginità, e penso naturalmente alle aree interne, all'altipiano silano, che come sapete è una delle più grandi foreste di conifere del bacino del Mediterraneo e che assiste al paradosso di essere deserto anche ad agosto.
Si tratta di uno dei patrimoni naturalistici più straordinari che abbiamo in Europa, eppure la valorizzazione economica di quest'area è mostruosamente al di sotto di ogni immaginazione. Questo è quindi un grande problema.
Ma a parte la Calabria, c'è tutta l'area delle colline interne, non litoranee che tra l'altro è un problema non esclusivo del sud, ma "il" problema dell'avvenire del nostro Paese sotto il profilo territoriale, perché se pensiamo al nostro territorio, vediamo questa tripartizione: la montagna, la collina e le coste.
Le coste sono intasate sia di centri demografici che di attività produttive, la montagna vera, anche quella meridionale, ha conosciuto e conosce una forma di valorizzazione grazie all'"industria della neve" d'inverno e all'industria turistica tout-court durante l'estate. Invece esiste un vastissimo ambito territoriale, che è quello delle colline interne, che ormai da molti anni si va spopolando, perché non conosce una forma specifica, particolare di possibile valorizzazione.
Queste aree sono state a lungo l'area del presidio contadino, non solo al sud ma soprattutto nell'Italia centrale, nell'Italia mezzadrile. La famiglia contadina che ricavava il proprio reddito dal lavoro agricolo era anche la famiglia che attendeva al monitoraggio, al controllo, alla gestione del territorio...
Erano figure che sintetizzavano nel proprio operato economico e sociale l'attività produttiva e l'attività di gestione e di controllo, figure scomparse da tempo.
Il territorio è abbandonato a dinamiche spontanee.
Le dinamiche spontanee in un Paese come l'Italia non sono indifferenti sotto il profilo degli esiti più generali, perché come sappiamo da alcuni grandi idraulici, come per esempio Fossombroni, già dalla fine del '700-primi dell'800, il nostro Paese è dominato da forze dinamiche tuttora in atto che sono le forze dinamiche della dorsale appenninica, una dorsale che è in continua, perpetua trasformazione per effetto delle acque meteoriche.
Per dirla molto rapidamente, l'Appennino tende a scendere lungo i due versanti, attraverso il processo di erosione, quindi a sfaldarsi e ad andare verso le pianure. Questa attività continua delle acque produce una dinamica sul versante pedo-collinare, sul versante delle colline ecc., di continua trasformazione. Queste dinamiche erano fronteggiate, un tempo, dalle famiglie contadine che ora non ci sono più.
I processi erosivi di molecolare sfaldamento della dorsale appenninica producono fenomeni che nessuno controlla più, che nessuno monitorizza più, che nessuno governa.
E qui, secondo me dovrebbe scattare una notevole capacità progettuale, nel senso che bisogna non riportare i mezzadri naturalmente, ma inventarsi delle nuove figure di osservatori e governatori del territorio, che bisogna pagare anche per questo compito di grandissima rilevanza sociale, perché se noi conteniamo i danni delle alluvioni accresciamo la ricchezza naturale, evitando di ripristinare la situazione ex-ante investendo nella riparazione di danni che comportano spesso anche perdite di vite umane.
Quindi, pretendere la presenza di figure attente a questo processo e che siano pagate con le risorse pubbliche è un fatto legittimo che ha dei ritorni economici evidenti. Non li ha nella mentalità dominante di questo Paese che preferisce pagare i danni più che prevenirli.
L'altro aspetto è che io vedrei degli incentivi, perché nelle colline ci possano stare delle cooperative, dei giovani che svolgano delle attività economiche. Per esempio le acque interne, i laghi, i fiumi: lì ci sono le sorgenti della prosperità urbana, perché l'acqua che arriva in città passa da queste zone. Disinquinare le aste fluviali di altura, i piccoli laghi, renderli pescosi...
Ci sono risorse da cui si può trarre reddito, aree che andrebbero mappate per ciò che riguarda le escursioni; da sviluppare tutto un turismo escursionistico che è in sviluppo, lungo sentieri, di visite ad alberi secolari, a pievi abbandonate, a vecchi mulini e così via. C'è tutta un'opera di riscoperta di questi territori un tempo abitati, un tempo utilizzati che andrebbe riscoperta in una funzione nuova.
Anche qui c'è da individuare aree nuove, parchi nuovi, confini e delimitazioni che non ci sono, perché si tratta di aree assolutamente abbandonate, deserte, ignote alla nostra conoscenza più elementare. Viviamo separati nelle cinte urbane che non ci sono più, ma viviamo murati lo stesso dentro la dimensione urbana e non abbiamo occhi per queste realtà che sono realtà dominanti sotto il profilo dell'estensione territoriale."

"Vorrei ritornare sui cosiddetti "progetti di sistema": abbiamo fatto un ragionamento del tutto condivisibile sui problemi dell'Appennino nel loro insieme. È anche vero che sulla costa gli stessi problemi, in maniera del tutto diversa ma egualmente pesanti, a volte persino più pesanti perché c'è una fortissima antropizzazione, si verificano.
Come esiste all'interno del lavoro di progettazione del mondo dei parchi il progetto APE esiste un progetto complementare che attiene all'erosione, ai fiumi che non riescono più a salvaguardare il ricambio e la difesa dall'inquinamento, dagli scarichi, addirittura la ricostituzione delle spiagge che vengono portate via e non sono più compattate, non avviene cioè un intervento di ripascimento. Questo è il progetto CIP.
Come esistono alcuni mestieri propri dell'agricoltore - le canalette ecc. - esistono alcune funzioni che tutelavano la costa e delle quali non si occupa più nessuno.
Ecco quindi il senso dei due progetti di area vasta, APE e CIP, a livelli molto diversi di finanziamento, che sono lo sforzo del mondo dei parchi per supplire a tutta una serie di perdite di presidio dei territori. Come vedi questo nostro tentativo di fare questi progetti di area vasta rispetto ad un consenso che è molto basso? Non ci sono grandi entusiasmi nelle varie amministrazioni, nel portare avanti queste cose."

"Perché accade questo? Diciamolo realisticamente: chi sono gli amministratori, chi sono i sindaci?
Sono delle figure che appartengono a un ceto politico il quale si muove secondo delle logiche molto precise, di autoriproduzione, di ricerca immediata del consenso, quindi che ubbidiscono a delle logiche effimere di intervento sul territorio. Le amministrazioni comunali, i sindaci si impegnano in attività di governo che hanno ritorni di consenso molto immediati, perché puntano alla riconferma del proprio ruolo.
Questo è uno dei grandi limiti del nostro tempo, perché ancora oggi dalla politica dipendono molte cose per l'avvenire dello sviluppo e degli equilibri del territorio.
Secondo me potremmo in qualche modo fare breccia dentro queste logiche di breve periodo se riuscissimo a mostrare dei ritorni anche potenzialmente immediati di consenso alle amministrazioni e al ceto politico, attraverso le possibilità occupazionali. Anche se sono delle possibilità occupazionali limitate, ridotte, però puntare sulla possibilità di nuove figure di "operatori territoriali" che si incaricano di monitorare le coste, di osservare l'ultimo tratto dei torrenti e dei corsi fluviali, delle aste fluviali, con anche uno sviluppo scientifico...
Perché non è che oggi il controllo delle dinamiche territoriali può più essere quello empirico del contadino, deve essere un controllo più elevato scientificamente più attrezzato, supportato da strumenti anche di analisi, per cui sul territorio debbono nascere dei laboratori specializzati nell'osservazione del territorio. Quindi noi vogliamo dei presidi scientifici nuovi anche lungo le coste oltre che all'interno, nelle aree interne.
In cambio noi offriamo agli amministratori degli obiettivi da perseguire che possono offrire loro consenso."

Fermiamo il nastro del registratore.
Ci scambiamo numeri di telefono, riviste, libri freschi di stampa. Ma soprattutto ci scambiamo l'impegno di continuare a lavorare tenendoci d'occhio e cercando di mettere in sinergia quello che facciamo. Le riviste, le ricerche.Le esperienze. Perché è anche così che si costruisce un mondo diverso.
Ripercorro con Federica Zandri le strade che costeggiano il liceo Plinio Seniore e le elementari E. Pestalozzi. Passandoci proprio vicino, realizzo che Riclotto vuol dire semplicemente ricevitoria del lotto.
Forse perfino la stazione Carabinieri si chiama Macao per una ragione semplice, che non c'entra con Emilio Salgari.
E che magari scoprirò la prossima volta che cercherò Piero Bevilacqua, o qualcuno dei suoi allievi e collaboratori, o anche "solo" la più nota delle sue riviste: Meridiana.

La scoperta della banalità del significato del misterioso Riclotto mi aiuta in un tormentone un po' meno frivolo.
Una intervista cambia l'idea che ti eri fatto di un personaggio che conoscevi solo attraverso i suoi lavori pubblicati.
Lo completa, ma, in qualche misura, lo riconduce ad una misura più semplice e più umana. Si pensa al riclotto misterioso e pieno di fascino, e si scopre che, dietro, c'è solo il gioco del lotto. Mi è capitato con Piero Ottone. Mi è capitato con altri "mostri". La prima reazione è una sorta di "tutto qui?" che interrompe la speranza di arrivare, attraverso l'intervista, alla rivelazione, alla profezia della Sibilla, alla ricetta della pietra filosofale.
Ma è anche questo il senso del nostro sulfureo mestiere di giornalista. Scoprire e raccontare l'umanità e la semplicità del grande intellettuale, intese come virtù, come doni per una pedagogia di massa, capace di parlare anche ai riclotti.
Come antidoti alla tentazione di prenotarsi una suite nella torre d'avorio, buttando via la chiave, alla faccia di chi non ci capisce.
Chi è Piero Bevilacqua
È ordinario di Storia Contemporanea all'Università "La Sapienza" di Roma. Si è occupato a lungo della storia del Mezzogiorno e delle bonifiche del territorio: del 1984 è la pubblicazione "Storia delle bonifiche in Italia dal Settecento ad oggi" (Laterza) e degli anni 1989-90 l'uscita di "Storia dell'Agricoltura italiana contemporanea", pubblicata da Marsilio- opera in tre volumi dei quali Bevilacqua è stato il curatore. A seguire, "Storia della Calabria", ancora con Einaudi. Negli ultimi tempi si è occupato particolarmente di ambiente: citiamo a questo proposito la monografia su "Venezia e le acque".
Piero Bevilacqua è inoltre presidente dell'Istituto meridionale di Storia e Scienze sociali (Imes) e tra i fondatori della Casa editrice Donzelli. È direttore di "Meridiana", autorevole rivista di studi storici.