Federparchi
Federazione Italiana Parchi e Riserve Naturali


PARCHI
Rivista della Federazione Italiana Parchi e delle Riserve Naturali
NUMERO 38 - FEBBRAIO 2003


L'EMILIA-ROMAGNA PREPARA UNA LEGGE TUTTA NUOVA
Verso un sistema eco-sostenibile
In Emilia-Romagna sono presenti attualmente 2 Parchi Nazionali (nati, vale la pena di precisarlo, su due preesistenti parchi regionali), 13 Parchi e 13 Riserve regionali e 50 aree di riequilibrio ecologico, oltre ad alcune riserve naturali dello stato, in gran parte ricomprese all’interno del parco del Delta del Po; riserve che purtroppo, nonostante le precise disposizioni legislative emanate dal Parlamento negli anni scorsi, non sono ancora state trasferite alla gestione regionale.
La nostra regione fin dal 1988, e quindi prima della legge quadro nazionale, si è dotata di un provvedimento legislativo organico che oltre ad istituire i primi parchi regionali ne ha fissato le finalità disciplinandone il funzionamento, le competenze e le modalità gestionali.
In questi anni abbiamo stanziato per il sistema delle nostre aree protette circa 60 milioni di euro per gli investimenti e circa 25 per la loro gestione.
Risorse che l’assessorato competente si è impegnato a non diminuire, ma possibilmente ad aumentare, nei prossimi anni anche a fronte delle ben note difficoltà in cui versa tutta la finanza pubblica e quindi anche quella regionale.
In questi anni è stata condotta, a nostro parere, un esperienza positiva da cui ora partiamo non per sovvertirla ma per evolverla sul piano organizzativo, istituzionale e normativo.
Vogliamo continuare dunque a tutelare le nostre aree protette e questa esperienza che se si è potuta svolgere con risultati lusinghieri è innanzitutto grazie al contributo che in questi anni hanno dato gli amministratori degli enti di gestione, i direttori e più complessivamente tutti gli operatori dei nostri Parchi e delle nostre riserve.
Questa esperienza ci apprestiamo ad arricchirla, confermando nel contempo ciò che meglio ha funzionato (come ad esempio la scelta di gestire i parchi attraverso i consorzi tra enti locali una scelta che si è rilevata utili per responsabilizzati e coinvolti appieno nella loro attività i Comuni, le Comunità Montane e le Provincie).
Dicevo che quell’esperienza vogliamo arricchirla e non restringerla, intendiamo estendere la tutela ed il numero dei parchi e non diminuirli, come purtroppo da qualche altra parte d’Italia sta invece avvenendo.
Siamo infatti impegnati a dare vita nei prossimi mesi ad una nuovo Parco, quello dei Gessi Romagnoli (unico caso in Italia di un parco che nascerà sulla base di un progetto di legge proposto alla regione direttamente dai 6 Comuni, dalle 2 Comunità Montane e dalle 2 provincie, quelle di Bologna e di Ravenna, territorialmente interessati).
È anche in fase avanzata la discussione alla Provincia di Modena per istituire il Parco regionale delle Colline Modenesi e per ampliare quello del Frignano.
Anche presso la Provincia di Piacenza è in atto il lavoro per fare nascere un nuovo parco e per quanto riguarda le riserve sono state recentemente avanzate le candidature, da parte dei Comuni coinvolti territorialmente, per istituirne altre 3 in Provincia di Reggio Emilia e di Bologna.
Lo scorso mese di luglio la Giunta regionale ha poi approvato, dopo un confronto che ha coinvolto le istituzioni locali e le organizzazioni agricole, un nuovo elenco di Sic che ampliano le aree di rete “Natura 2000” già presenti in Regione di oltre il 10%.
Giungiamo dunque all’appuntamento con la costruzione della nuova legge per il sistema regionale delle aree protette con una situazione in movimento ed una tendenza alla crescita del numero e della superficie delle aree protette.
In sostanza, quello che vogliamo fare in questo campo è di coniare politiche di seconda generazione capaci di sviluppare ciò che abbiamo realizzato, anche per evitare un rischio molto presente: che questo processo di conservazione e di valorizzazione della natura, attraverso il ricorso a strumenti speciali quali sono le aree protette, non subisca un’involuzione, un insterilimento, non prenda cioè, come da qualche parte sta già capitando, una deriva burocratica ed autoreferenziale perdendo vigore e spinta innovativa e, in definitiva, fallendo la propria missione di fondo.
E proprio i processi più innovativi alimentano anche il sorgere di contraddizioni.
Contraddizioni che qui in questa regione sono rese ancora più acute che altrove per il fatto che molte delle nostre aree protette sono collocate in aree fortemente antropizzate, o comunque in zone molto utilizzate dal punto di vista agricolo e forestale o per quanto riguarda la loro fruizione turistico-ricreativa; contraddizioni, che toccano soprattutto il rapporto tra parchi e mondo rurale, e che vogliamo affrontarle e risolverle cercando risposte innovative e non regressive, senza arroccarci a difesa dell’esistente.
La parola chiave è “avvicinare”, avvicinare il centro di decisione al punto di contraddizione che è poi la condizione di fondo per praticare davvero lo sviluppo sostenibile.
  • Più sussidiarietà che significa un ruolo più forte alle autonomie locali ed in particolare alle Provincie in un rapporto diretto e virtuoso con la Regione.
  • Accentuazione delle capacità e dell’autonomia gestionale agli enti parco.
  • Meno burocrazia e maggiore efficienza gestionale favorendo anche processi di unione o di gestione associata dei servizi tra più parchi o riserve regionali della stessa provincia.
  • Più partecipazione effettiva e non formale alle scelte da parte dei portatori di interesse a cominciare da quelli più coinvolti dall’attività delle aree protette e cioè gli agricoltori.
  • Una accresciuta capacità di fare sistema tra tutte le aree protette, imparando meglio a lavorare insieme e facendo tesoro, ad esempio, dell’esperienza positiva che nei mesi scorsi ha condotto i parchi del crinale appenninico intorno al Progetto APE o di quella che stanno iniziando a fare anche le altre aree protette attraverso i progetti finalizzati e di sistema che abbiamo finanziato recentemente come Regione.

Questa in futuro vuole continuare ad essere, in definitiva, il soggetto che affida un ruolo, assegna cioè alle aree protette una missione, fornisce gli indirizzi ed i supporti ma avendo consapevolezza (una consapevolezza che debbono avere soprattutto gli enti di gestione) che è nel territorio che si afferma e si legittima in concreto il ruolo dei parchi ed è per questo che la Regione deve - lo dico un po schematicamente sperando di non essere frainteso- allontanarsi dal ruolo di controllo sulla gestione nel modo in cui lo ha esercitato fino a questo momento.
Questo è uno dei punti di novità sostanziale che vogliamo introdurre con la nuova legge. Quindi, maggiore autonomia gestionale come condizione e stimolo per la costruzione di sub sistemi territoriali regionali promossi e diretti dalle Provincie attraverso un forte coordinamento istituzionale tra queste ultime, il sistema delle autonomie locali ed i portatori di interesse da un lato e la Regione dall’altro.
Lo strumento che dovrà garantire la tenuta unitaria e l’armonizzazione di questo nuovo mosaico istituzionale e territoriale sarà dato dal Programma Triennale Regionale delle Aree Protette; uno strumento nuovo che pensiamo come momento di indirizzo, certamente anche finanziario ma essenzialmente con funzioni relazionali per costruire e poi rendere operativo il “Sistema regionale delle aree protette”.
Questo del “Sistema regionale delle aree protette” è il cuore vero, l’obiettivo centrale e più difficile del lavoro a cui ci apprestiamo a mettere mano.
La logica di sistema deve rendere più praticabile, con regole non gerarchiche, il miglioramento del rapporto di integrazione tra aree protette e quadro ordinario della pianificazione territoriale e paesaggistica, evitando i rischi di tendenze all’isolamento ed al localismo dei parchi.
I parchi quindi, attraverso la logica di sistema, diventano una delle espressioni più avanzate della politica di sviluppo sostenibile, una politica che li assume e non li isola, li pone in evidenza ma non li separa dal resto. Dobbiamo rendere più efficace il rapporto tra l’azione di tutela e quella di valorizzazione e se in alcune delle aree protette sono racchiuse opportunità vere di sviluppo locale, specie nelle zone storicamente più svantaggiate, dobbiamo riuscire a farle esprimere.
È anche in relazione a ciò che noi riteniamo, per quanto riguarda gli strumenti di pianificazione e di programmazione dei parchi, di dovere superare la dicototomia esistente tra il Piano del parco ed il Piano di Sviluppo per coniare uno strumento che comprenda entrambe queste funzioni e si armonizzi così, meglio di oggi, nel quadro della strumentazione pianificatoria di livello provinciale.
Tornando al sistema regionale delle aree protette, esso non deve però essere banalizzato e scambiato per il semplice elenco delle aree protette esistenti in ambito regionale ma deve essere visto come un insieme di politiche e di funzioni relazionali da assegnare distintamente ad ogni componente del sistema stesso a partire dalle aree protette di interesse nazionale, fino ad arrivare a quelle di carattere più locale, superando quindi la logica gerarchica, finora praticata da parte del Ministero che basa la funzione o il presunto valore delle aree protette sul livello istituzionale che ha emanato il provvedimento di tutela e non invece sul ruolo che le diverse tipologie ambientali tutelate debbono giocare, a seconda delle loro caratteristiche naturalistiche, dimensionali e della loro posizione geografica, all’interno del territorio sia regionale che nazionale.
“Il Sistema regionale delle aree protette”, costituito dal complesso dei nodi più densi di biodiversità, inteso quindi come struttura portante su cui basare la Rete ecologica regionale che deve andare oltre le aree protette e deve puntare a favorire, attraverso i corridoi ecologici, le fasce fluviali ecc. la stabilizzazione, in alcuni casi il ripristino e la funzionalità degli ecosistemi ancora presenti, soprattutto nelle aree della nostra regione più intensamente antropizzate e dove la natura è più vulnerabile e rarefatta.
Perché questa logica di sistema possa affermarsi occorrono però alcune condizioni essenziali. La prima dipende da noi e riguarda, come si diceva, sia la capacità di interconnettere la politica delle aree protette con le politiche territoriali di scala regionale e provinciale, sia la capacità di effettuare con la nuova legge la riclassificazione delle nostre aree protette ampliando le tipologie attuali, che sapete sono sostanzialmente rappresentate dai parchi e dalle riserve regionali.
Questa operazione, che possiamo considerare come una sorta di percorso di avvicinamento al contesto classificativo internazionale più maturo ed avanzato, dovrebbe puntare a fare nostre alcune delle più recenti proposte dell’IUCN per introdurre con la nuova legge le categorie dei paesaggi naturali e seminaturali protetti e dei monumenti naturali.
Ma soprattutto, questa è una delle novità maggiori che dovremmo riuscire ad introdurre, occorrerebbe basare la nuova classificazione su quello che il Prof. Gambino in alcuni recenti lavori ha chiamato “criterio di scopo” ossia un mix di obiettivi di gestione da attribuire a ciascuna categoria di area protetta per ognuna delle quali debbono essere definite le missioni da perseguire con diverso grado di priorità, in relazione innanzitutto ai caratteri intrinsechi dei territori in cui le stesse sono chiamate ad operare.
Si tratterebbe dunque di specializzare meglio, o se vogliamo di tipologizzare con maggiore precisione scientifica le singole aree protette, ridefinendone ed aggiornandone se necessario la missione attraverso un processo di concertazione istituzionale diretto dalla Regione insieme alle Province ed avvalendoci di rigorose analisi scientifiche.
Ne guadagnerebbero certamente la possibilità di monitorare periodicamente la corrispondenza, per ogni area, tra obiettivi fondanti e risultati gestionali concreti, nonché la possibilità di differenziare anche il grado ed il tipo di attori sociali da coinvolgere nelle scelte relative all’attività di ogni singolo parco.
Tutto ciò, e cioè un preciso e sistematico monitoraggio dei risultati gestionali ancorato alla missione specifica assunta dall’area protetta, permetterebbe di non dare così un carattere definitivo all’appartenenza ad una determinata categoria, sdoppiando quindi tra di loro la tutela del territorio, che deve costituire un invariabile, dal rango del soggetto gestore che potrebbe invece variare nel tempo.
Un simile modello, certamente non di semplice applicazione, sarebbe particolarmente stimolante per tenere viva e costantemente sollecitata l’attività gestionale delle aree protette mettendo così con i piedi per terra una salutare e spesso dimenticata distinzione che invece dobbiamo tenere molto ferma sul piano del principio e cioè quella tra le finalità primaria, e quindi la conservazione di valori ambientali, naturali, storici ecc. e gli strumenti più appropriati per garantirne il raggiungimento che non ovunque e non sempre debbono essere gli stessi, ma essere adattati ai processi di cambiamento indotti dalle dinamiche naturali ma anche da quelle indotte più direttamente dall’uomo.
Se riusciremo con la nuova legge ad introdurre queste novità si dovrà aprire dunque un vero e proprio percorso di rifondazione delle singole aree protette che deve avere al centro, tra le altre, due cose in particolare:

  • La ridefinizione della propria missione attraverso la stipula di un vero e proprio nuovo patto fondativo tra gli attori istituzionali del territorio, finalizzato ad aggiornare le regole, gli strumenti di gestione e di pianificazione dell’area protetta stessa.
  • Un nuovo rapporto, effettivamente partecipativo, capace di assicurare il coinvolgimento pieno dei portatori di interesse, innanzitutto gli agricoltori, alle scelte che li riguardano più direttamente.

L’esigenza di dare innanzitutto una svolta netta al rapporto tra funzione generale delle aree protette e mondo agricolo nasce da una considerazione precisa: oggi in quasi tutte le aree protette esistenti, il mantenimento dell’attività agricola presente, in gran parte condotta con metodi biologici o tradizionali, è essa stessa un fattore di conservazione ed arricchimento della biodiversità.
In questa direzione, cioè ad accoppiare l’agricoltura del futuro e la conservazione della biodiversità, spingono del resto anche le più recenti proposte di revisione intermedia della PAC proposte dal Commissario europeo Fischer.
Per fondare una nuova alleanza tra mondo rurale e politiche di conservazione e di valorizzazione dei beni ambientali, che non sia fine a se stessa e di corto respiro ma faccia sentire agli operatori agricoli insediati le aree protette come una opportunità, dobbiamo dare però gambe solide e credibili a questi principi.
Per questo dovremo compiere due scelte:

  • La prima è quella di prevedere che tutti i provvedimenti generali o particolareggiati di pianificazione territoriale o gestionali delle aree protetta e che riguardino in qualche modo gli assetti agricoltori o forestali, debbano essere assunti attraverso un percorso partecipativo e concertativo con le organizzazioni professionali agricole;
  • La seconda consiste nel riconoscere il ruolo che le aziende agricole possono rendere per la gestione dei servizi ambientali, per quelli connessi all’ospitalità turistica, alla manutenzione delle infrastrutture per la fruizione escursionistica del territorio ecc. a favore delle attività promosse dall’ente di gestione dell’area protetta.

La costruzione del nostro sistema regionale delle aree protette, con le caratteristiche e le finalità che ho cercato molto sommariamente di delineare, può però risultare una operazione non pienamente produttiva se questa logica, se questo stesso obiettivo, non verranno assunti come tema prioritario a livello nazionale anche dal Ministero dell’Ambiente.
In futuro, sempre di più, i rapporti tra Stato centrale, regioni ed Autonomie Locali, anche nel campo delle aree protette, dovranno sapersi misurare con la nuova configurazione del sistema isituzionale che si è venuta a determinare in questi ultimi anni .
Una configurazione non più di tipo piramidale ma incentrata sulla “pari dignità” dei vari e diversi livelli istituzionali.
In questi mesi, da parte del Governo, è invece ulteriormente calato, riducendosi quasi a zero, qualsiasi dialogo interistituzionale con le Regioni e le Autonomie Locali sul tema delle aree protette mentre è parimenti cresciuta, al di la delle dichiarazioni concilianti del Ministro Matteoli, la logica puramente centralistica. Lo dimostrano i conflitti aperti in diverse realtà relativamente alle nomine dei presidenti dei parchi nazionali, come per il Parco nazionale dell’Appennino Tosco-Emiliano, la Legge delega per il riordino delle materie ambientali chiesta dal Governo ed attualmente in discussione in Parlamento senza che abbia avuto nessun confronto preventivo con le Regioni, e il nuovo Decreto di recepimento della Direttiva Habitat che invece va avanti nella sua formulazione originaria proposta dal Governo nonostante il parere negativo della Conferenza dei presidenti delle Regioni.
Dopo la modifica del tit.V della Costituzione e l’ambiguità con cui sono trattate le varie competenze connesse alle aree protette è del tutto evidente il rischio che si determini un pericoloso conflitto tra Stato e Regioni per definire la soglia delle rispettive funzioni qualora non prevalesse un atteggiamento di reciproca e leale cooperazione.
È chiaro che qualora dovesse aprirsi una querelle del genere i parchi, soprattutto quelli nazionali ma non solo, potrebbero entrare in una fase di grave incertezza di cui non c’è davvero bisogno.
Il tema politico cruciale che oggi si presenta ancora più aggravato del passato, e che secondo noi dovrebbe essere posto al centro della prossima Conferenza sulle Aree Protette, è dunque quello di come ristabilire la leale e piena cooperazione tra tutti i livelli istituzionali dello stato.
Da esso non solo dipende l’esito della Conferenza ma anche, in buona misura, le prospettive ed il futuro dei parchi.
Senza questo dialogo istituzionale parlare di sistema nazionale delle aree protette è mera illusione e la tendenza inevitabile che ne deriva è quella negativa di fare ognuno per proprio conto.
Tra le proposte che consideriamo più nefaste da parte della attuale maggioranza di Governo a proposito dei parchi vi è quella dell’abolizione del divieto di caccia.
Noi siamo contrari ad aprire la caccia nei parchi non per ragioni ideologiche ma perché non risolve i problemi, semmai li aggrava e finisce solo per riaccendere vecchie polemiche e conflitti anche la dove col tempo erano stati riassorbiti.
I problemi veri sono costituiti invece dalla presenza eccessiva in molti parchi di popolazioni di fauna ungulata; popolazioni che influiscono negativamente sulle attività agricole ed il cui contenimento deve essere compiuto, perché abbia successo, attraverso una programmazione faunistica e venatoria attuata per ambiti territoriali molto più ampi dei parchi.
Programmazione che deve essere svolta attraverso il Piano faunistico venatorio provinciale e decisa dalle Province, su proposta degli enti gestori dei parchi, sentendo le organizzazioni professionali agricole e con il parere tecnico dell’INFS.
Così come ribadiamo il nostro dissenso rispetto al modello che a livello nazionale ci viene riproposto con la Legge delega riguardo alla gestione venatoria delle aree contigue; aree che erroneamente restano riservate all’attività dei cacciatori residenti dal punto di vista anagrafico nei Comuni del parco stesso.
Scelta che noi, con la nuova, legge cercheremo di correggere, per ancorare invece la gestione venatoria nell’area contigua al principio della programmazione faunistico-venatoria e fondandola su densità cacciatori/territorio tali da rendere l’area contigua un terreno per sperimentare davvero forme più compatibili e moderne di prelievo faunistico.
Quello che ho tentato di delineare e per il quale vogliamo lavorare è un concetto evolutivo di area protetta, capace di adattarsi al cambiamento delle condizioni locali, condizioni che non possono non determinare dei mutamenti anche sul parco inteso non come strumento statico ma come processo attivo ed appunto evolutivo.
Un parco, cioè, che può anche essere molto diverso da se stesso a distanza di tempo.
Gestire un parco contro le pressioni esterne può anche essere necessario in alcuni momenti ma non è certo sostenibile nei tempi lunghi: in una guerra di trincea è più facile che vinca chi assedia.
Gli esempi migliori dei parchi ben gestiti, e ce ne sono anche da noi, sono quelli che sono parte di una vasta rete di connessioni ecologiche, sociali e politiche che vanno al di la dei confini stretti del parco.
La sopravvivenza dei parchi è dunque in gran parte legata al consenso di chi li abita e per ottenerlo occorre molta trasparenza nelle decisioni e la partecipazione attiva di tutte le forze presenti nel territorio.
Prima che questo gruppo di idee messe a punto finora attraverso un confronto molto circoscritto possa tradursi in un vero e proprio progetto di legge, come è ovvio che sia, dovremo, a cominciare da questo dibattito, verificarne il grado di consenso e di praticabilità in termini di impatto istituzionale e normativo interno ed esterno alla regione.
Dovremo in sostanza valutare bene il coefficiente di difficoltà che potremo incontrare per capire su quale livello di innovazione potremo realisticamente puntare.
Ma soprattutto dovremo, rapidamente, allargare ulteriormente la ricerca e compiere più approfondite verifiche con la stessa comunità scientifica regionale e con l’associazionismo ambientale.

*Responsabile del Servizio Parchi e Risorse Forestali della Regione Emilia Romagna