|
Chi ha avuto ed ha la pazienza di seguire
più che il dibattito le spesso confuse polemiche sui parchi non
potrà non essere rimasto colpito dal fatto che argomenti e temi
d’improvviso considerati di importanza capitale e decisiva, con
la stessa repentinità scompaiono per essere definitivamente accantonati
e dimenticati.
Vediamone qualcuno senza un preciso ordine.
I residui passivi. Ad un certo momento si ‘scopre’ che un
certo numero di parchi nazionali ha accumulato notevoli giacenze di cassa,
insomma non riesce a spendere interamente le sue risorse. Come si ricorderà,
questo fenomeno tutt’altro che inedito per la nostra pubblica amministrazione
che vanta in materia record assoluti, d’improvviso assurge a prova
clamorosa e incontrovertibile della incapacità dei parchi di fare
il proprio mestiere. In preparazione e durante la seconda conferenza nazionale
sulle aree protette di Torino ministri, parlamentari e organi di stampa
faranno di questo il loro cavallo di battaglia, individuandovi con sicumera
la innegabile prova provata di una inefficenza grave e colpevole alla
quale andava rapidamente posto rimedio.
Vi scorsero anzi la ragione principale che giustificava un cambio
di indirizzo verso i parchi ai quali era stata lasciata finora troppo
mano libera. Romanzine e censure solenni in quei giorni si sprecarono,
accompagnate da dichiarazioni fermissime e spesso scandalizzate che da
ora in poi le cose sarebbero finalmente cambiate.
Il tema, al di là delle enfatiche e demagogiche strumentalizzazioni
effettivamente segnalava un disagio e una difficoltà non solo,
e spesso non tanto dei parchi, quanto del complesso delle istituzioni – dallo
stato agli enti locali- a spendere bene e in tempi ragionevoli in base
a seri progetti.
Ma questa era evidentemente una pista per troppi versi scomoda
perché più che mettere alla berlina i parchi implicava e
richiedeva un serio esame di coscienza proprio di tutte quelle istituzioni
che in tante occasioni avevano osteggiato i parchi o che comunque non
li avevano certo sostenuti come avrebbero dovuto nella fase impegnativa
della progettazione.
Così il coniglio dei residui passivi uscito di colpo dal cilindro
di un prestigiatore convinto di avere trovato la prova con la quale si
sarebbe potuto mettere a tacere chi subodorava – a ragione- per
i parchi brutte sorprese, altrettanto velocemente e bruscamente rientrava
nel cilindro lasciando la scena.
Da allora, infatti, nessuno ne avrebbe sentito più parlare ma in
compenso la campagna aveva egregiamente servito a giustificare la significativa
riduzione di risorse finanziare ai parchi nazionali con qualche minore
severità per i parchi ‘amici’.
Se passiamo ad una questione meno ‘tecnica’ dei residui passivi,
ma sicuramente più radicata e presente nel dibattito sui parchi-
quella istituzionale che a lungo ha diviso ed ancora divide schieramenti
politici e associazioni - le cose non cambiano di molto.
Le modifiche al titolo V della Costituzione avevano inevitabilmente
riaperto la vecchia querelle sulla ripartizione delle competenze tra stato
e regioni anche su questo fronte.
Il governo anziché impegnarsi con le regioni e gli enti locali
(e i parchi) a chiarire questi delicati aspetti ha preferito per le aree
protette- come per altri comparti ambientali - imboccare la strada della ‘delega’ per
riscrivere testi unici e quant’altro.
Ciò avocando ad una commissione di propria fiducia praticamente
tutta la materia ambientale sulla base di una delega non ancora giunta
peraltro al traguardo.
Il risultato di questo sconcertante provvedimento e comportamento è stato
che mentre una serie di questioni anche molto stagionate incancreniscono
-si pensi, tanto per fare qualche esempio a caso; al trasferimento ai
parchi nazionali della gestione delle riserve statali, all’impiego
funzionale del corpo forestale nei parchi, alla gestione delle aree marine
protette affidata a soluzioni decise caso per caso ma quasi sempre al
di fuori della lettera e dello spirito della legge 394 -sulla materia è calata
la tela.
Possiamo tranquillamente dire che la ‘delega’ prima ancora
di arrivare in porto ha già fatto i suoi bravi danni che si aggiungono,
tanto per fare un altro esempio significativo, ad un ulteriore giro di
vite per quanto attiene alla informazione a alla comunicazione.
Il Parlamento nel frattempo stancamente e nella più completa indifferenza
sta svolgendo una indagine conoscitiva sui parchi dalla quale c’è assai
poco da spettarsi, mentre ogni tanto con ammirevole puntualità si
torna a parlare della caccia nei parchi tanto per agitare un po le acque:
la caccia si sa riesce sempre a conquistare un titolo sui giornali.
È
vero che in commissione ambiente della Camera fu approvata a
suo tempo una mozione sulla conferenza di Torino che conteneva taluni
impegni che se mantenuti avrebbero potuto avere effetti positivi, ma ci
sono voluti un sacco di mesi perché al ministero ci si riunisse
come aveva ripetutamente richiesto Federparchi per la istituzione di un ‘Tavolo’ istituzionale
che da allora però deve ancora insediarsi.
Mancando precisi e chiari punti di riferimento e sedi idonee
a definire orientamenti, propositi, programmi in sede nazionale ma anche
nelle regioni dove la situazione salvo rare eccezioni non è granchè migliore,
il quadro appare nel complesso confuso, contraddittorio anche per una
persistente conflittualità politico-istituzionale che rende precaria
la condizione di molti parchi nazionali e regionali. Ci riferiamo in particolare
ai parchi commissariati in attesa di un legittimo assestamento gestionale
che tarda ad arrivare.
L’immagine che nel complesso se ne ricava è di una fase in
cui lo sforzo prevalente, almeno di taluni importanti protagonisti, è quello
di accreditare l’idea che in fin dei conti i parchi debbono convivere
con le altre istituzioni, senza accampare eccessive pretese, mostrando
il volto più accomodante, lasciando perdere i ‘vincoli’ che
non sono ben visti etc. Insomma un parco dal basso profilo, ben disposto
a rivedere anche i suoi confini, che con i suoi strumenti di gestione
e pianificazione non pretenda di contestare e contrastare pesanti infrastrutture,
impianti sciistici e simili sui quali ‘altri’ sono in grado
e debbono più legittimamente decidere. In buona sostanza sopire,
sopire e realisticamente accettare un ruolo gradito a tutti perché non ‘scomodo’ per
nessuno.
Una azione di questo tipo, che raramente sembra affidarsi (come è avvenuto
invece in passato) a manifestazioni di contrapposizione netta e diretta
ai parchi, quanto piuttosto ad un ‘ragionevole’ e paternalistico
realismo e buonsenso di chi sa come va il mondo e non si fa illusioni,
qualche effetto l’ha già avuto.
Il più preoccupante e negativo è quello di avere anestetizzato
in parte una situazione in cui erano chiari almeno taluni punti e primo
fra tutti quello che per i parchi ormai – dopo i risultati estremamente
significativi di questo decennio- doveva aprirsi una nuova fase nazionale
e regionale strettamente connessa alle politiche comunitarie.
Tra le vittime di questa azione in cui ammonimenti e inviti alla
ragionevolezza si sono sprecati alternando bastone e carota va annoverata
anche la informazione e la comunicazione.
L’UE sforna ormai con una encomiabile regolarità importanti
documenti e provvedimenti perché anche con impegno di adeguate
risorse gli stati membri e le istituzioni decentrate mettano tutti cittadini
nelle condizioni di conoscere e sapere cosa si fa specie in materia ambientale.
Ma da noi è e rimane una ardua impresa riuscire a sapere qualcosa
di quel che bolle nelle varie pentole ministeriali. Atti anche dovuti
e sovente banali sembrano addirittura secretati tanto è difficile
venirne a conoscenza e in possesso: chi ne vuole una prova vada sul sito
del ministero e potrà verificarlo senza tema di smentita. Faccio
un esempio tra quelli più ‘banali’; è stata
istituita con ritardo la cabina di pilotaggio del cosiddetto ‘Santuario
dei cetacei’, con tanto di pubblicazione del provvedimento sulla
G.U. Ebbene io non sono riuscito a conoscerne la composizione della cabila
né tanto meno i suoi impegni nonostante abbia battuto varie strade.
Ma prendiamo due questioni che ogni estate riportano puntualmente
alla ribalta problemi che riguardano direttamente anche le aree protette
terrestri e marine: lo stato delle acque balneabili e gli incendi. Nell’uno
e nell’altro caso, a parte le solite e inevitabili polemiche su
chi incendia e inquina, non una voce anche del mondo della ‘scienza’ registriamo
su quel che le aree protette fanno, possono e debbono fare per gestire
anche i territori ‘bruciati’ al meglio o perché le
coste non siano soltanto (e con minori ritardi e insufficenze rispetto
ad ora) oggetto di seri monitoraggi, ma di una gestione nuova all’insegna
di politiche di protezione che i parchi in primis debbono assicurare.
Ma c’è qualcuno che in questa estate infuocata in tutti i
sensi ha sentito parlare di piano delle coste, di carta vegetazionale,
di carta della natura? Al massimo ci si è sentiti dire che bisogna
fare una legge per il catasto dei territori percorsi dal fuoco, quando
come è noto la legge c’è già ormai da qualche
anno. Vogliamo sottolineare questi aspetti perché anche studi attenti
come quello, ad esempio, della LIPU sulle coste raccolti in un bel volume,
praticamente sorvolano sia sul ruolo delle aree protette che su quelle
tematiche della gestione integrata delle coste che pure è sostenuta
da molti provvedimenti comunitari ed anche da leggi nazionali ormai invecchiate
e inattuate come la cosiddetta legge sul mare.
Si dirà – anche se gli esempi potrebbero tranquillamente
continuare- che salvo qualche aspetto più ‘politico’,
in fin dei conti di nuovo non c’è molto.
Ma è vero solo in parte.
La novità più allarmante e troppo spesso sottovalutata se
non ignorata è infatti che a fronte di situazioni che richiederebbero – è il
caso dei boschi, della costa e del mare etc- una accresciuta capacità di
gestione ‘integrata’ del territorio, all’insegna di
una politica ambientale più incisiva per la quale si dà il
caso sono stati istituiti i parchi, proprio questi ultimi sono relegati
in un ruolo niente affatto ‘speciale’.
Diciamolo in altro modo; i parchi non sono stati istituiti perché l’affollata
scena istituzionale italiana registrasse un altro ente che facesse alla
bell’e meglio quello che altri da più tempo stanno già facendo
anche in materia ambientale.
La ragione ‘speciale’ che legittimava e legittima la istituzione
di un parco (nazionale o regionale che sia) stava e sta proprio nel fatto
che a quelle competenze e gestione ordinari si affiancasse per determinati
territori particolarmente pregiati e perciò più bisognosi
di tutela e anche più difficili da gestire, un ente specializzato
dotato di competenze e strumenti appunto ‘speciali’.
Non un semplice ‘coordinatore’- si badi bene- ma un soggetto
con poteri che sono soltanto suoi, tanto che se domani il parco putacaso
(come è previsto in Francia dove ogni dieci anni si verifica se
il parco ha dimostrato la sua utilità e deve continuare ad esistere)
dovesse essere sciolto quelle competenze non le eredita nessuna istituzione.
Un aspetto questo che vale la pena di ricordare e sottolineare
visto che ogni tanto si sente dire, anche da autorevoli personalità di
governo e amministratori incauti, che il parco dovrebbe restituire a questa
o quella istituzione (specie comunale) le competenze sottratte.
Il parco invece non solo non ha sottratto e non sottrae e quindi
non toglie niente a nessuno, ma semmai porta in ‘dote’ alle
istituzioni che ne fanno parte un di più nel governo del territorio
che rafforza e non indebolisce quei soggetti.
Detto questo con la speranza (che andrà sicuramente delusa) che
sia chiaro una volta per tutte che il parco dal momento che non ruba nulla
a nessuno non ha neppure ‘eredi’ istituzionali, perché le
sue competenze sono appunto ‘aggiuntive’ rispetto a quelle
ordinarie dello stato, delle regioni e degli enti locali.
Ne consegue che un parco che rinunci a esercitare questo ruolo ‘speciale’,
ad esercitare pienamente e convintamente le sue competenze abdica alla
sua stessa ragion d’essere istituzionale e alla sua stessa ‘legittimazione’.
Un parco ‘normalizzato’ che si allinea e si confonde con il
ruolo di altri soggetti più ‘forti’ sul piano della
investitura democratica non è solo un vaso di coccio tra vasi di
ferro ma è un parco ‘inutile’.
Si è così giunti a quello che oggi è il vero punto
cruciale di un dibattito sovente improvvisato, travisato e confuso in
cui si è finora teso soprattutto ad affermare che in definitiva
i parchi saranno credibili (e accetti) se saranno sempre meno parchi.
Qui sta il nocciolo della questione.
Anche l’annosa questione del ‘consenso’ che accompagna
da sempre il dibattito e le polemiche sui parchi in questo contesto viene
banalmente e caricaturalmente ridotta a ‘maggiore’ ruolo degli
enti locali. Che a qualcuno fa dire appunto che l’importante è non
pretendere di far valere troppi vincoli etc e ad altri sul fronte opposto
che le insidie maggiori al parco vengono proprio dal ‘basso’.
Come se la delega in materia ambientale o il ponte sullo stretto
di Messina fossero dovute alla iniziativa e pressione ‘locale’ e
non a precise scelte di politica nazionale.
In sostanza pensare che le sorti dei parchi siano legate o unicamente
al comando di Roma o viceversa soltanto al ruolo più incisivo degli
enti locali porta fatalmente gli uni e gli altri (sovente si tratta paradossalmente
delle stesse persone) a eludere la questione vera, e cioè la capacità del
complesso delle istituzioni centrali e periferiche a gestire in ‘leale
collaborazione’ una politica che fonda la sua ‘specialità’ proprio
in questa connotato.
Ruoli distinti e separati in materia ambientale sono ampiamente
previsti e sanciti in tutta la nostra legislazione ambientale; quella
dei parchi si differenzia e si distingue proprio per avere affidato competenze
aggiuntive e forti ad un organo distinto da quelli ordinari anche se espressione
di questi ultimi. Perciò quando ci si affanna anche in sedi ministeriali
che vorrebbero tenere tutto sotto controllo nella maniera più assurda
e rovinosa (è il caso delle aree marine) per esaltare il ruolo
degli enti locali si fa opera di depistaggio demagogico perché è evidente
a tutti che una vicenda come quella di Ustica dimostra ampiamente e clamorosamente
che quando si tagliano fuori Province e Regioni (anche speciali) i comuni
sono facile e indifesa preda di un potere centralistico che non ha ancora
digerito lo spirito della legge quadro.
Ustica dimostra e insegna come nessun manuale avrebbe potuto
fare meglio che anche i più brillanti risultati in materia di protezione
se affidati unicamente alla titolarità e responsabilità di
un piccolo comune possono essere burocraticamente vanificati con un semplice
atto amministrativo.
Il che conferma chiaramente che la dimensione locale se non raccordata
a quelle diverse dimensioni provinciali, regionali, nazionali ed oggi
anche comunitarie in cui valori e tradizioni ‘locali’ trovano
la loro più naturale e valida area d’espansione e di radicamento è destinata
fatalmente a ripiegarsi su stessa restando subalterna di un potere centralistico
e burocratico insensibile e trinariciuto.
Ustica non è soltanto un vergognoso episodio perché con
pochi tratti di penna si è cancellato di fatto un lavoro di anni
prezioso e ricco di risultati.
È
la conferma del persistere e per molti versi dell’aggravarsi di
una politica che ha tenuto e evidentemente continua a considerare, nonostante
le ripetute dichiarazioni e assicurazioni che le cose sarebbero finalmente
cambiate, le aree marine protette una realtà per la quale la legge
quadro non vale e non conta.
Lasciamo perdere una buona volta le chiacchere sul numero delle
riserve istituite, su quelle in arrivo o in lista d’attesa, tanto
più che le cifre spesso sono accompagnate da affermazioni che rispetto
al loro ruolo fanno accapponare la pelle tanta è la banalità e
la superficialità che dimostra ancora una volta l’inadeguatezza
di una impostazione che troppe Regioni ed enti locali hanno la responsabilità e
la colpa di subire tranquillamente.
La vicenda delle aree protette marine va affrontata una volta
per tutte al di fuori di ogni untuosa diplomatizzazione perché dopo
oltre venti anni (tanti ne sono passati dalla legge 979) di ben altro
c’è bisogno.
E questo va detto senza peli sulla lingua anche nei confronti
di quei comuni inclusi nelle aree protette che pure sentono il bisogno
di costituirsi in associazione per contare di più.
Va benissimo ed è sacrosanto che essi vogliano concordare come
stare al meglio nei parchi e fare quel che gli compete.
Ma ciò non deve e non può assolutamente significare che
i comuni (ma vale per qualsiasi altro soggetto istituzionale stato compreso)
debbono avere gerarchicamente un ruolo ‘maggiore’ di altri.
Quando si dice, ad esempio,- e lo si detto proprio in occasione
della assemblea dell’ANCI di Norcia - che il ruolo dei comuni è ben
altra cosa da quello delle Province che non sono altrettanto vicine e
quindi non altrettanto rappresentative delle comunità locali, si
dice cosa sbagliata e in contrasto con lo spirito e la lettera della legge
quadro e delle leggi regionali sulle aree protette.
La ‘leale collaborazione’ poggia sul riconoscimento di una
pari dignità istituzionale di tutti i soggetti chiamati a gestire
le aree protette nazionali e regionali.
Pari dignità non significa naturalmente ruoli uguali e tanto meno
ruoli gerarchicamente diversi ma soltanto ‘differenziati’ in
virtù dei differenti ruoli dei vari soggetti.
Le Province rispetto ai comuni - tanto per restare all’esempio da
cui siamo partiti - privilegieranno gli aspetti pianificatori ricercando
il massimo e più armonico raccordo tra piano territoriale di coordinamento
e piani del parco (anche socio-economico), ma anche in base alle proprie
competenze e alle deleghe regionali le cose da fare per la gestione della
fauna, della flora etc.
Le Regioni anche per i parchi nazionali e non soltanto regionali
faranno lo stesso in riferimento alla programmazione e pianificazione
regionale, alle leggi da varare nei vari comparti etc. Perché se è vero
che i comuni sono più ‘vicini’ al sentire delle comunità locali
gli altri livelli istituzionali sono più vicini a quella dimensione
più ampia in cui quella locale deve essere assolutamente inserita
e incardinata pena l’esito di Ustica.
Sarebbe d’altronde curioso ma è meglio dire rovinoso che
mentre gli stati nazionali stanno autolimitando la loro sovranità per
trasferirla a istituzioni sovranazionali e non certo per fare meglio quello
che gli compete anche nazionalmente, le istituzioni locali, regionali
e statali impegnate nella gestione delle aree protette tornassero a rivendicare
competenze e ruoli ‘esclusivi’ a partire da quella dimensione
locale che senza forti e validi ancoraggi oggi rischia di essere completamente
vanificata dalla globalizzazione. Insomma chi si sciacqua la bocca con
troppa insistenza sul ruolo ‘locale’ non sempre lo fa a fin
di bene.
Da sola la dimensione locale, specialmente per quanto riguarda
le politiche di protezione, è destinata al fallimento e non tanto
perché qui - come sostengono ancora taluni movimenti - sono più forti
interessi locali che vanno contro i parchi- ma proprio perché gli
interessi forti che operano sulla scala non locale (vedi vicende dell’Arcipelago
Toscano) di quelli locali possono farsi spesso un sol boccone se non trovano
adeguato contrasto a livello provinciale, regionale ed anche nazionale.
I parchi sono lo strumento più efficace -previsto proprio per questo-
per raccordare interessi locali e generali su un terreno giusto, di scelte
ecosostenibili che nessuna istituzione da sola avrebbe le competenze e
la visione adeguata per risolvere.
Chi semina zizzania tra i diversi livelli istituzionali in nome
di un di ‘più’ che taluno deriva dall’essere
vicino alle comunità a altri per esserne invece più lontani
(e quindi al riparo da cattive e pericolose influenze) porta vasi a Samo,
ovvero aiuta chi nel locale come nella più ampia dimensione cerca
rogna.
Se tutto questo ha un senso, è chiaro allora che oggi il compito
primo per chiunque abbia a cuore il buon funzionamento dei parchi è trovare
le sedi giuste per affrontare quei problemi che nessuna delega o zizzania
istituzionale o politica può cancellare dall’agenda.
di Renzo Moschini |