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La mia borsa di studio aveva come titolo “Per
un Atlante delle emergenze storico-culturali nel territorio del Parco”:
il lavoro è stato svolto nell’anno 2002 con la responsabilità scientifica
dell’Istituto per i Beni culturali dell’Emilia-Romagna.
Ha dunque avuto al centro i beni culturali, un tema di straordinaria
attrazione nella società, che ha assunto oggi un significato più vasto
rispetto a quando era applicato soltanto ai capolavori architettonici,
pittorici e scultorei d’autore.
Il concetto di bene culturale si è infatti arricchito di elementi
legati alla vita quotidiana, ai valori e alla storia delle comunità locali,
riconoscendo così il valore culturale di categorie di beni che
testimoniano le identità culturali del composito panorama culturale
italiano: dagli oggetti d’arte ai monumenti, dai siti archeologici
ai paesi fino ai sistemi stradali stratificati e, disseminato sul territorio,
alle testimonianze demoetnoantropologiche, fino ai dialetti e la musica
folkclorica. Tutto questo offre materia alla storia della cultura: come,
del resto, un’attività artigianale e un borgo costituiscono
la testimonianza di un modo di vivere in rapporto col territorio.
La conservazione del patrimonio culturale diviene così principio
attivo per comprendere il bene nel rapporto che lo lega al territorio,
il quale ha un’identità che gli è conferita, oltre
che dal suo contesto naturale, anche dalla sua storia. Particolare attenzione
in questo lavoro è stata adoprata per sottolineare il nesso tra
bene culturale e paesaggio all’interno di un territorio come quello
del nostro Parco Nazionale: infatti arduo è soltanto pensare a
Camaldoli senza la sua foresta o al Santuario della Verna senza la sua
rupe.
Conviene sottolineare questo profondo rapporto tra natura e cultura
nell’area del parco. Significa infatti che i beni culturali non
possono essere intesi e proposti senza il quadro naturale di cui fanno
organicamente parte, un aspetto che avevano colto Carlo Beni, Aldo Spallicci
e Pietro Zangheri.
Ecco così salire alla ribalta il territorio, bene culturale esso
stesso e ambiente necessario al bene culturale: perciò è importantissimo
creare una coscienza diffusa che il valore aggiunto del patrimonio culturale
nel Parco è proprio nel suo continuo integrare musei, chiese, paesi,
borghi, paesaggio e persone; insomma che il contesto è il bene
culturale più prezioso. Provatevi, infatti, ad immaginare l’Appennino
tosco-romagnolo senza i suoi paesi, e i paesi senza i loro palazzi e le
loro chiese. Provatevi ad immaginare Badia Prataglia e San Godenzo senza
le loro abbazie, o Premilcuore senza l’Oratorio di San Lorenzo:
passa da questi luoghi l’identità del territorio montano.
Per questo motivo, i beni culturali hanno un valore civile e
sono il fondamento dell’appartenenza e dell’identità storica
di una popolazione. Già le persone: è difficile che un bene
culturale possa continuare ad esistere, anche se è stato appena
restaurato, se intorno non vi è una comunità che lo sente
proprio.
Ed è per questa ragione che la conservazione del patrimonio culturale
del parco passa anche attraverso un’azione concreta di sostegno
a quanti hanno scelto di vivere nella montagna.
Il lavoro che qui si presenta non vuole essere il catalogo dei
beni culturali del parco, un’indagine che richiederebbe, per essere
svolta, la presenza di molteplici specialisti. Con questo lavoro si è piuttosto
inteso indicare le numerose varianti con le quali è possibile declinare
il termine bene culturale e la pluridisciplinarietà dei contesti
nei quali si sviluppa.
Lo si è fatto attraverso uno spettro di indagine ampio, evidenziando
aspetti – tutti di pari dignità e ricchezza –, ciascuno
indicato in un percorso che ne traccia le linee essenziali.
Questa ricerca, articolata in capitoli – comprendenti paragrafi,
bibliografia e una proposta di intervento – e schede redatte per
avviare la catalogazione di alcuni beni – penso, ad esempio, ai
centri e nuclei storici – si offre dunque quale compendio di conoscenze
e d’informazioni a carattere non soltanto repertoriale – raccogliendo
quanto già stato elaborato –, ma critico, con l’Indice
che è già una selezione delle cose notevoli, dei percorsi
da continuare e delle nuove strade da intraprendere per una politica culturale
nell’area del Parco.
E dunque confidiamo che questa rilevazione possa supportare le
scelte degli amministratori e di quanti, attraverso le loro specifiche
professionalità, sono chiamati ad intervenire nella gestione del
Parco.
Tale ricognizione del sedimento culturale del territorio del
Parco, è stata svolta nella consapevolezza che la riflessione sulla
nozione di bene culturale rimanda ad una meditazione sull’idea stessa
di cultura, in quanto, ciò che chiamiamo patrimonio culturale non
ha un senso definitivo e la sua funzione va commisurata a una realtà antropologica
che muta; che cosa vogliamo ancora ricordare e vedere? È questo
l’interrogativo al quale tenta di rispondere questa ricerca, mai
dimenticando che i beni culturali appartengono ad un genere particolare
di beni: il bene pubblico; sarà bene rammentarlo ora che un tema
all’apparenza innuocuo come quello dei beni culturali tocca le zone
sensibili della politica.
Vorrei ora estrapolare almeno due riflessioni; la prima la traggo
dal capitolo Splendore nei borghi, dedicato al patrimonio architettonico
nel parco, legato al progetto, già da tempo avviato, di recupero,
ripristino e restauro del patrimonio insediativo storico. In proposito,
mi permetto di ricordare l’importanza della manutenzione di un bene,
che evita l’urgenza del restauro.
E poi, ancora: in quali borghi concentrare le azioni? E con quali
prospettive? È opportuno concentrare le azioni dove è cospicua
la popolazione residente: ne deriverebbe un’azione di sostegno alla
popolazione; se a ciò si aggiunge che numerosi tra i luoghi menzionati
nelle schede sono di interesse storico, ne deriva che all’esigenza
sostenuta dal parco di tutela degli insediamenti umani – intesi
nell’eccezione più ampia di luoghi abitati e sedi di attività (agricoltura,
allevamento agriturismo) legate al territorio –, si coniuga quella
della valorizzazione di luoghi d’interesse storico, che è un
altro parametro per tarare gli interventi.
Sostegno alla popolazione residente e conservazione delle aree
storiche: sembrano dunque questi i due criteri ai quali ispirare le azioni
di recupero e restauro dei borghi del Parco.
Occorre però aggiungere un’ulteriore riflessione, scaturita
da un mutato contesto sociale. La tutela e la conservazione dei paesaggi
tradizionali dove sono compresi anche i borghi, deve, in alcuni casi,
affrontare il problema di non avere più come referenti gli abitanti.
Il problema può essere riassunto nella domanda: cosa accade quando
vengono meno quelle genti che hanno costruito il loro paesaggio? Che cosa
accade, ad esempio, a un luogo di notevole bellezza e significativo dal
punto di vista storico come Siregiolo (Chiusi della Verna) ancora nella
sua quasi totalità da recuperare, privo di popolazione residente
e soltanto meta di un soggiorno estivo da parte di famiglie che conservano
legami affettivi con questa località, tra l’altro raggiungibile
soltanto attraverso una strada non asfaltata? Varie sono le risposte e,
quanto suggerito poco fa – d’intervenire nei luoghi dove è concentrata
la popolazione –, rimane un criterio al quale ispirarsi; a patto
però di non far seguire a situazioni differenti risposte uguali.
Una risposta al nostro quesito è che il bel paesaggio, inteso come
costruzione cosciente di società che abitano il territorio, deve
essere conservato, né più né meno come si conserva
un’opera d’arte o un centro storico. È, del resto,
questa la scommessa che il parco ha lanciato con la ristrutturazione del
Mulino delle Cortine nella Valle di Pietrapazza. Si è giustamente
deciso di tenere vivo un luogo lì dov’è, perché questa
area assieme alla chiesa, al cimitero e alle maestà, rappresenta
la storia di una comunità.
La seconda riflessione vorrei dedicarla alle strade. La viabilità ottocentesca – in
molti luoghi d’Italia oggi semifrantumata –, fattore di primaria
importanza per la comprensione degli assetti territoriali, nel territorio
del parco nazionale è ancora bene conservata. L’accesso al
parco avviene attraverso tre storiche strade (la strada del Muraglione,
della Calla e dei Mandrioli) di valore paesaggistico.
Queste tre importanti rotabili ancora oggi percorse e al centro
del sistema viario del Parco, e che coronano quasi un sogno,
durato secoli, di un più facile collegamento tra Toscana e Romagna,
devono essere considerate molto di più che semplici strade di attraversamento.
Avendo uno spiccato valore paesaggistico – come bene esprimono le
testimonianze letterarie dei viaggiatori che le hanno attraversate – e
dunque anche turistico, è auspicabile diventino delle parkways
nelle quali intervenire depotenziando ulteriormente il traffico
pesante, e salvaguardando, con cura particolare, le fontane e le maestà.
di
Alfredo Bellandi
Relazione letta al Convegno Ricerca
e Conservazione
nel Parco nazionale delle Foreste Casentinesi,
Monte Falterona e Campigna
3 febbraio 2003
Sede della Provincia di Forlì, Cesena |