Federparchi
Federazione Italiana Parchi e Riserve Naturali


PARCHI
Rivista della Federazione Italiana Parchi e delle Riserve Naturali
NUMERO 41 - FEBBRAIO 2004


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IL DECENNALE DEI PARCHI NAZIONALI

Un’occasione per riflettere

Gli anniversari sia pure con periodizzazioni inevitabilmente più o meno di ‘comodo’ sono quasi sempre utili occasioni per parlare dei problemi di oggi alla luce di quanto è avvenuto nell’arco di tempo preso in considerazione. Il decennale dei parchi nazionali istituiti con la legge quadro n. 394 credo non sfugga a questo criterio ma con una specificità del tutto particolare che è bene sottolineare in premessa. Per i parchi figli di una legge tra le più attese e controverse nella storia parlamentare, il decennio in questione è stato quello della istituzione e avvio di una esperienza che pur non mancando di qualche punto di riferimento (oltre alla legge ovviamente) presentava caratteristiche assolutamente nuove rispetto anche a quel che altri avevano già intrapreso e realizzato in epoche diverse.
Si trattava infatti di costruire una istituzione nuova per finalità e connotati. Nuova in primo luogo rispetto a quella dei vecchi parchi storici ma anche a quella sicuramente più affine e vicina dei parchi regionali, i quali avevano seguito però percorsi differenziati e che non avevano in ogni caso investito l’intero territorio nazionale.
I nuovi parchi nazionali si ispiravano - diciamo così - al modello regionale in quanto impegnavano i diversi livelli e soggetti istituzionali ma lo facevano assegnando per la prima volta una precisa e chiara responsabilità e titolarità allo stato coinvolgendo al tempo stesso anche soggetti non istituzionali; ed anche questo era una novità importante (alcuni parchi regionali avevano in verità fatto qualche sporadico tentativo in questa direzione senza però uscire dai confini ‘locali’) perchè era la prima volta che questo ‘allargamento’ veniva sancito in una legge dello stato. Se questa era la trama normativa su cui si doveva costruire il nuovo soggetto ‘parco nazionale, va pure aggiunto, per quanto possa sembrare persino ovvio, che tale costruzione avrebbe richiesto come sempre - e tutta l’esperienza istituzionale anche del nostro paese è lì a dimostrarlo - tempi lunghi. Basta pensare alla vicenda delle province che a distanza di un secolo sono ancora chiaccherate riguardo al loro ruolo o alle più ‘giovani’ comunità montane - per citare un soggetto istituzionale non elettivo- che hanno registrato già diverse svolte e ‘aggiustamenti’ tutt’ora in corso.
Ora, questa premessa è d‘obbligo non già per evitare valutazioni che potrebbero risultare poco oggettive o magari volte a riprendere e rinfocolare vecchie ruggini sulla ‘parcomania’ e quant’altro, di cui a lungo si è parlato e straparlato.
L’obbligo deriva, più realisticamente, dalla esigenza di cogliere l’effettiva portata dell’evento. Non possiamo certo avere dimenticato (e se lo si è fatto è bene rinfrescarci la memoria) che l’idea di affidare ad un nuovo tipo di ente non ‘settoriale’, per di più aperto a presenze non istituzionali, la gestione dei parchi nazionali suscitò numerose perplessità di vario e diverso segno. Ai dubbi sulla non ‘purezza’ istituzionale dei nuovi enti espressi a più riprese in ambito istituzionale si accompagnò, anche in insospettabili settori della cultura e militanza ambientalista, un diffuso scetticismo sulla reale capacità di questi nuovi ‘carrozzoni’ o ‘usl verdi’ (così furono da qualcuno definiti) di gestire roba tanto delicata e impegnativa. Quanto la nuova legge prevedeva (e non era davvero poco) fu insomma considerato anche da molti amici dei parchi a rischio di rimanere sulla carta; da qui i ‘parchi di carta’ di tante polemiche anche ‘autorevoli’.
Insomma, chi si apprestò a dare attuazione alla legge, a dotare i nuovi parchi, peraltro generalmente molto estesi e soprattutto collocati in parti del paese che erano rimaste inerti e alla finestra, mentre in altre regioni non si era atteso che il parlamento legiferasse, non lo fece certo tra due ali di folla festanti. Inoltre, se tutto questo non fosse bastato va anche ricordato che quella sfida riguardava istituzioni e soggetti che generalmente non solo non si erano cimentate in siffatte imprese, ma avevano in più d’un caso manifestato apertamente se non l’ostilità - che pure sovente ci fu- un profondo scetticismo. Per dirla chiaramente, non si partiva certo alla grande, anche se la legge rappresentò innegabilmente una svolta che cambiava molte carte in tavola anche per i ‘parcoscettici’ più incalliti, costretti finalmente a misurarsi concretamente con una scelta che volenti o nolenti li metteva per molti versi con le spalle al muro.
Tutto questo, e molto altro che qui dobbiamo per forza di cose omettere e tralasciare, è sufficiente a giustificare l’invito a chi si ripromette nel fare un bilancio di questo decennio, di impiegare come è giusto le armi più affilate della critica, di non dimenticare i punti e le condizioni di partenza.
Ciò risulterà utile non già per attenuare o ammorbidire la riflessione critica, bensì per cogliere in tutta la sua pregnanza cosa il decennio ha davvero rappresentato e non soltanto per i nuovi parchi nazionali.
Il bilancio dei dieci anni sia nei parchi i cui presidenti sono giunti alla scadenza del loro mandato e che non sono pertanto rieleggibili (Val Grande, Foreste Casentinesi, Monti Sibillini) e dove quindi sono già iniziate le grandi manovre per le sostituzioni, sia negli altri dove pure il mandato potrebbe essere rinnovato, andrà naturalmente costruito su molti fronti e versanti. A partire, naturalmente, da quanto hanno già iniziato a fare e sicuramente continueranno a fare i parchi interessati, come lo speciale di Piemonte Parchi dedicato all Val Grande e l’opuscolo dello stesso parco sul decennio, o la brochure più politica del parco delle Foreste Casentinesi. Questi tipo di materiali ha tagli e finalità diversi, ma non v’è dubbio che essi potranno contribuire a quella più ampia riflessione fornendo utili tasselli non soltanto sull’operato dei singoli parchi, ma su come essi nel complesso hanno risposto alla prova a cui erano stati chiamati.
A questa riflessione, che è qualcosa di più di un semplice ancorchè dovuto bilancio ‘amministrativo’ e ‘contabile’ delle singole realtà, debbono contribuire e concorrere oltre, ben s’intende, i vari enti gestori, le istituzioni dal ministero dell’ambiente, alle regioni, enti locali e insieme l’associazionismo ambientalista e no, gli esperti tutti.
La recente indagine parlamentare sui parchi nazionali ha fornito talune utili indicazioni al riguardo, innanzitutto sgombrando il campo da alcuni giudizi che negli ultimi tempi circolavano con grande disinvoltura su quello che si è cercato di raffigurare e presentare come il ‘fallimento’ dei parchi nazionali in questa prima e decisiva fase. Tra le prove a carico come la spada di Brenno si era calato sulla bilancia il dato impressionante dei residui passivi.
I sopralluoghi delle due commissioni ambiente di Camera e Senato hanno agevolmente sgombrato il campo da questi maldestri e tuttavia pericolosi tentativi di gettare più che un ombra un pesante macigno, sull’operato dei nuovi parchi nazionali, specialmente al sud.
Potremmo dire che è stato in un certo senso restituito a loro l’onore. Resta tuttavia l’esigenza -scongiurata la manovra denigratoria- di andare a vedere più a fondo come stanno oggi veramente le cose e individuare i problemi che restano, e soprattutto quelli che emergono dai risultati conseguiti. L’indagine parlamentare - diciamo così- ha il merito di ‘assolvere’ i parchi da una accusa immeritata. Ma ciò non significa che essi hanno risolto tutti i loro problemi e che quindi ora si può stare tranquilli. Lo stesso documento conclusivo dell’indagine segnala, infatti, alcuni di questi problemi inerenti in particolare la questione dei residui. E lo fa correttamente evidenziando anche sotto il profilo tecnico e amministrativo l’esigenza di rimuovere una serie di strozzature burocratiche e procedimentali che producono pesanti rallentamenti nella gestione legando le mani all’ente parco.
È questa una buona base di partenza per uscire dalle facili accuse e recriminazioni e avviare finalmente un discorso serio su quel che va cambiato o migliorato. Ma l’orizzonte dei problemi è sicuramente più ampio di quello delineato e accennato dal documento conclusivo dell’ indagine parlamentare.
Ecco l’occasione che ci offre questo decennale che potrebbe anche esaurirsi in qualche cerimonia, in qualche opuscolo e sinceri ringraziamenti a chi lascia questa esperienza.
Così da poter tornare tranquillamente a dedicarsi anima e core a quelle polemiche che spesso hanno strascichi a non finire per i rinnovi, i dosaggi politici etc.
Ci auguriamo che le cose seguano un diverso percorso e che -senza nulla togliere al gladiatori della politica- si abbia l’accortezza di guardare anche al resto, che non è poco.
Tanto più che l’esasperante -e al momento non ancora conclusa- vicenda della delega al governo per rivedere tutta una serie di testi unici in materia ambientale compreso quelle relativo alle aree protette, comunque vada a finire un risultato l’ha già prodotto; ha messo in ‘sonno’ questioni che invece non possono essere più a lungo ignorate.
Non credo possa essere sfuggito, ad esempio, a chi ha seguito le vicende della legge quadro in questi anni come si sia di botto passati da una quasi quotidiana polemica sulla legge di cui si reclamavano le più varie e sovente cervellotiche modifiche rifiutate in blocco da altri che a torto o a ragione temevano stravolgimenti sempre in agguato, ad un silenzio rotto soltanto dalle solite sortite sulla caccia che sembrano rispondere ad un preciso e scontato copione politico. Si dirà: cosa c’entra tutto questo con il decennale? C’entra e molto, perché in virtù dei risultati conseguiti che hanno alla prova dei fatti dimostrato che i parchi nazionali non sono né di carta né tanto meno i paventati carrozzoni mangiasoldi, è anche emerso che non tutto può essere lasciato così come era stato previsto dalla legge quadro.
Non l’autonomia degli enti di gestione che dopo dieci anni risulta asfittica e progioniera, come ha detto l’indagine parlamentare, di riti burocratici che hanno fatto il loro tempo. E non parliamo delle aree protette marine che dopo dieci anni (ai quali vanno aggiunti quelli che mancano per risalire al 1979 cioè al varo della legge sul mare) non sanno bene cosa sono: parchi o riserve? Finora né l’una né l’altra cosa se è vero che per loro si ricorre ormai ambiguamente e ipocritamente alla definizione di ‘aree protette marine’ che ha soltanto il merito e lo scopo di protrarre e nascondere una situazione ormai assolutamente insostenibile. Tanto più insostenibile e assurda dal momento che da poco si è anche deciso per legge che il personale debbono pagarselo gli enti gestori (leggi comuni). Così, dopo tutta la stucchevole retorica sui piccoli comuni cuore pulsante delle riserve marine, gli si è sbolognato, senza che i più si scandalizzassero più di tanto, anche il costo del personale. Ustica è solo l’esempio più clamoroso di questa condizione insostenibile e grottesca.
E c’è dell’altro, sebbene in questo decennio sia capitato assai raramente di sentirne parlare anche da parte di chi ad ogni piè sospinto intendeva fare la bucce alla nuova legge.
Ci riferiamo alle commissioni di riserva delle aree marine previste dalla legge del 1979 e regolarmente e acriticamente mutuata a fatta propria dal ministero. Credo si tratti dell’oggetto più misterioso e sconosciuto tra quelli oggi operanti nel campo delle aree protette. Eppure esse hanno un presidente, un direttore, un bilancio e affiancano l’organo di gestione (ente o consorzio che sia). Del loro operato anche i meglio informati sanno poco o nulla. È vero che al ministero, come ci è stato detto anche recentemente, si preferisce lavorare in ‘silenzio’, senza clamore quasi si trattasse di un ritiro conventuale, ma è davvero singolare che specie chi vuole disboscare, mettere ordine nella ‘selva’ legislativa con i nuovi testi unici taccia e faccia finta di niente su questa macroscopica anomalia, rispetto alla normale gestione delle aree protette prevista dalla legge quadro che per ‘nessuna’ area protetta prevede e consente un ‘doppio’ comando. Senza peraltro dimenticare che anche gli ultimi decreti istitutivi di aree protette marine prevedono come facoltativa anche la possibilità di istituire pure un comitato scientifico quasi che due organi fossero pochi.
Che facciamo, rimandiamo tutto alla delega? È chiaro che non si può e non si deve. Ma anche la composizione degli enti parco nazionali, non a caso definiti in sede costituzionale a carattere ‘composito’, richiede qualche aggiustamento. Sia nel senso di prevedere, ad esempio, anche altri ingressi associativi e rappresentativi, nelle aree marine dei pescatori e negli altri degli agricoltori. E poi perché non prendere atto dopo dieci anni di intensa sperimentazione che avere la stessa composizione nei parchi con decine e decine di comuni e parchi di un solo comune non ha alcun senso specie dopo che nella pubblica amministrazione il principio di differenzazione è ormai largamente acquisito e consolidato.
È curioso, per usare un eufemismo, che su questioni così importanti, riproposte peraltro da tutta una serie di riforme e interventi amministrativi e costituzionali con i quali si sta cercando di assicurare la maggiore efficacia ed efficienza al governo della cosa pubblica, le stesse commissioni parlamentari non abbiamo detto niente, ma soprattutto è inspiegabile che il ministero continui a far finta di niente.
Forse non è inopportuno ricordare a chi va teorizzando - quasi si trattasse di una virtù e un merito - il lavoro ‘silenzioso’, che per le istituzioni e i governi oggi l’informazione e la comunicazione sono un dovere, anzi un obbligo costituzionale solennemente e autorevolmente sancito anche dalle normative comunitarie. Qualche anno fa in sede comunitaria si è detto- dopo una indagine del Mediatore- che ‘costituisce una caso di cattiva amministrazione non adottare o non rendere facilmente accessibile al pubblico norme sull’accesso del pubblico ai documenti’.
La legge quadro prevede (ma chi lo ricorda?) relazioni annuali con questo preciso scopo e non era certo un caso. Era questa una delle condizioni perché nelle sedi preposte alla gestione in ‘leale collaborazione’ del sistema delle aree protette, si potesse decidere sulla base di una corretta informazione e documentazione. Quelle sedi sono state da tempo sbaraccate ma al loro posto non vi è nulla se non l’impegno vago e per ora regolarmente rinviato e perciò non mantenuto di creare un tavolo comune di cui si era parlato a Torino.
Può così accadere che il perdurare di situazioni, come quelle che favoriscono il prodursi di ingenti residui passivi, non siano oggetto di alcuna attenzione e misura correttiva in quanto mancano persino le sedi in cui questo possa avvenire.
Si potrebbe dire che qui c’è da compiere - e il decennale ce ne offre una preziosa occasione - una vera e propria operazione ‘verità’, ossia un puntuale monitoraggio di una realtà ‘sommersa’ che noi dobbiamo riuscire a fare ‘emergere’ e che merita assai di più di qualche strumentale polemica a buon mercato.
Una occasione per fare un accurato inventario di una situazione di cui un aspetto importante, ma anch’esso praticamente ignorato o quasi, è quello relativo alle piante organiche, alla gestione di un personale che in uno dei suoi gangli fondamentali, la vigilanza, rimane di fatto ‘sottratto’ in larga misura alla competenza dell’ente parco.
Anche qui vale la pena di ricordare i timori, se non la certezza, di qualcuno che paventò all’indomani dell’entrata in vigore della legge un rapido e improvvido gonfiamento degli organici dei parchi tanto da farne delle nuove piccole casse del mezzogiorno.
A dieci anni sarebbe bene fare qualche bilancio non all’ingrosso anche in questo comparto.
Qualche anno fa il ministero, avvertendo l’esigenza di mettersi - su un piano più adeguato-in rapporto con i parchi nazionali, tentò di istituire una sorta di Consiglio nazionale che naufragò presto.
E non poteva che essere così dal momento che quello che si cercava era semplicemente una sede per diramare qualche direttiva amministrativa ai parchi nazionali, quasi che essi ‘dipendessero’ unicamente dal ministero. Non sono queste le sedi di cui c’è bisogno per far funzionare il ‘sistema’ delle aree protette di cui i parchi nazionali sono soltanto una componente per quanto importantissima.
Ci sono naturalmente anche altre e non meno più importanti questioni di cui si dovrà tornare a parlare, mi riferisco ai piani dei parchi (plurale d’obbligo essendo i piani due).
E dico ‘tornare’ perché ad una prima stagione molto intensa anche sul piano culturale, che ebbe il merito di valorizzare la funzione ‘nuova’ e davvero speciale dei parchi in un campo che ne esaltava l’integrazione, la non settorialità -antichi mali di qualsiasi efficace programmazione e pianificazione -, sembra essere seguita una fase di calo se non di caduta, che in molti casi sembra quasi averne cancellato persino le tracce. A che punto siamo con i piani dopo un decennio?
Come e chi ci sta seriamente lavorando? Piano significa soprattutto visione d’insieme delle finalità e degli strumenti di intervento di un’area protetta esaltandone e mettendone bene in luce quella ‘specialità’ che risulta fastidiosa a tutti coloro che preferiscono un parco che trotterella al fianco delle altre istituzioni sbiadendone i connotati più peculiari.
Commentando criticamente la partecipazione del nostro paese al Congresso di Durban è stato autorevolmente rilevato che tra le molte emergenze ambientali spicca la perdita di biodiversità la cui tutela e protezione è il compito preminente e più impegnativo dei parchi. Ne ha parlato in particolare Boitani che anche alla assemblea di Federparchi dello scorso dicembre ha richiamato questa esigenza intimamente connessa ad un forte rilancio delle aree protette.
Il direttore Cosentino ha detto in quella occasione che il piani nazionale è di imminente presentazione, ma come dimenticare che da anni su questo fronte nulla si muove nelle stanze del ministero (più articolata è la situazione delle regioni) tanto che della Carta della Natura è sempre più raro trovare persino qualche menzione.
S’intende che mettendo in ombra e omettendo questi nodi cruciali anche il ruolo del parco scolorisce, sfuma i suoi connotati fino a confondersi e perdersi nel più ampio e superaffollato panorama istituzionale.
Come stupirsi poi se le cruciali questioni ambientali restano delle cenerontele, se persino i parchi, a ciò specificamente e straordinariamente preposti, sono di fatto stimolati e incoraggiato ad occuparsi di altro?
Tutto questo ancora una volta richiede un franco ‘confronto’, significa allargare e rafforzare la cooperazione tra i molteplici livelli istituzionali che oggi sempre più comprendono e includono anche quelli sovranazionale. Significa insomma sedi e strumenti in cui questa ‘leale collaborazione’ già nella messa a fuoco e definizione della ‘agenda’- possa esercitarsi concretamente. Ma evidentemente non tira aria favorevole, ecco perché sia sul piano nazionale che regionale queste sedi e strumenti di confronto e di cooperazione nonostante la legge, nonostante gli impegni non decollano.
Ci si è persino dimenticati che esistono organismi regolarmente costituiti e insediati da chissà quanto tempo, come la Consulta tecnica, che neppure vengono riuniti.
O che, come prevedeva la legge Bassanini, dovevano essere ‘riformati’ non abrogati e che invece sono stati semplicemente dimenticati e ignorati.
Per tutto questo si aspetta la delega?
Non scherziamo. Qualunque cosa saranno chiamati a fare e proporre i tecnici di quella commissione di esperti non potranno certo loro rispondere (e chissà quando) a questi problemi. Né i parchi nazionali giunti al giro di boa decennale potranno aspettare il loro responso.
Il ministero, le regioni e gli enti locali che non potranno certo ignorare il decennale è con queste questioni che dovranno misurarsi. E non varrà per nessuno lo scaricabarile di cui siamo maestri.

di Renzo Moschini