Gli anniversari sia pure con periodizzazioni
inevitabilmente più o meno di ‘comodo’ sono quasi
sempre utili occasioni per parlare dei problemi di oggi alla luce di
quanto è avvenuto nell’arco di tempo preso in considerazione.
Il decennale dei parchi nazionali istituiti con la legge quadro n. 394
credo non sfugga a questo criterio ma con una specificità del
tutto particolare che è bene sottolineare in premessa. Per i
parchi figli di una legge tra le più attese e controverse nella
storia parlamentare, il decennio in questione è stato quello
della istituzione e avvio di una esperienza che pur non mancando di
qualche punto di riferimento (oltre alla legge ovviamente) presentava
caratteristiche assolutamente nuove rispetto anche a quel che altri
avevano già intrapreso e realizzato in epoche diverse.
Si trattava infatti di costruire una istituzione nuova per finalità e
connotati. Nuova in primo luogo rispetto a quella dei vecchi parchi storici
ma anche a quella sicuramente più affine e vicina dei parchi regionali,
i quali avevano seguito però percorsi differenziati e che non avevano
in ogni caso investito l’intero territorio nazionale.
I nuovi parchi nazionali si ispiravano - diciamo così - al modello
regionale in quanto impegnavano i diversi livelli e soggetti istituzionali
ma lo facevano assegnando per la prima volta una precisa e chiara responsabilità e
titolarità allo stato coinvolgendo al tempo stesso anche soggetti
non istituzionali; ed anche questo era una novità importante (alcuni
parchi regionali avevano in verità fatto qualche sporadico tentativo
in questa direzione senza però uscire dai confini ‘locali’)
perchè era la prima volta che questo ‘allargamento’ veniva
sancito in una legge dello stato. Se questa era la trama normativa su
cui si doveva costruire il nuovo soggetto ‘parco nazionale, va pure
aggiunto, per quanto possa sembrare persino ovvio, che tale costruzione
avrebbe richiesto come sempre - e tutta l’esperienza istituzionale
anche del nostro paese è lì a dimostrarlo - tempi lunghi.
Basta pensare alla vicenda delle province che a distanza di un secolo
sono ancora chiaccherate riguardo al loro ruolo o alle più ‘giovani’ comunità montane
- per citare un soggetto istituzionale non elettivo- che hanno registrato
già diverse svolte e ‘aggiustamenti’ tutt’ora
in corso.
Ora, questa premessa è d‘obbligo non già per evitare
valutazioni che potrebbero risultare poco oggettive o magari volte a riprendere
e rinfocolare vecchie ruggini sulla ‘parcomania’ e quant’altro,
di cui a lungo si è parlato e straparlato.
L’obbligo deriva, più realisticamente, dalla esigenza di
cogliere l’effettiva portata dell’evento. Non possiamo certo
avere dimenticato (e se lo si è fatto è bene rinfrescarci
la memoria) che l’idea di affidare ad un nuovo tipo di ente non ‘settoriale’,
per di più aperto a presenze non istituzionali, la gestione dei
parchi nazionali suscitò numerose perplessità di vario e
diverso segno. Ai dubbi sulla non ‘purezza’ istituzionale
dei nuovi enti espressi a più riprese in ambito istituzionale si
accompagnò, anche in insospettabili settori della cultura e militanza
ambientalista, un diffuso scetticismo sulla reale capacità di questi
nuovi ‘carrozzoni’ o ‘usl verdi’ (così furono
da qualcuno definiti) di gestire roba tanto delicata e impegnativa. Quanto
la nuova legge prevedeva (e non era davvero poco) fu insomma considerato
anche da molti amici dei parchi a rischio di rimanere sulla carta; da
qui i ‘parchi di carta’ di tante polemiche anche ‘autorevoli’.
Insomma, chi si apprestò a dare attuazione alla legge, a dotare
i nuovi parchi, peraltro generalmente molto estesi e soprattutto collocati
in parti del paese che erano rimaste inerti e alla finestra, mentre in
altre regioni non si era atteso che il parlamento legiferasse, non lo
fece certo tra due ali di folla festanti. Inoltre, se tutto questo non
fosse bastato va anche ricordato che quella sfida riguardava istituzioni
e soggetti che generalmente non solo non si erano cimentate in siffatte
imprese, ma avevano in più d’un caso manifestato apertamente
se non l’ostilità - che pure sovente ci fu- un profondo scetticismo.
Per dirla chiaramente, non si partiva certo alla grande, anche se la legge
rappresentò innegabilmente una svolta che cambiava molte carte
in tavola anche per i ‘parcoscettici’ più incalliti,
costretti finalmente a misurarsi concretamente con una scelta che volenti
o nolenti li metteva per molti versi con le spalle al muro.
Tutto questo, e molto altro che qui dobbiamo per forza di cose
omettere e tralasciare, è sufficiente a giustificare l’invito
a chi si ripromette nel fare un bilancio di questo decennio, di impiegare
come è giusto le armi più affilate della critica, di non
dimenticare i punti e le condizioni di partenza.
Ciò risulterà utile non già per attenuare o ammorbidire
la riflessione critica, bensì per cogliere in tutta la sua pregnanza
cosa il decennio ha davvero rappresentato e non soltanto per i nuovi parchi
nazionali.
Il bilancio dei dieci anni sia nei parchi i cui presidenti sono
giunti alla scadenza del loro mandato e che non sono pertanto rieleggibili
(Val Grande, Foreste Casentinesi, Monti Sibillini) e dove quindi sono
già iniziate le grandi manovre per le sostituzioni, sia negli altri
dove pure il mandato potrebbe essere rinnovato, andrà naturalmente
costruito su molti fronti e versanti. A partire, naturalmente, da quanto
hanno già iniziato a fare e sicuramente continueranno a fare i
parchi interessati, come lo speciale di Piemonte Parchi dedicato all Val
Grande e l’opuscolo dello stesso parco sul decennio, o la brochure
più politica del parco delle Foreste Casentinesi. Questi tipo di
materiali ha tagli e finalità diversi, ma non v’è dubbio
che essi potranno contribuire a quella più ampia riflessione fornendo
utili tasselli non soltanto sull’operato dei singoli parchi, ma
su come essi nel complesso hanno risposto alla prova a cui erano stati
chiamati.
A questa riflessione, che è qualcosa di più di un semplice
ancorchè dovuto bilancio ‘amministrativo’ e ‘contabile’ delle
singole realtà, debbono contribuire e concorrere oltre, ben s’intende,
i vari enti gestori, le istituzioni dal ministero dell’ambiente,
alle regioni, enti locali e insieme l’associazionismo ambientalista
e no, gli esperti tutti.
La recente indagine parlamentare sui parchi nazionali ha fornito
talune utili indicazioni al riguardo, innanzitutto sgombrando il campo
da alcuni giudizi che negli ultimi tempi circolavano con grande disinvoltura
su quello che si è cercato di raffigurare e presentare come il ‘fallimento’ dei
parchi nazionali in questa prima e decisiva fase. Tra le prove a carico
come la spada di Brenno si era calato sulla bilancia il dato impressionante
dei residui passivi.
I sopralluoghi delle due commissioni ambiente di Camera e Senato
hanno agevolmente sgombrato il campo da questi maldestri e tuttavia pericolosi
tentativi di gettare più che un ombra un pesante macigno, sull’operato
dei nuovi parchi nazionali, specialmente al sud.
Potremmo dire che è stato in un certo senso restituito a loro l’onore.
Resta tuttavia l’esigenza -scongiurata la manovra denigratoria-
di andare a vedere più a fondo come stanno oggi veramente le cose
e individuare i problemi che restano, e soprattutto quelli che emergono
dai risultati conseguiti. L’indagine parlamentare - diciamo così-
ha il merito di ‘assolvere’ i parchi da una accusa immeritata.
Ma ciò non significa che essi hanno risolto tutti i loro problemi
e che quindi ora si può stare tranquilli. Lo stesso documento conclusivo
dell’indagine segnala, infatti, alcuni di questi problemi inerenti
in particolare la questione dei residui. E lo fa correttamente evidenziando
anche sotto il profilo tecnico e amministrativo l’esigenza di rimuovere
una serie di strozzature burocratiche e procedimentali che producono pesanti
rallentamenti nella gestione legando le mani all’ente parco.
È
questa una buona base di partenza per uscire dalle facili accuse
e recriminazioni e avviare finalmente un discorso serio su quel che va
cambiato o migliorato. Ma l’orizzonte dei problemi è sicuramente
più ampio di quello delineato e accennato dal documento conclusivo
dell’ indagine parlamentare.
Ecco l’occasione che ci offre questo decennale che potrebbe anche
esaurirsi in qualche cerimonia, in qualche opuscolo e sinceri ringraziamenti
a chi lascia questa esperienza.
Così da poter tornare tranquillamente a dedicarsi anima e core
a quelle polemiche che spesso hanno strascichi a non finire per i rinnovi,
i dosaggi politici etc.
Ci auguriamo che le cose seguano un diverso percorso e che -senza
nulla togliere al gladiatori della politica- si abbia l’accortezza
di guardare anche al resto, che non è poco.
Tanto più che l’esasperante -e al momento non ancora conclusa-
vicenda della delega al governo per rivedere tutta una serie di testi
unici in materia ambientale compreso quelle relativo alle aree protette,
comunque vada a finire un risultato l’ha già prodotto; ha
messo in ‘sonno’ questioni che invece non possono essere più a
lungo ignorate.
Non credo possa essere sfuggito, ad esempio, a chi ha seguito
le vicende della legge quadro in questi anni come si sia di botto passati
da una quasi quotidiana polemica sulla legge di cui si reclamavano le
più varie e sovente cervellotiche modifiche rifiutate in blocco
da altri che a torto o a ragione temevano stravolgimenti sempre in agguato,
ad un silenzio rotto soltanto dalle solite sortite sulla caccia che sembrano
rispondere ad un preciso e scontato copione politico. Si dirà:
cosa c’entra tutto questo con il decennale? C’entra e molto,
perché in virtù dei risultati conseguiti che hanno alla
prova dei fatti dimostrato che i parchi nazionali non sono né di
carta né tanto meno i paventati carrozzoni mangiasoldi, è anche
emerso che non tutto può essere lasciato così come era stato
previsto dalla legge quadro.
Non l’autonomia degli enti di gestione che dopo dieci anni risulta
asfittica e progioniera, come ha detto l’indagine parlamentare,
di riti burocratici che hanno fatto il loro tempo. E non parliamo delle
aree protette marine che dopo dieci anni (ai quali vanno aggiunti quelli
che mancano per risalire al 1979 cioè al varo della legge sul mare)
non sanno bene cosa sono: parchi o riserve? Finora né l’una
né l’altra cosa se è vero che per loro si ricorre
ormai ambiguamente e ipocritamente alla definizione di ‘aree protette
marine’ che ha soltanto il merito e lo scopo di protrarre e nascondere
una situazione ormai assolutamente insostenibile. Tanto più insostenibile
e assurda dal momento che da poco si è anche deciso per legge che
il personale debbono pagarselo gli enti gestori (leggi comuni). Così,
dopo tutta la stucchevole retorica sui piccoli comuni cuore pulsante delle
riserve marine, gli si è sbolognato, senza che i più si
scandalizzassero più di tanto, anche il costo del personale. Ustica è solo
l’esempio più clamoroso di questa condizione insostenibile
e grottesca.
E c’è dell’altro, sebbene in questo decennio sia capitato
assai raramente di sentirne parlare anche da parte di chi ad ogni piè sospinto
intendeva fare la bucce alla nuova legge.
Ci riferiamo alle commissioni di riserva delle aree marine previste
dalla legge del 1979 e regolarmente e acriticamente mutuata a fatta propria
dal ministero. Credo si tratti dell’oggetto più misterioso
e sconosciuto tra quelli oggi operanti nel campo delle aree protette.
Eppure esse hanno un presidente, un direttore, un bilancio e affiancano
l’organo di gestione (ente o consorzio che sia). Del loro operato
anche i meglio informati sanno poco o nulla. È vero che al ministero,
come ci è stato detto anche recentemente, si preferisce lavorare
in ‘silenzio’, senza clamore quasi si trattasse di un ritiro
conventuale, ma è davvero singolare che specie chi vuole disboscare,
mettere ordine nella ‘selva’ legislativa con i nuovi testi
unici taccia e faccia finta di niente su questa macroscopica anomalia,
rispetto alla normale gestione delle aree protette prevista dalla legge
quadro che per ‘nessuna’ area protetta prevede e consente
un ‘doppio’ comando. Senza peraltro dimenticare che anche
gli ultimi decreti istitutivi di aree protette marine prevedono come facoltativa
anche la possibilità di istituire pure un comitato scientifico
quasi che due organi fossero pochi.
Che facciamo, rimandiamo tutto alla delega? È chiaro che non si
può e non si deve. Ma anche la composizione degli enti parco nazionali,
non a caso definiti in sede costituzionale a carattere ‘composito’,
richiede qualche aggiustamento. Sia nel senso di prevedere, ad esempio,
anche altri ingressi associativi e rappresentativi, nelle aree marine
dei pescatori e negli altri degli agricoltori. E poi perché non
prendere atto dopo dieci anni di intensa sperimentazione che avere la
stessa composizione nei parchi con decine e decine di comuni e parchi
di un solo comune non ha alcun senso specie dopo che nella pubblica amministrazione
il principio di differenzazione è ormai largamente acquisito e
consolidato.
È
curioso, per usare un eufemismo, che su questioni così importanti,
riproposte peraltro da tutta una serie di riforme e interventi amministrativi
e costituzionali con i quali si sta cercando di assicurare la maggiore
efficacia ed efficienza al governo della cosa pubblica, le stesse commissioni
parlamentari non abbiamo detto niente, ma soprattutto è inspiegabile
che il ministero continui a far finta di niente.
Forse non è inopportuno ricordare a chi va teorizzando - quasi
si trattasse di una virtù e un merito - il lavoro ‘silenzioso’,
che per le istituzioni e i governi oggi l’informazione e la comunicazione
sono un dovere, anzi un obbligo costituzionale solennemente e autorevolmente
sancito anche dalle normative comunitarie. Qualche anno fa in sede comunitaria
si è detto- dopo una indagine del Mediatore- che ‘costituisce
una caso di cattiva amministrazione non adottare o non rendere facilmente
accessibile al pubblico norme sull’accesso del pubblico ai documenti’.
La legge quadro prevede (ma chi lo ricorda?) relazioni annuali
con questo preciso scopo e non era certo un caso. Era questa una delle
condizioni perché nelle sedi preposte alla gestione in ‘leale
collaborazione’ del sistema delle aree protette, si potesse decidere
sulla base di una corretta informazione e documentazione. Quelle sedi
sono state da tempo sbaraccate ma al loro posto non vi è nulla
se non l’impegno vago e per ora regolarmente rinviato e perciò non
mantenuto di creare un tavolo comune di cui si era parlato a Torino.
Può così accadere che il perdurare di situazioni, come quelle
che favoriscono il prodursi di ingenti residui passivi, non siano oggetto
di alcuna attenzione e misura correttiva in quanto mancano persino le
sedi in cui questo possa avvenire.
Si potrebbe dire che qui c’è da compiere - e il decennale
ce ne offre una preziosa occasione - una vera e propria operazione ‘verità’,
ossia un puntuale monitoraggio di una realtà ‘sommersa’ che
noi dobbiamo riuscire a fare ‘emergere’ e che merita assai
di più di qualche strumentale polemica a buon mercato.
Una occasione per fare un accurato inventario di una situazione
di cui un aspetto importante, ma anch’esso praticamente ignorato
o quasi, è quello relativo alle piante organiche, alla gestione
di un personale che in uno dei suoi gangli fondamentali, la vigilanza,
rimane di fatto ‘sottratto’ in larga misura alla competenza
dell’ente parco.
Anche qui vale la pena di ricordare i timori, se non la certezza,
di qualcuno che paventò all’indomani dell’entrata in
vigore della legge un rapido e improvvido gonfiamento degli organici dei
parchi tanto da farne delle nuove piccole casse del mezzogiorno.
A dieci anni sarebbe bene fare qualche bilancio non all’ingrosso
anche in questo comparto.
Qualche anno fa il ministero, avvertendo l’esigenza di mettersi
- su un piano più adeguato-in rapporto con i parchi nazionali,
tentò di istituire una sorta di Consiglio nazionale che naufragò presto.
E non poteva che essere così dal momento che quello che si cercava
era semplicemente una sede per diramare qualche direttiva amministrativa
ai parchi nazionali, quasi che essi ‘dipendessero’ unicamente
dal ministero. Non sono queste le sedi di cui c’è bisogno
per far funzionare il ‘sistema’ delle aree protette di cui
i parchi nazionali sono soltanto una componente per quanto importantissima.
Ci sono naturalmente anche altre e non meno più importanti questioni
di cui si dovrà tornare a parlare, mi riferisco ai piani dei parchi
(plurale d’obbligo essendo i piani due).
E dico ‘tornare’ perché ad una prima stagione molto
intensa anche sul piano culturale, che ebbe il merito di valorizzare la
funzione ‘nuova’ e davvero speciale dei parchi in un campo
che ne esaltava l’integrazione, la non settorialità -antichi
mali di qualsiasi efficace programmazione e pianificazione -, sembra essere
seguita una fase di calo se non di caduta, che in molti casi sembra quasi
averne cancellato persino le tracce. A che punto siamo con i piani dopo
un decennio?
Come e chi ci sta seriamente lavorando? Piano significa soprattutto
visione d’insieme delle finalità e degli strumenti di intervento
di un’area protetta esaltandone e mettendone bene in luce quella ‘specialità’ che
risulta fastidiosa a tutti coloro che preferiscono un parco che trotterella
al fianco delle altre istituzioni sbiadendone i connotati più peculiari.
Commentando criticamente la partecipazione del nostro paese al
Congresso di Durban è stato autorevolmente rilevato che tra le
molte emergenze ambientali spicca la perdita di biodiversità la
cui tutela e protezione è il compito preminente e più impegnativo
dei parchi. Ne ha parlato in particolare Boitani che anche alla assemblea
di Federparchi dello scorso dicembre ha richiamato questa esigenza intimamente
connessa ad un forte rilancio delle aree protette.
Il direttore Cosentino ha detto in quella occasione che il piani
nazionale è di imminente presentazione, ma come dimenticare che
da anni su questo fronte nulla si muove nelle stanze del ministero (più articolata è la
situazione delle regioni) tanto che della Carta della Natura è sempre
più raro trovare persino qualche menzione.
S’intende che mettendo in ombra e omettendo questi nodi cruciali
anche il ruolo del parco scolorisce, sfuma i suoi connotati fino a confondersi
e perdersi nel più ampio e superaffollato panorama istituzionale.
Come stupirsi poi se le cruciali questioni ambientali restano
delle cenerontele, se persino i parchi, a ciò specificamente e
straordinariamente preposti, sono di fatto stimolati e incoraggiato ad
occuparsi di altro?
Tutto questo ancora una volta richiede un franco ‘confronto’,
significa allargare e rafforzare la cooperazione tra i molteplici livelli
istituzionali che oggi sempre più comprendono e includono anche
quelli sovranazionale. Significa insomma sedi e strumenti in cui questa ‘leale
collaborazione’ già nella messa a fuoco e definizione della ‘agenda’-
possa esercitarsi concretamente. Ma evidentemente non tira aria favorevole,
ecco perché sia sul piano nazionale che regionale queste sedi e
strumenti di confronto e di cooperazione nonostante la legge, nonostante
gli impegni non decollano.
Ci si è persino dimenticati che esistono organismi regolarmente
costituiti e insediati da chissà quanto tempo, come la Consulta
tecnica, che neppure vengono riuniti.
O che, come prevedeva la legge Bassanini, dovevano essere ‘riformati’ non
abrogati e che invece sono stati semplicemente dimenticati e ignorati.
Per tutto questo si aspetta la delega?
Non scherziamo. Qualunque cosa saranno chiamati a fare e proporre
i tecnici di quella commissione di esperti non potranno certo loro rispondere
(e chissà quando) a questi problemi. Né i parchi nazionali
giunti al giro di boa decennale potranno aspettare il loro responso.
Il ministero, le regioni e gli enti locali che non potranno certo
ignorare il decennale è con queste questioni che dovranno misurarsi.
E non varrà per nessuno lo scaricabarile di cui siamo maestri.
di Renzo Moschini |