Dopo la grande assise di Durban, dove l’Unione
Mondiale della Natura ha chiamato a raccolta oltre 3000 delegati da
tutte le parti del mondo per il V° Congresso mondiale dei parchi,
e in vista del prossimo Congresso di Bangkok (novembre 2004), si impone
una riflessione collettiva, già in parte avviata, sui nuovi orientamenti
che si profilano a livello internazionale in tema di conservazione della
natura e di sviluppo sostenibile. I grandi cambiamenti che attraversano
la società contemporanea stimolano nuove idee e nuovi approcci
scientifici e culturali, che possono avere importanti ricadute sulle
politiche praticabili, in particolare sulle politiche dei parchi. L’Italia,
quasi assente a Durban, non può starsene alla finestra: la posizione
di rilievo assunta al riguardo nel panorama europeo le consente ed impone
di entrare nel dibattito e nel confronto internazionale delle esperienze
con iniziative e contributi appropriati.
1. la svolta di Durban
Parlare di svolta negli orientamenti dell’IUCN in tema di conservazione
della natura può sembrare eccessivo a chi consideri la continuità e
la coerenza dell’impegno pluridecennale dell’Unione. Ma è stato
lo stesso Direttore generale Achim Steiner a sottolineare, subito dopo
la conclusione del Congresso, il grande “shift in focus” che
si è registrato nelle concezioni e nelle politiche delle aree protette
nel decennio che ci separa dall’appuntamento di Caracas. Il cambiamento
riguarda certamente in primo luogo le aree protette – tema del Congresso – strappate
definitivamente ad immagini e percezioni ancora largamente diffuse che
le configurano come “isole separate di una conservazione mirata
all’uso esclusivo di pochi privilegiati” (Steiner, 2003).
Ma dietro a questo cambiamento di prospettiva è ben riconoscibile
una svolta più profonda, che riguarda congiuntamente:
- il rapporto tra la conservazione e lo sviluppo sostenibile,
- il rapporto tra risorse da proteggere e contesto territoriale,
entrambi già impliciti nel titolo stesso del Congresso (“Benefits
beyond Boundaries”), che poneva il problema di come le politiche
di conservazione possano irradiare benefici al di là di ogni frontiera,
spaziale, istituzionale, sociale, generazionale e di genere.
I documenti usciti dal Congresso non lasciano dubbi sulla stretta
interconnessione stabilita, a tutte le scale, tra problemi ed obiettivi
di conservazione della natura e problemi ed obiettivi economici e sociali,
tra le preoccupazioni ambientali e quelle suscitate dalle tragedie della
povertà, tra i problemi di sostenibilità e quelli dell’equità e
della giustizia sociale. A livello globale, il Congresso ha sostanzialmente
riconosciuto – anche per l’energica spinta delle agguerrite
rappresentanze asiatiche, africane e sudamericane – intrecci e connessioni
su cui da tempo i movimenti d’opposizione hanno richiamato l’attenzione.
Non solo si respinge l’idea che le politiche di conservazione possano
giustapporsi ai bisogni imperativi di vita e di sviluppo delle popolazioni
sottosviluppate, ma si richiede esplicitamente che esse assumano un ruolo
centrale nelle strategie di riduzione della povertà, di redistribuzione
della ricchezza e di riconoscimento dei diritti fondamentali. Ma connessioni
non meno stringenti sono state poste in evidenza con riferimento alle
specifiche realtà nazionali e locali, in cui emerge il ruolo delle
popolazioni indigene nella gestione cooperativa e conservativa delle risorse
locali.
Non a caso il lavoro che da qualche anno sta svolgendo il combattivo
Gruppo di lavoro per la gestione cooperativa (CMWG) guidato da Grazia
Borrini Feyerabend ha suscitato al Congresso un ampio e pervasivo interesse,
assumendo in molti workshop un ruolo di riferimento. In questa prospettiva,
che apre la strada a quella “territorializzazione” delle politiche
ambientali che già la Conferenza di Rio del 1992 aveva eloquentemente
indicato, si superano definitivamente quelle concezioni – peraltro
ancora fortemente radicate nelle pratiche e nella cultura della conservazione – volte
a concentrare le misure di protezione su singoli siti o singole risorse.
L’attenzione si allarga, come osserva Roger Crofts (2003) dai siti
di speciale protezione all’ambiente circostante, alle comunità locali
ed alle più vaste comunità di interessi le cui attese, aspirazioni
e comportamenti influenzano ogni istanza conservativa. Ed è un
allargamento che impone apertura al dialogo, umiltà e fiducia tra
i diversi soggetti coinvolti, in vista di sistemi più flessibili
e cooperativi di “governance”.
Questo cambiamento di prospettiva richiama due situazioni paradossali.
La prima concerne le ragioni stesse del cambiamento, che riflettono la
consapevolezza che occorre oggi “chiedere di più” alle
politiche ambientali. Il Congresso di Durban risponde alla crescita della
domanda sociale di politiche di protezione (testimoniata dalla spettacolare
crescita, ancora nell’ultimo decennio, del numero e della superficie
delle aree protette, le quali coprono oggi più del 12% delle terre
emerse, ben oltre il traguardo del 10% fissato ancora un decennio prima),
proprio mentre crescono i rischi, il degrado ambientale, le minacce di
collassi e catastrofi determinate o assecondate da politiche, modelli
di sviluppo e comportamenti collettivi irresponsabili (soprattutto nel
mondo industrializzato). La società contemporanea sembra attraversata
da divaricazioni schizofreniche tra il consenso e il successo attribuito
ad alcune politiche ambientali ad alto contenuto simbolico (quali tipicamente
quelle dei parchi) ed il rifiuto di mettere in discussione le ragioni
stesse del degrado e del rischio ambientale, vale a dire i propri modelli
di sviluppo e i propri stili di vita.
Un secondo paradosso attiene al confronto tra il panorama internazionale
e quello europeo. Quanto più il dibattito internazionale evidenzia
contrasti e differenze, portando alla ribalta i problemi, le attese e
le rivendicazioni con cui devono confrontarsi le politiche ambientali
nei paesi sottosviluppati, in contesti assai distanti da quelli della
vecchia Europa, tanto più inaspettatamente si scoprono analogie
e problemi comuni (Gambino, 2002). La duplice svolta che ha caratterizzato
a Durban la maturazione del pensiero ambientalista ha infatti ampi riscontri
nell’evoluzione delle politiche ambientali in ambito europeo, soprattutto
per quel che concerne le aree protette. Basti pensare alla crescente importanza
accordata agli interessi e ai bisogni delle comunità locali (soprattutto
ma non solo nell’istituzione, nella gestione e nella pianificazione
dei parchi regionali), ai tentativi messi in atto a livello europeo, nazionale
e regionale per contrastare l’”insularizzazione” delle
aree protette, al cambiamento negli stili di governo praticati in diversi
paesi europei a favore di un ruolo più incisivo dei poteri locali.
Dietro ai contrasti, spesso enfatizzati nelle immagini stereotipate, sembra
emergere in tutto il mondo una necessità generale di imparare a “trattare
le differenze, la complessità e l’incertezza in un mondo
che cambia” (Steiner, 2003).
La spinta che ha impresso la duplice svolta di Durban sembra
d’altronde destinata a proseguire, in vista del III° Congresso
dell’IUCN che si terrà a Bangkok nel novembre di quest’anno.
Il tema prescelto – “People and Nature: only one world” – tende
infatti a rafforzare la posizione della conservazione come parte integrante
ed essenziale dello sviluppo sostenibile. Nelle intenzioni dell’organizzazione,
la conoscenza della biodiversità e degli ecosistemi dovrebbe sempre
più qualificarsi come “conoscenza per lo sviluppo”,
contribuendo a dar senso concreto agli obiettivi dello sviluppo sostenibile.
Si può anzi sperare che, a livello politico non meno che a livello
scientifico e culturale, l’integrazione delle istanze conservative
nei processi decisionali della società contemporanea possa aiutare
in modo decisivo a far uscire questa espressione dagli equivoci e dalle
confusioni che l’hanno finora imprigionata facendone un “ombrello” che
copre le cose più contrastanti. Una scorsa ai titoli dei temi del
Congresso sembra confortare questa speranza:
- la gestione degli ecosistemi : collegare sostenibilità a produttività,
- salute, povertà e conservazione: rispondere alla sfida del benessere
umano,
- perdita di biodiversità e specie in estinzione: gestire il rischio
in un mondo che cambia,
- mercati, affari e ambiente: rafforzare la responsabilità collettiva,
legislazione e politiche.
2. vecchi e nuovi paradigmi.
Con più specifico riferimento alle aree protette (il tema generale
del Congresso di Durban) si sono consacrati ufficialmente nuovi paradigmi,
destinati a sostituire quelli radicalmente diversi che hanno finora caratterizzato
le idee, le pratiche gestionali e le politiche di intervento. Adrian Phillips
ha da qualche anno messo l’accento sulle differenze tra i vecchi
e i nuovi paradigmi per le aree protette (AP), che possono riassumersi
nei seguenti spostamenti (Phillips, 2003):
- obiettivi: dal “mettere da parte” a scopi conservativi,
all’includere obiettivi economici e sociali; dalla protezione della
vita selvaggia e dei valori scenici alle ragioni scientifiche, economiche
e culturali; dalla gestione prevalentemente mirata su turisti e visitatori
al ruolo del turismo a favore delle economie locali; dalla valorizzazione
della “wilderness” alla valorizzazione del significato culturale
della “wilderness”; dalla focalizzazione sulla protezione
alla considerazione anche del restauro e della riqualificazione;
- “governance”: da forme di governo centralizzate a forme
di “governance” pluraliste;
- comunità locali: da forme di gestione e pianificazione “contro” le
comunità locali, indifferenti alle loro opinioni, a forme di gestione “con”, “per” e
in qualche caso “da parte” delle comunità locali, orientate
a soddisfare i loro bisogni;
- contesto: da forme di sviluppo e di gestione separate ed “insulari” a
forme di pianificazione che le considerino parte di più vasti sistemi
nazionali, regionali e internazionali, e a forme di sviluppo in rete (con
le aree centrali di stretta protezione circondate da fasce-cuscinetto
e connesse da corridoi verdi);
- percezione: dal vederle principalmente come una risorsa nazionale
o un affare d’interesse nazionale, al vederle come una risorsa delle
comunità ed anche come un affare d’interesse internazionale;
- tecniche di gestione: da forme di gestione tecnocratiche, reattive
e di breve termine, a forme di gestione adattative e politicamente sensibili;
- competenze: da forme di gestione guidate dagli esperti, scienziati
e naturalisti, a forme di gestione più pluridisciplinari ed attente
ai saperi locali;
- finanziamenti: da quelli pagati dal contribuente a quelli che
provengono da una pluralità di fonti diverse.
Non è difficile cogliere, per ciascuna delle voci di cambiamento,
innumerevoli riscontri nell’esperienza italiana ed europea. Sembra
anzi che taluni dei cambiamenti siano già stati “anticipati” o
almeno discussi e propugnati nell’esperienza italiana ed europea,
con motivazioni ed in termini assai più consonanti di quanto non
sia rilevabile, ad esempio, nell’esperienza americana. Così,
per quanto riguarda gli obiettivi generali delle politiche dei parchi,
non si può dimenticare che negli ultimi decenni, dapprima nelle
esperienze regionali (soprattutto in Francia e in Italia) e poi anche
in quelle dei parchi nazionali, la finalità dello sviluppo socioeconomico
locale è stata sistematicamente associata – non di rado in
posizione prioritaria – alle finalità classiche della conservazione
della natura e della pubblica fruizione. L’enfasi su quella finalità è cresciuta
di pari passo col crescere del numero, della superficie e soprattutto
dell’impatto sociale e territoriale dei parchi. E col crescere dell’importanza
accordata ai bisogni e alle attese delle comunità locali, si sono – con
fatica ed in modi assai diversificati – progressivamente messi in
discussione i tradizionali sistemi di governo, alla ricerca di forme più efficaci
e socialmente accettabili di governance. Varie circostanze, dal fatto
che in Europa la maggior parte dei suoli delle aree protette sono di proprietà privata,
al fatto che tali aree ricadono spesso in territori “perdenti” (vale
a dire in declino economico, demografico e culturale) in cui i problemi
più gravi non riguardano tanto l’eccesso di pressioni antropiche
quanto il rischio di abbandono, al fatto che le risorse economiche e finanziare
assicurate dalle amministrazioni centrali sono spesso assai carenti, hanno
fatto sì che proprio in un campo, come quello delle aree protette,
più di altri originariamente segnato dall’affermazione di
un interesse sovra-locale, si avvertisse più precocemente l’esigenza
di collaborare coi poteri e gli attori locali.
Parimenti, non può destare sorpresa il fatto che in Europa si sia
da tempo riconosciuta l’esigenza di “andare oltre” i
confini delle aree protette, per assicurare adeguate forme di protezione
in territori che sono per la maggior parte densamente abitati e industrializzati,
spesso devastati da processi pluridecennali di degrado e frammentazione,
in cui la salvaguardia o la ricostituzione di reti di connessione tra
gli spazi di maggior naturalità assumono un’importanza cruciale.
Il problema di integrare efficacemente i parchi nel contesto
ecosistemico e territoriale si pone con drammatica evidenza in tutto il
mondo: segnalato dal National Park Service americano già negli
anni ’80 (NPS, 1986), esso è stato denunciato ampiamente
a Durban: come si è spesso detto, nessun parco è abbastanza
grande da garantire il successo di misure di protezione che si sviluppino
esclusivamente al suo interno.
Ma, se questo è vero per parchi di milioni o centinaia di migliaia
di ettari quali quelli che si trovano in America, Africa o Asia, è molto
più vero per la maggior parte dei parchi europei, che misurano
in media meno di 40.000 ha (Ced-Ppn 2001a) e che somigliano spesso ad “isole
assediate”, immerse in contesti urbanizzati crescentemente ostili
al libero dispiegarsi delle dinamiche naturali. Ancora più scontata,
in Europa, la necessità di abbracciare compiutamente la dimensione “culturale” delle
aree protette, evitando un appiattimento delle politiche di istituzione,
pianificazione e gestione sui soli valori naturalistici, che sono qui,
più che altrove, inscindibilmente fusi coi valori storici, culturali,
paesistici.
In tutto il mondo, si nota un crescente interesse per i “paesaggi
culturali”, dentro e fuori dei parchi e delle aree naturali protette.
Ma in Italia, come in molti altri paesi europei, la ricchezza
e pervasività dei paesaggi culturali sono tali da costringere a
mettere in discussione il significato stesso di quest’espressione
codificata dall’Unesco, e a spostare l’attenzione sul significato
culturale di tutti i paesaggi, compresi quelli dell’ordinarietà o
persino del degrado, che connotano l’intero territorio – come
esplicitamente ed autorevolmente raccomanda la Convenzione Europea del
Paesaggio (CE, 2000).
Le poche considerazioni suesposte non hanno alcun valore consolatorio
e non autorizzano alcun “ottimismo ambientale”.
Il fatto che i nuovi paradigmi consacrati dall’IUCN presentino una
particolare “pertinenza” nei confronti della realtà italiana
ed europea, non ha di per sé nulla di positivo.
Esso semmai riflette il fatto che molti problemi, clamorosamente
esplosi nel panorama internazionale, hanno in Europa radici particolarmente
profonde o presentano una particolare gravità. In realtà,
riconoscere i problemi non significa averli risolti.
Nel nostro paese l’asprezza delle contestazioni e dei contrasti,
che tuttora oppongono tante popolazioni locali alle autorità di
gestione dei parchi, basta a dimostrare quanto poco gli orientamenti dichiarati
a favore di un virtuoso connubio delle politiche conservative con quelle
dello sviluppo socioeconomico locale siano riusciti finora a tradursi
in fatti concreti. Le contestazioni nascono soprattutto da una mancanza
di fiducia, e la fiducia nasce dall’esperienza. Anche gli orientamenti
verso forme innovative di “governance”, basate sul principio
della sussidiarietà responsabile, per quanto enfaticamente dichiarati
nella maggior parte delle esperienze recenti, trovano tuttora ostacoli
fondamentali nell’interpretazione rigida delle norme fissate dalla
L.394/1991 (in particolare nel discusso ruolo “sostitutivo” dei
piani dei parchi nei confronti di ogni altro piano locale). Ed analogamente
l’integrazione dei parchi nelle reti di connessione ecologica e
nei sistemi territoriali del contesto incontra tuttora ostacoli disarmanti
nelle difficoltà di efficace raccordo tra la pianificazione “speciale” dei
parchi e la pianificazione “ordinaria”, urbanistica e territoriale,
oltre che quella paesistica.
Tuttavia, la ricerca di soluzioni appropriate nella linea indicata
dai “nuovi paradigmi” richiede piena consapevolezza che i
problemi da affrontare non sono il riflesso di anomalie o eccezionalità del
nostro paese, ma rappresentano piuttosto la declinazione locale-nazionale
di problemi sostanzialmente comuni, e che sempre più spesso devono
essere affrontati con strategie comuni. In questo senso, sembra evidente
che i dibattiti e le riflessioni sul tema delle politiche dei parchi che
si svolgono non solo a livello di larga opinione pubblica ma anche a livello
del sistema politico e persino negli ambiti più ristretti della
cultura scientifica e professionale, denunciano troppo spesso una percezione
del tutto inadeguata dei problemi in gioco.
Molte discussioni circa l’istituzione, la pianificazione e gli orientamenti
gestionali dei parchi appaiono spesso prigioniere di immagini stereotipate
e lontane dalla realtà che ancora configurano i parchi come “santuari
della natura” o isole remote dalla vita delle popolazioni, o le
opzioni conservative come misure passive di vincolo e limitazione che
possono prescindere del tutto dalle loro attese e dai loro bisogni. La
stessa cultura della pianificazione sembra spesso clamorosamente in ritardo:
in quanti piani urbanistici e territoriali le aree dei parchi sono “zone
bianche” consegnate a forme di disciplina separata, in nessun modo
interagente con quella del contesto? Da questo punto di vista, è difficile
negare il contributo di innovazione “culturale” recato dai
nuovi paradigmi proposti dall’IUCN.
3. quali sistemi?
Una riflessione critica sull’esperienza italiana, alla luce dei “nuovi
paradigmi”, non può che partire dal concetto di sistema.
Esso occupa una posizione chiave nelle Raccomandazioni finali di Durban
(5.4.: “la costruzione di sistemi comprensivi ed efficaci di aree
protette”) ed è stato enfatizzato in Italia dalla cosiddetta “nuova
programmazione”, ripreso anche dalla L.426/1998. Ma di quali sistemi
si tratta?
Nella Raccomandazione IUCN la costruzione di sistemi di AP è collegata
strettamente alla tutela della biodiversità, e quindi alle esigenze
di adeguata comprensione della distribuzione di specie, habitats, ecosistemi
e processi ecologici a tutte le scale. Di qui la richiesta di estendere
tali sistemi in maniera tale da rappresentare tutte le eco-regioni, con
particolare attenzione per gli ecosistemi minacciati o inadeguatamente
protetti e per le specie a rischio d’estinzione. Coerentemente con
l’”allargamento” delle politiche di protezione propugnato
in via generale dal Durban Accord, la citata Raccomandazione invoca sia
una estensione delle aree protette (in particolare per meglio coprire
le aree marine e costiere ed i sistemi d’acqua dolce) sia altre
forme di protezione, come la pianificazione paesistica, per fronteggiare
i processi che si manifestano fuori delle aree protette e ne minacciano
la biodiversità. Ci si collega così al grande tema delle
connessioni tra aree protette e contesto ambientale, oggetto di un’altra
Raccomandazione (5.9: “Gestione integrata dei paesaggi per sostenere
le aree protette”) in cui si riconosce la nccessità di assicurare
l’integrità ecologica delle AP controllando e restaurando
i processi ecologici, sia all’interno che attorno o in prossimità delle
stesse AP.
Ma proprio questo inevitabile allargamento delle istanze di tutela
al contesto ambientale apre interrogativi che i dibattiti svoltisi a Durban
(in particolare quelli sulle AP di montagna) non hanno consentito di chiudere.
Ci si può infatti chiedere se i sistemi più vasti da considerare
a tal fine possano ancora essere definiti come “sistemi di AP”:
nel senso che gli obiettivi da perseguire con la loro costruzione e con
la loro tutela possano essere del tutto ricompresi in quelli assegnati
alle AP, pur espansi come suggerito dai “nuovi paradigmi” dianzi
citati. Questa domanda si collega a quelle che hanno investito anche in
Europa il concetto delle reti ecologiche (Boitani, 1999; Gambino, 2000)
mettendone progressivamente in discussione la legittimazione scientifica.
La possibilità di interpretare reti e sistemi come strettamente
funzionali ad accrescere o sostenere l’integrità delle AP
sembra infatti pregiudicata alla radice dalla palese difficoltà di
coprire adeguatamente con le AP tutte le situazioni critiche sotto il
profilo della biodiversità, colmando i “gaps” attuali,
a meno di sviluppi quantitativamente assai più rilevanti di quelli,
pur già spettacolari, degli ultimi decenni. Ad esempio in Europa
le clamorose lacune nella protezione delle aree costiere, di quelle marine
o di quelle fluviali non sembrano realisticamente colmabili né con
la proliferazione di AP né soltanto con la creazione di fasce di
connessione; ciò vale anche per i territori di montagna, dove,
pur in presenza di notevoli addensamenti di AP (il tasso di copertura
del territorio complessivo è infatti circa triplo di quello degli
altri territori: Ced-Ppn 2001a), sussistono ampie lacune sotto il profilo
della rappresentatività (per es. nelle Alpi, perché il Gran
Paradiso e non anche il Monte Bianco o il Monte Rosa?). Il problema si
presenta anche a livello internazionale e non riguarda soltanto gli aspetti
quantitativi (cioè se e quanto si possano espandere le AP per colmare
le lacune) ma anche il senso da attribuire alla auspicata “integrazione” delle
AP nel contesto. Effettivamente nel Piano d’azione, per raggiungere
il Risultato 3 – la realizzazione di “una rete mondiale di
aree protette integrate con i paesaggi terrestri e marini circostanti” – non
si prevede soltanto l’istituzione di nuove AP, ma si afferma anche
la necessità di “passare dalla nozione di rete ad una nozione
in cui la matrice territoriale (culturale e naturale) sia considerata
importante come quella delle AP, nella quale le due siano integrate e
connesse con una assimilazione generalizzata delle politiche ambientali”.
Tale necessità si pone a livello internazionale e regionale ma
assume più precisi contorni a livello nazionale e soprattutto locale,
ove si auspica, ad esempio, che “le autorità delle aree protette
e dei territori adiacenti […] considerino la possibilità di
applicare misure di zonizzazione, all’interno delle aree protette
e ai loro margini, rivolte alla creazione di connettività”.
Sembra questo un primo passo verso il riconoscimento di una “complementarietà” tra
protezione interna ed esterna, che trova più esplicito riscontro
in esperienze europee – come ad esempio il Piano per il Parco Nazionale
del Cilento e Vallo di Diano – in cui si è evidenziata la
necessità di assicurare, anche fuori del Parco, la tutela delle “matrici
di naturalità diffusa” degli spazi rurali che circondano
le aree meno antropizzate.
Le perplessità che suscita il concetto di “sistemi di AP” sono
poi notevolmente accresciute se, nello spirito di Durban, le istanze conservative
si saldano a quelle dello sviluppo sostenibile. È infatti evidente
che le opportunità di sviluppi endogeni, durevoli ed auto-gestiti
delle comunità locali non trovano ncessariamente nelle AP il loro
fulcro applicativo. Molti studi, progetti e iniziative – primo fra
tutti il Progetto APE (Ced-Ppn 2001b) - hanno individuato piuttosto nei “sistemi
locali territoriali” (SLoT: Dematteis, 2001) il riferimento prioritario.
Ciò non esclude certamente che le AP possano svolgere un ruolo
cruciale nel propiziare la ricerca di nuove traiettorie di crescita, ma
induce a respingere l’idea che gli SLoT possano essere considerati
in funzione esclusiva o prevalente delle AP.
Il concetto di “sistema” cui fare riferimento – in una
prospettiva che coniughi realmente conservazione e sviluppo sostenibile – non
sembra quindi interpretabile come “sistema delle AP”. I più vasti
sistemi da prendere in considerazione ai fini di una efficace “conservazione
per lo sviluppo” non sono pensabili come sistemi di AP interconnesse,
ma come sistemi più complessi e multi-obiettivo, di cui le AP dovrebbero
fare parte integrante. In questa direzione si sono mosse non poche riflessioni
e proposte che, anche nel nostro paese, hanno cercato di delineare nuovi
approcci “di sistema”. Una delle idee centrali emerse in questi
anni è quella di “infrastruttura ambientale”, che può essere
utile confrontare con le indicazioni di Durban.
Una lettura critica del Piano d’azione di Durban potrebbe indurre
a notare che le indicazioni relative al contesto ambientale-territoriale
delle AP nascono comunque dalle AP, sono cioè strettamente funzionali
alla loro protezione.
Anche le precedenti indicazioni dell’IUCN (1998) a favore di un
approccio sistemico (verso sistemi che incorporino oltre alle AP anche
aree esterne, per fronteggiare più efficacemente i fattori che
minacciano la conservazione) potrebbero essere lette nello stesso senso.
Ci si può chiedere se la duplice svolta impressa a Durban non esiga
ormai un passo ulteriore, che porti a ribaltare definitivamente la prospettiva,
partendo dal territorio anziché dalle AP, dalle esigenze complessive
di tutela ambientale dell’intero territorio, anziché dalle
esigenze specifiche delle AP. È questa la sfida lanciata con le
proposte, maturate presso il Ministero dell’ambiente (da quelle
implicite nel progetto di Rete Ecologica Nazionale di cui alla del. CIPE
22/12/98, a quelle esplicite delle due ricerche, sul sistema nazionale
delle AP e sul Progetto APE: Ced-Ppn 2001a,b) evocabili con l’idea
di “infrastruttura ambientale”. L’idea, in sintesi,
che “le politiche delle AP devono convergere in una politica di
sistema, volta a realizzare una vera e propria infrastruttura ambientale
dell’intero territorio nazionale, in tutto analoga e coordinata
con le altre reti infrastrutturali, tale da creare le condizioni perché i
processi economici e sociali possano svilupparsi in modi ambientalmente ‘sani’,
conservando il patrimonio naturale e migliorando la qualità della
vita”. Una rete infrastrutturale così concepita non ignora
certo il ruolo strategico delle AP: ma non è una rete “delle” AP,
perché risponde ad esigenze di tutela più articolate e diffuse
e collega spazi e risorse più differenziate di quelle soggette
alla protezione “speciale” delle AP (quali ad es. l’intero
reticolo idrografico, i grandi demani forestali, le fasce di continuità ad
elevata biopermeabilità che si snodano lungo i crinali montani
alpini ed appenninici: Gambino e Romano, 2003). Non si tratta dunque di
indebolire il ruolo delle AP, ma al contrario di rafforzarlo specificandolo
e consentendo loro di irradiare più ampiamente i loro benefici
al di là dei loro confini.
L’idea di una rete d’infrastruttura ambientale che innervi
l’intero territorio sembra quindi rappresentare un coerente sviluppo
di quello spostamento “dalle isole alle reti” che costituisce,
come abbiamo visto, uno degli aspetti più caratterizzanti dei nuovi
paradigmi della conservazione.
Esso si presta ad una considerazione integrata delle dense e
complesse reti di relazioni che hanno nel corso dei secoli o dei millenni
strutturato il territorio italiano, depositandovi una enorme ricchezza
di valori naturali, storici, culturali e paesistici intimamente intrecciati.
Acquistano qui (come in molti altri paesi europei) particolare rilevanza
le raccomandazioni di Durban volte a considerare forme di connettività bio-culturale
essenziali anche soltanto ai fini della tutela della biodiversità,
tenendo conto delle sue complesse interrelazioni con la diversità paesistica
e culturale. Tale considerazione costituisce peraltro una base imprescindibile
per attuare politiche di conservazione della natura strettamente connesse
alle politiche di tutela e valorizzazione del patrimonio culturale, in
vista di una valorizzazione complessiva del territorio.
Ma questa stimolante prospettiva apre due ordini di problemi:
- il primo, relativo alle difficoltà , particolarmente nel contesto
italiano, di coordinare attività di tutela che riguardano materie
diverse (ancora nel recente Codice predisposto dal Ministero dei beni
e delle attività culturali, la tutela dei beni culturali è ben
distinta da quella dei beni paesaggistici, e questa dalla protezione della
natura) e competono ad autorità diverse (il citato Ministero e
quello del territorio e dell’ambiente, per limitarci al livello
nazionale); difficoltà che rinviano a quei problemi di “governance” cui
lo stesso Congresso di Durban ha dedicato attenzioni particolari;
- il secondo, relativo alla dimensione “areale” dei valori
naturali, paesistici e culturali che l’infrastruttura ambientale
dovrebbe mettere in rete, alla loro irriducibilità alla dimensione
puramente “reticolare”, e alla necessità quindi di
prendere in considerazione forme di tutela estesa, riguardanti aree spesso
assai ampie e non solo corridoi di connessione.
Questo secondo ordine di problemi è da tempo frequentato dai dibattiti,
dagli accordi e dalle riflessioni a livello internazionale. Già negli
anni ’80 il National Park Service americano individuava nella pianificazione
allargata alle regioni circostanti le aree protette il mezzo per assicurarne
una efficace integrazione (NPS, 1986). Nell’esperienza recente del
NPS, è soprattutto lo “strategic planning” ad assumersi
questo compito (DiBello, 2003). Un riferimento concettuale che è stato
in più punti ripreso nei documenti finali di Durban è quello
delle bioregioni: la pianificazione dovrebbe sistematicamente svilupparsi
a livello di bioregioni per raggiungere i suoi scopi ed in particolare
evitare l’isolamento delle aree protette. La Raccomandazione 5.9.
concerne precisamente la pianificazione e gestione integrata dei paesaggi
terrestri e marini interessati dalle aree protette, con riferimento a
varie Convenzioni internazionali sulla conservazione della natura ed anche
a quanto previsto dalla World Heritage Convention per i “paesaggi
culturali”. Per quanto riguarda l’Europa, queste indicazioni
chiamano in causa la Convenzione Europea del Paesaggio (CEP) predisposta
dal Consiglio d’Europa e siglata a Firenze da 45 paesi nel 2000.
I motivi d’interesse della CEP ai fini qui richiamati sono almeno
due:
- l’ampio significato che la CEP attribuisce al paesaggio in quanto
non solo prodotto evolutivo dell’interazione tra fattori naturali
e umani, ma anche “componente essenziale del contesto di vita delle
popolazioni, espressione della diversità del loro comune patrimonio
culturale e naturale e fondamento della loro identità” (art.5):
concezione coerente con quella considerazione integrata dei valori naturali
e culturali e con quell’attenzione per le popolazioni locali in
più punti raccomandate dagli accordi di Durban;
- l’affermazione esplicita che la tutela e la valorizzazione del
paesaggio riguardano l’intero territorio, “gli spazi naturali,
rurali, urbani e periurbani”, “sia i paesaggi che possono
essere considerati eccezionali, sia i paesaggi della vita quotidiana,
sia i paesaggi degradati”; concezione coerente con quel ribaltamento
del campo d’attenzione, dalle AP al territorio intero, che si viene
qui delineando.
Sembra quindi giustificata l’ipotesi, sottolineata nelle citate
ricerche per il Ministero dell’ambiente, che le politiche del paesaggio,
attuative della CEP, possano svolgere un prezioso ruolo complementare
a quello dei parchi e delle aree protette, contribuendo alla
realizzazione dell’infrastruttura ambientale diramata su tutto il
territorio. Ma questa considerazione solleva a sua volta numerosi
interrogativi, non
privi di implicazioni scientifiche e culturali. Anche a prescindere
dalle difficoltà politico-culturali che nascono dalla separazione
o dalla confusione delle competenze e delle responsabilità amministrative,
va chiarito il rapporto che può essere stabilito tra la tutela
paesistica posta in essere ai sensi della CEP e la protezione “speciale” accordata,
da un lato, ai “paesaggi culturali” (in particolare a quelli
riconosciuti dall’Unesco nelle liste del patrimonio mondiale dell’umanità)
e, dall’altro, ai “paesaggi protetti” corrispondenti
alla categoria V della classificazione IUCN delle AP. Si tratta, palesemente,
di tre diverse interpretazioni del concetto di paesaggio, cui corrispondono
politiche diversificate.
In particolare, non va dimenticato che gran parte delle AP europee
(compresi molti “parchi nazionali” come tali classificati
dalle rispettive legislazioni nazionali, quali tipicamente i parchi nazionali
inglesi) sono classificate dall’IUCN nella categoria V dei paesaggi
protetti.
4. strategie e linguaggi comuni
I documenti conclusivi del Congresso di Durban sono pervasi dalla
consapevolezza che gli attuali problemi ambientali non possano essere
affrontati efficacemente se non mediante strategie comuni e condivise.
Come si è visto, questa esigenza si pone a tutti i livelli, da
quello internazionale (“global change”, produzione e consumi
energetici, inquinamento marino, povertà, accesso alle risorse
idriche, ecc.), a quello regionale e nazionale, a quello locale. A tutti
i livelli, la costruzione di reti e sistemi che possano contrastare i
rischi e i processi di degrado e propiziare la sostenibilità degli
sviluppi economici e sociali, richiede accordi, intese e collaborazioni
tra una molteplicità di soggetti istituzionali e di attori sociali.
Il cammino verso il Congresso di Bangkok non potrà che sottolineare
l’affermazione della Conferenza di Rio, 1992, secondo cui “nobody
stands alone”, nessuno può agire in solitudine in un mondo
sempre più caratterizzato da interrelazioni, interferenze, effetti-rete.
Nella prospettiva che più direttamente ci riguarda, si avverte
l’esigenza improcrastinabile di una politica nazionale per la conservazione
della natura e la valorizzazione del patrimonio ambientale, che fornisca
un quadro di coerenze per l’azione delle Regioni e per quelle stesse “politiche
di sistema” (in particolare per i “grandi sistemi”,
come le Alpi, l’Appennino, la fascia padana) già intraviste
con la “nuova programmazione”e ribadite con la L.426/1998.
La definizione della Rete Ecologica Nazionale, sulla base della Carta
della Natura, è un passo essenziale verso quella delle Linee fondamentali
d’assetto del territorio nazionale (DL 112/98) che spetta allo Stato
determinare. Ma si avverte contemporaneamente l’esigenza che la
politica nazionale si integri organicamente nelle strategie europee ed
internazionali, non solo per rispetto degli obblighi assunti dal nostro
paese, ma anche per conseguire la necessaria efficacia. Molte ragioni – non
escluse quelle giuridiche che scaturiscono dalle recenti riforme costituzionali – convergono
a sottolineare la crescente rilevanza dei vincoli e delle opportunità internazionali
ai fini delle politiche ambientali e della stessa maturazione del quadro
legislativo nazionale.
Il rapporto cruciale è ovviamente con l’Europa. Non soltanto
perché l’Unione Europea ha competenze primarie in materia
di politiche ambientali, ma anche perché molte delle politiche
di sviluppo che possono più pesantemente incidere sulle condizioni
ambientali e sulla fruibilità dei parchi e delle risorse naturali
(come quelle agricole, o quelle dei trasporti o dei fondi strutturali)
dipendono sempre più da decisioni che maturano a livello europeo.
Inoltre, e più specificamente, non si può evitare di considerare
che gran parte dei parchi e delle AP italiane sono snodate lungo le due
principali dorsali delle Alpi e degli Appennini. Ma, se la prima tende
ormai a costituirsi come ambito privilegiato di cooperazione transfrontaliera
(Convenzione delle Alpi) destinato a svolgere un ruolo cruciale nel cuore
dell’Europa, la seconda sembra destinata – come emerge dal
Progetto APE – a un ruolo insostituibile di connessione tra l’Europa
centrale e l’arco mediterraneo. Un ruolo coerente con le grandi
tradizioni storiche, economiche e culturali del nostro paese, che potrebbe
contribuire a contrastare il risucchiamento dello sviluppo economico e
sociale verso il Centro Europa, a propiziare una più equilibrata
distribuzione delle opportunità di sviluppo a favore del Mezzogiorno,
ad affermare l’identità e il ruolo specifico dell’Italia
nello sviluppo del turismo sostenibile euro-mediterraneo (Ced-Ppn, 2001b).
Il confronto di Durban ha mostrato come il Progetto APE, proprio per queste
ragioni, possa rappresentare non soltanto un esempio di rilievo nel panorama
europeo, ma anche un primo sostanziale contributo per una strategia integrata
di valorizzazione delle “montagne del Mediterraneo”. Di qui
la necessità di considerare il costruendo sistema nazionale come
parte integrante non solo della Rete Ecologica Europea, ma anche delle
nascenti reti euro-mediterranee. A dispetto delle suddette considerazioni,
non si può evitare di constatare che, non solo per quel che concerne
il nostro paese e i suoi rapporti con l’Europa e il Mediterraneo,
ma anche tra i paesi della vecchia Europa la cooperazione e la stessa
reciproca conoscenza nel campo delle politiche dei parchi, delle aree
protette e del paesaggio sono estremamente carenti. I relativi successi
di Natura 2000 non devono ingannare: come dimostrano le ricerche (Ced-Ppn,
2001a), regioni e paesi europei si muovono in questo campo in modi molto
diversificati e separati, ignorandosi a vicenda, senza esprimere visioni
e strategie condivise, con approcci legislativi e apparati istituzionali
eterogenei e difficilmente armonizzabili e confrontabili. Questa diversificazione – solo
in parte riconducibile alle differenze dei contesti ambientali, delle
vicende storiche, dei quadri politici e delle culture locali – penalizza
i tentativi di cooperazione transfrontaliera (come tipicamente dimostra
la sofferta esperienza dell’”Espace Mont Blanc”) e soprattutto
pregiudica la possibilità di maturare strategie comuni a scala
europea, in linea con la maturazione dello “Schema di sviluppo dello
spazio europeo” (UE. 1999). A fronte di queste difficoltà,
assume rilievo il problema della classificazione delle aree protette.
L’estrema eterogeneità degli ordinamenti e delle classificazioni
adottate dai diversi paesi (ulteriormente accentuata in vari paesi, tra
cui l’Italia, da quella che si riscontra tra le diverse regioni
al loro interno) impedisce di parlare un linguaggio comune, rende difficile
cogliere e valorizzare le differenze reali, ostacola il confronto, lo
scambio di esperienze e l’apprendimento collettivo. Si contano in
Europa oltre 70 diverse categorie di AP, parte delle quali definiscono
in modo diverso le stesse realtà, mentre altre definiscono in modo
uguale realtà profondamente diverse, senza quasi rapporti riconoscibili
con le classificazioni adottate dall’IUCN a livello internazionale
nel 1994 (Ced-Ppn 2001a). Naturalmente il problema si pone anche a livello
internazionale, ove è affrontato da un’apposita Commissione
dell’IUCN (intitolata appunto “Speaking a Common Language”)
tuttora all’opera.
Ma, per quanto riguarda l’Europa, alla luce delle precedenti considerazioni,
il problema non è certamente soltanto lessicale o tassonomico,
poiché tocca alla radice la possibilità di armonizzare le
politiche dei diversi paesi –soprattutto ma non solo in ambiti transfrontalieri – e
di concepire obiettivi e strategie comuni, sia per quel che concerne l’istituzione,
la pianificazione e la gestione delle AP, sia, ancor più, per quel
che concerne la loro integrazione nelle reti e nelle bioregioni circostanti.
Sebbene il quadro di riferimento offerto dall’IUCN sia tuttora fluido
ed aperto, il Congresso di Durban non ha mancato di fissarne alcuni aspetti
con un’apposita Raccomandazione (5.19: “sistema delle categorie
IUCN per la gestione delle aree protette”). Può essere utile
rivedere in questa luce le ipotesi avanzate nelle recenti ricerche per
il Ministero dell’ambiente (Ced-Ppn, 2001a). Va infatti notato che
l’IUCN mira ad ottenere “il riconoscimento intergovernativo
del sistema di categorie come metodo internazionale per classificare le
aree protette”, il che dovrebbe condurre ad eliminare le discordanze
più clamorose delle classificazioni nazionali, salva la possibilità di
specificazioni chiaramente esplicitate. Sotto il profilo del metodo, le
ipotesi della ricerca ministeriale evidenziavano un duplice criterio:
- il criterio di scopo: ogni tipo di AP è definito in base al mix
di obiettivi di gestione che lo caratterizzano;
- il criterio dinamico: l’attribuzione di un’AP ad una categoria
consegue ad un processo di concertazione e ha carattere non definitivo.
Il primo criterio sembra rafforzato dalla Raccomandazione, laddove propone
di eliminare addirittura le titolazioni generiche lasciando che ogni categoria
sia definita esclusivamente dagli obiettivi (punto 5d). Il secondo criterio,
certamente più impegnativo, sembra da approfondire, visto che ci
si pone la domanda se debba esserci una corrispondenza verificabile tra
l’attribuzione e la gestione effettivamente poi praticata (Dudley,
Stolton, 2003).
Sotto il profilo del contenuto, l’ipotesi della suddetta ricerca
prevedeva in particolare l’introduzione nella classificazione nazionale
di alcune categorie attualmente mancanti, nelle quali collocare o spostare
una parte delle AP:
1. aree di “wilderness”
2. riserve marine (finora legislativamente separate)
3. paesaggi protetti
4. aree per la gestione sostenibile di determinate risorse
5. aree di riequilibrio ecologico.
La prima, la terza e la quarta sono già presenti nella classificazione
IUCN: la loro introduzione nell’ordinamento italiano potrebbe consentire
di far chiarezza, per es. ricollocando nella categoria dei paesaggi protetti
(con un mix di obiettivi più appropriato) alcuni parchi regionali
o individuando con criteri più confrontabili le aree “wilderness”.
Per quanto riguarda le riserve marine, si avvertono anche a livello internazionale
esigenze di maggior visibilità e organicità (punto 5f della
Raccomandazione), mentre per le aree di riequilibrio ecologico (che potrebbero
in contesto europeo avere un posto importante soprattutto a ridosso delle
aree urbane e metropolitane, come pure in situazioni di degrado, quali
quelle conseguenti ad attività estrattive) il problema sembra del
tutto aperto. In conclusione, è opportuno riflettere sulla possibilità di
un ripensamento dell’intero sistema nazionale per la conservazione
e la valorizzazione del patrimonio ambientale, in sintonia con quanto
sta maturando a livello internazionale. L’adozione di un linguaggio
comune, confrontabile con quello degli altri paesi, potrebbe facilitare
la definizione di strategie d’azione condivise per lo spazio euro-mediterraneo,
qualificando il ruolo che l’Italia è in grado di assumere
in questo campo a livello internazionale. L’appuntamento di Bangkok
può essere un’occasione per esporre le iniziative concrete
che il nostro paese intende sviluppare a tal fine.
di Roberto Gambino |