Non è infrequente incontrare nella
produzione editoriale delle aree protette edizioni o raccolte d’immagini
dei parchi, più o meno evocative o realiste. Si tratta di lavori
che a volte comportano anche particolari impegni finanziari e che rischiano
di essere generalmente visti come momenti esclusivamente celebrativi,
occasioni di produzione di strenne e di volumi di particolare effetto,
o come sforzi di crescita autoreferenziale della propria immagine.
In realtà il tema della fotografia, come noto a molti, porta con
se un carico di elementi e fattori culturali di non secondaria importanza,
che anche nella realtà delle aree protette deve essere pienamente
e correttamente coltivata ed interpretata, anche al fine di lavorare con
senso e consapevolezza in un terreno, quella della rappresentazione fotografica
del paesaggio, dai profondi risvolti culturali.
Ed allora è forse bene partire proprio da due spunti che vengono
dal mondo dei parchi descritti in due interventi sulla rivista Piemonte
Parchi, uno dedicato all’esperienza particolare del Parco dell’Alta
Valle Pesio e Tanaro (con la costituzione del Centro Aldo Viglione per
la fotografia), l’altro invece riferito più in generale al
tema della fotografia del territorio in un interessante intervento a firma
di Marco Tessaro. In particolare in quest’ultimo contributo si può apprezzare
l’ampiezza della scuola di cui l’articolo descrive sinteticamente
le finalità: la fotografia di territorio possiede un retroterra
che parte dalle esperienze statunitensi e si traduce in Europa anche in
momenti di grande importanza nei quali si afferma il concetto che “paesaggio” è l'espressione
qualitativa del rapporto tra uomo e ambiente e la fotografia è un
efficacissimo strumento di analisi di questa difficile dimensione.
Nel XIX° secolo la "Mission héilographique" in Francia
e l'esplorazione della "Nuova Frontiera" negli USA inaugurano
un filone sempre in grado di rinnovarsi. Nel '900 fa da splendido punto
di riferimento il programma della "Farm Security Administration" (FSA)
voluto dal presidente Rooswelt nell'ambito del New Deal. Decine di fotografi,
tra cui Walker Evans e Dorotea Lange, vengono inviati nelle campagne americane
ad indagare sugli effetti dell'estrema povertà succeduta al "Dust
Bowl", ovvero alla polverizzazione dei terreni causata dalla siccità e
dall'iper-sfruttamento del suolo agricolo, tra le cause della Grande depressione
del '29.
Negli anni '80 in Italia si delinea un gruppo di forte connotazione
intellettuale, capace, come dice Claudio Marra, "di dar vita, nel
giro di poco tempo, a una vera e propria "new wave" visiva che
avrebbe presto superato, per risonanza e fama, i confini del nostro paese".
Un gruppo che si fa portatore di uno "sguardo "basso",
anti trionfalistico, normalizzante, ma paradossalmente "dirompente",
splendido controcanto al "paese del boom artificiale... dell'esibizionismo
arrogante...", e alla deriva del "non luogo", della svendita
del territorio.
Ne fanno parte nomi storici del rinnovamento fotografico italiano:
Jodice, Basilico, Cresci, Guidi, Barbieri e soprattutto Luigi Ghirri.
Il territorio, dopo l'esperienza degli Alinari, precedente di oltre un
secolo e così diversa, ridiventa protagonista delle arti visive
del nostro Paese. I fotografi italiani accettano dentro l'inquadratura
ogni elemento della descrizione, bello o brutto che sia, per indagare
sui segni che un paesaggio complesso ma privo di connotazioni precise
offre ormai a sguardi sempre più assenti: "la gente non sente
quasi il bisogno di fermare il paesaggio... non vede più, vede
distrattamente, è bombardata da mille stimoli visivi" (Mimmo
Jodice).”
Il caso del Centro di Chiusa Pesio si lega all’attività del
fotografo chiusano Michele Pellegrino ed ha l’obiettivo di presentare
un laboratorio sul tema in particolare della fotografia alpina, vivo nel
cuneese anche grazie al Centro Fotografia Alpina di Ostana in Valle Po.
È
stimolante notare come questo tema stia estendendo il suo interesse
anche nel nostro campo, anche in ragione del fatto che la scuola della
fotografia del territorio possiede una straordinaria aderenza e coerenza
con lo spirito e la cultura di un territorio protetto, e da essa lo stesso
lavoro che in un parco si svolge, può trarre spunti di particolare
interesse.
D’altro canto la fotografia è uno dei mezzi con i quali documentare
e storicizzare una nostra visione del reale, del territorio, delle dinamiche
sociali che in esso vivono ed evolvono: è quindi un traduttore
straordinario anche di quel nuovo approccio alla pianificazione, che va
sotto il nome di “collaborative management o di co-management”,
nel quale il ruolo delle componenti sociali e culturali diviene di maggiore
peso rispetto ai tradizionali concetti “biocentriciti” della
pianificazione territoriale classica. Ma quali sono questi modi di “guardare
al territorio”.
Innanzi tutto lo stile discreto e l’assunzione che, come detto sinteticamente
da Tessaro, sia importante lo: “sguardo "basso", antitrionfalistico,
normalizzante, ma paradossalmente "dirompente", splendido controcanto
al "paese del boom artificiale... dell'esibizionismo arrogante...",
e alla deriva del "non luogo", della svendita del territorio.” Un
approccio che porta automaticamente con se l’assunto che l’esperienza
diretta, l’aspetto di vissuto del momento stesso dello scatto fotografico,
rappresentano essi stessi un elemento costitutivo di un modo concreto
di conoscere la realtà del territorio, comprensibile solo se vissuta
direttamente immergendovisi dentro pienamente, in ogni sua fase sociale,
climatica, storica, esperenziale.
Quindi un modo che determina l’avvicinamento fra l’attore
del territorio ed il paesaggio, contro una cultura del vedere apparente,
del conoscere per categorie e per astrazioni, tesa ad affermare stereotipi,
falsi ripetuti di una dominate modalità distaccata di osservare
il mondo che ci circonda.
Ma poi è anche importante sottolineare il valore dell’avere
come obiettivo la documentazione e lo studio del territorio per la sua
pianificazione. Come ben descrive Maria Rosaria Nappi del Ministero per
i Beni e le Attività Culturali (Direzione Generale per i Beni Architettonici
ed il Paesaggio) in un suo saggio sul tema: “In Italia negli anni
ottanta intorno a Luigi Ghirri si svilupparono ricerche artistiche in
cui il paesaggio veniva proposto in modi nuovi e inediti che anticipavano
intuitivamente molte concezioni che oggi sembrano acquisite. Proseguendo
in questa direzione, la fotografia sembra assumere la funzione di strumento
interpretativo dei valori culturali, sociali e artistici di un luogo e
al tempo stesso di un documento; in particolare nel caso delle committenze
pubbliche, può arricchire gli elementi di conoscenza da utilizzare
per la preparazione degli interventi di pianificazione della gestione
territoriale paesaggistica e di progettazione dell'architettura contemporanea.
Attraverso campagne fotografiche mirate emerge la possibilità di
un più ampio coinvolgimento del pubblico nell'ambito dell'amministrazione
di un bene complesso che tocca da vicino il cittadino costituendone addirittura
il luogo di vita:la dialettica fra soggetto,oggetto, committente e fruitore
può arricchirsi rispetto all'operare artistico tradizionale. Oggi
il paesaggio non può più essere proposto né al fotografo
né al pubblico come una realtà da documentare oggettivamente
solo attraverso il rigore della visione prospettica e della camera ottica.
Se per alcune circostanze resta indispensabile uno studio morfologico
composto da una documentazione che comprenda analisi di tipo tecnico,
l'uso della fotografia d'autore è utile per diversi motivi: sia
come momento di comunicazione al pubblico sia come strumento di scoperta
di valori e di aspetti che l'occhio sensibile del fotografo può cogliere,
esprimere, evocare: in questo senso si rivelano indispensabili uno studio
dei luoghi, della loro storia e della loro immagine. Ciò permette
di prefigurare un tipo di fotografia di paesaggio che non rinuncia alla
rappresentazione naturalistica, ma la riempie di contenuti, colti, soggettivi,
artistici che trovano origine nella unione di elementi che di volta in
volta compongono la struttura del progetto di ricerca.” Altro aspetto
chiave è l’elemento partecipativo insito nella capacità comunicativa
dell’immagine. Documentare il territorio significa costruire infatti
momenti di partecipazione del pubblico e dei tanti fotografi più o
meno professionisti o delle tante persone che in una immagine, in mille
immagini, hanno spesso più o meno consapevolmente contribuito a
costruire un immenso archivio spontaneo, nel quale sono iscritte le pagine
della storia del paesaggio e della società che lo ha trasformato.
Ma vi è anche un interesse verso questo approccio al territorio
che riguarda la costruzione di nuove identità territoriali e di
nuovi concetti di paesaggio che diviene spesso una forte necessità specie
nei contesti a media e forte urbanizzazione. Costruire una storia delle
trasformazioni territoriali in atto e così dare vita ad archivi
dei cambiamenti costituisce un momento di particolare valore e che oggi
può essere veramente un archivio di grande consultazione grazie
alla tecnologia di Internet. Avvicinare il nostro territorio è uno
dei modi per riconquistare quel senso dell’abitare di cui tanto
vi è necessità nei contesti delle città di oggi,
realtà territoriali che sono divenute nuovi luoghi della costruzione
di paesaggio, come testimonia la loro particolare estensione e pervasione
in tante aree del nostro paese e come stanno a significare i grandi processi
di riconversione di parti sostanziali dei loro tessuti territoriali.
Bene ha fatto quindi il Parco agricolo Sud Milano con la sua
pubblicazione del 1999 “Parco agricolo sud Milano - Fotografie di
Gabriele Basilico e Gianni Berengo Gardin) nel quale proprio la fotografia
del territorio ha espresso la sua opera sull’intricato tessuto del
parco metropolitano milanese. Un tema, quello dei parchi urbani e periurbani,
che è anche divenuto ormai di primario interesse anche per il Sistema
nazionale dei parchi come ha testimoniano la Sessione sui parchi metropolitani
della II Conferenza sulle aree protette.
Ed è proprio in queste realtà, ad esempio, che la fotografia
di questo tipo può trovare grande fermento e materiale, proprio
laddove la molteplicità dei paesaggi e delle trasformazioni sembrano
quasi sfidare l’occhio a ripercorrerne le tappe ed a ricercarne
sensi o ritmi di un nuovo modo di costruire territorio.
Sulla fotografia del territorio è partito anche un progetto di
carattere nazionale denominato Atlante Italiano 003 di iniziativa della
DARC - Direzione per l’arte e l’architettura contemporanee
del Ministero per i beni e le attività culturali in collaborazione
con il Dipartimento Ambiente Reti e Territorio della Facoltà di
architettura di Pescara e d’intesa con la Fondazione Triennale di
Milano, che ha proprio come scopo quello di costituire il primo nucleo
della collezione di fotografia contemporanea per il Museo di Architettura
del Centro Nazionale per le Arti Contemporanee, promovendo la fotografia
come forma espressiva di ricerca e, al tempo stesso, offrendo un punto
di vista qualificato sul cambiamento della città e del territorio
in Italia. Si tratta di un progetto, che ha già visto un primo
momento espositivo a Roma nell’estate 2003, che vede fotografi invitati
a partecipare quali: Olivo Barbieri, Gabriele Basilico, Letizia Battaglia,
Nunzio Battaglia, Gianni Berengo Gardin, Bruna Biamino, Roberto Bossaglia,
Luca Campigotto, Vincenzo Castella, Giancarlo Ceraudo, Giovanni Chiaramonte,
Mario Cresci, Libero De Cunzo, Paola De Pietri, Paolo De Stefano, Vittore
Fossati, William Guerrieri, Guido Guidi, Francesco Jodice, Mimmo Jodice,
Giuseppe Leone, Armin Linke, Martino Marangoni, Raffaela Mariniello, Alberto
Muciaccia, Enzo Obiso, Ippolita Paolucci, Emanuele Piccardo, Francesco
Radino, Luciano Romano. Con il progetto Atlante italiano 003, la DARC
ha acquisito un primo patrimonio di oltre 500 fotografie che costituiscono
il primo nucleo delle collezioni del Gabinetto di fotografia del futuro
Museo nazionale di architettura (Il Museo nazionale di architettura costituirà uno
dei poli museali - assieme al Museo del XXI secolo - che sorgeranno a
Roma all’interno del Centro nazionale per le arti contemporanee
progettato da Zaha Hadid, la cui inaugurazione è prevista per il
2005). Ma a fianco di questa iniziativa si sono susseguite in Italia numerose
mostre ed eventi sul tema fra le quali si può ricordare quella
della Biennale di Venezia del 1993 il cui catalogo è costituito
dal volume a cura di A.C. Quintavalle, Muri di carta, Fotografia e paesaggio
dopo le avanguardie, Milano 1993, che contiene un’esauriente bibliografia
sulla storia della fotografia di paesaggio.
Ma più recentemente è interessante segnalare una antologia
di interesse costituita dalla Mostra “ L’idea di paesaggio
nella fotografia italiana dal 1850 a oggi - Esponenti dell’ultima
generazione” in corso a Modena nell’ambito dell’edizione
2003 di Modena per la Fotografia (aperta sino al 25 gennaio 2004), nella
quale, oltre a ripercorrere l’evoluzione di questo genere attraverso
le immagini, dislocate in una duplice sede, degli autori più significativi
affermatisi in questi 150 anni di storia, è occasione per spingersi
a volgere uno sguardo su come l’ultima generazione della fotografia
italiana ha deciso di affrontare questo tema. La mostra principale offre
così in modo unico l’opportunità di considerare il
lavoro di questi giovani come la parte in costruzione di un lungo percorso
di visione, di valutare quanto dell’ormai affermata generazione
precedente sia rimasto nei più giovani e quanto sia invece andato
perduto. Sono tanti spunti sui quali la sensibile cultura dei parchi può trarre
momenti di approfondimento, offrendo il proprio territorio come laboratorio
dove compiere sperimentazioni ed eventi per la crescita della fotografia
e di quel modo di osservare il territorio secondo visuali definibili come “sguardi
inattuali”, ma capaci di cogliere il tessuto vero delle dinamiche
naturali e storiche, oltre che dei sentimenti che a loro ci legano. Sguardi
che ci riconducono a cercare quella parte fondante del nostro comune vivere,
fatta di antiche radici e di basilari legami che ci tengono attaccati
alla nostra terra e che oggi devono essere reinterpretati anche nella
dimensione dell’attuale: i silenzi ed i ritmi che i paesaggi di
ieri ci trasmettevano restano il nostro modo di sentire il mondo e ad
essi si deve essere capaci di ripensare per non perdere quelle radici,
come R.Adams, maestro della nuova fotografia del territorio americana,
splendidamente ricorda in queste sue parole sul suo mondo che sono però riconducibili
anche alla nostra esperienza europea: “Cerchiamo sempre di non essere
sentimentali, di non provare per un soggetto più emozione di quanto
non ne richieda. Qualche volta, però le vecchie fotografie di paesaggio
ci tentano: scoprendo con esse che il vasto paesaggio americano che abbiamo
amato è ormai completamente perduto, pensiamo che il ricordo e
il dolore sono forse inutili.(...)
Nell'amarezza che si unisce alla sorpresa del rumore di una lattina
capitata sotto i piedi, ci troviamo a pensare che sarebbe stato meglio
se Colombo si fosse sbagliato e il mondo fosse stato piatto, con un bordo
dal quale precipitare, invece di essere questa gabbia circolare che ci
fa ritornare sui nostri errori.
La geografia è senza speranza. La prima cosa importante che le
fotografie dell'Ottocento ci ricordano è che lo spazio non è semplice.
Abbiamo pensato che lo fosse fino a che steccati e strade non lo hanno
annullato, mentre venivano costruiti gli edifici. Finchè si poteva
ancora guardare l'orizzonte libero da tutte queste cose, pensavamo che
lo spazio esistesse. (...) Tra le verità che più risaltano
in alcune delle prime fotografie c'è il silenzio. Lo spazio dell'Ovest
era perlopiù quieto: ce lo suggerisce metaforicamente la pacatezza
visiva delle immagini, caratteristica sia del soggetto che della composizione
della fotografia. L'unico suono che cent'anni fa poteva prodursi davanti
all'apparecchio fotografico era quello del vento, per quanto poco potessero
essere gli alberi che ne venivano agitati; l' acqua che scorre appare
solo in qualche rara immagine, e, almeno nella parte orientale non c'erano
neppure molti uccelli. Un'altra qualità dello spazio che ritrovo
nelle vecchie fotografie è il ritmo semplice della vita: lo spazio
sembra spesso pressochè immobile - un ritmo e un tempo appropriati
per chiunque speri di fare l'esperienza dello spazio. Le vedute estremamente
dettagliate ottenute con tempi lunghi di esposizione (quanto a lungo doveva
aspettare il fotografo che il vento calasse?) e non prima di aver predisposto
una sorta di piccolo accampamento per la preparazione delle lastre, indicano,
attraverso la pazienza del fotografo, il riconoscimento giustamente rispettoso
del tempo, proprio della geologia e della botanica, necessario per dare
forma allo spazio".
di Ippolito Ostellino |