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Rivista della Federazione Italiana Parchi e delle Riserve Naturali NUMERO 44 - FEBBRAIO 2005 |
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PIANIFICAZIONE DEL PAESAGGIO E GOVERNANCE TERRITORIALE: SETTE TESI |
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1 - Recuperare la territorialità del paesaggio Riscoprire, dietro ai grandi mutamenti del paesaggio contemporaneo, le nuove geografie della territorialità umana non risponde soltanto ad una generica istanza culturale o all'esigenza di burocratico adeguamento alle concezioni propugnate dalla Convenzione Europea del Paesaggio (CE, 2000), parzialmente recepite, in Italia, dal nuovo Codice dei beni culturali e del paesaggio. È necessario riprendere il filo di una ricerca che affonda le sue radici nelle tradizioni prestigiose del pensiero geografico (Raffestin 1977) e delle scienze umane, andando al di là del riduttivismo implicito nel paradigma estetico e nello stesso paradigma ecologico dominante, perché il vero terreno di scontro è il controllo delle dinamiche territoriali che producono il paesaggio. Nessuno può illudersi di ridurre la questione del paesaggio alle contese riguardanti alcune immagini di straordinaria bellezza o alcuni ecosistemi di vitale importanza. L'approccio ecologico ha svolto, a partire dagli anni '60, un ruolo insostituibile di contrasto nei confronti non soltanto del confuso impressionismo degli approcci estetizzanti o dell'arroganza progettuale della landscape architecture, ma anche del funzionalismo economicista e delle logiche della crescita implicite nell'amenagement du territoire non meno che nelle tendenze alla deregolamentazione selvaggia. Tuttavia è difficile rintracciare nelle esperienze di ricerca e pianificazione guidate dal paradigma ecologico la considerazione esplicita di quei sistemi complessi di relazioni socioeconomiche e culturali che hanno strutturato nel corso della storia o che tuttora strutturano il territorio. D'altra parte, né l'interpretazione estetica della tradizione italiana né quella semiologica (il paesaggio come processo di significazione: Barthes, 1985) sembrano in grado di cogliere l'essenza della territorialità del paesaggio. È palesemente in questione il rapporto tra visto e vissuto nell'esperienza paesistica e quindi la sua riducibilità a mera esperienza visiva, seppure culturalmente orientata. Per rispondere alla disperata ricerca di senso che si riflette nell'attuale domanda di paesaggio, conoscenza e progetto devono misurarsi con le radici profonde della territorialità umana. Non si salva il paesaggio se non si salva il paese. La questione del paesaggio investe i rapporti tra società e territorio, mette a nudo alcune contraddizioni fondamentali dello sviluppo economico e sociale contemporaneo, rivelandone l'intrinseca insostenibilità, l'incapacità di durare nel tempo senza mettere a repentaglio la sopravvivenza stessa del patrimonio di risorse da trasmettere alle future generazioni, senza produrre nuove povertà. È su quel terreno che la cultura della pianificazione deve prendersi le sue responsabilità. 2 - Ripensare le ragioni e il senso della conservazione del paesaggio e del patrimonio culturale-naturale Per ripensare le ragioni attuali della tutela paesistica non si può evitare di prendere atto che un doppio movimento culturale ha negli ultimi decenni portato alla dilatazione spaziale del principio di conservazione e al riconoscimento del suo carattere intrinsecamente innovativo. Il primo movimento è consistito in uno spostamento progressivo delle istanze conservative dagli oggetti ai sistemi di relazioni, dai fatti ai contesti, dalle isole agli arcipelaghi. Esso ha trovato espressione nel campo della conservazione della natura (Ced-Ppn, 2001) sulla base della constatazione che le politiche tradizionali di conservazione riservate a singole specie o aree protette non sono sufficienti nei confronti degli attuali processi di degrado e devastazione ambientale, in particolare la perdita di biodiversità (Iucn 2003, 2004) determinata o accelerata dai processi di frammentazione ecosistemica e di disgregazione territoriale connessi alla dispersione insediativa e infrastrutturale. Ancora più esplicita è stata la Convenzione Europea del Paesaggio che ha sancito l'obbligo di estendere tale tutela a tutto il territorio, riguardando sia i paesaggi che possono essere considerati eccezionali, sia i paesaggi della quotidianità, sia i paesaggi degradati, consacrando così una concezione palesemente assai diversa da quella che tuttora ispira gran parte delle legislazioni di tutela e che trova la sua massima espressione nei criteri con cui l'Unesco riconosce i paesaggi culturali degni di entrare nel Patrimonio Mondiale dell'Umanità (Iccrom, 1998). Uno spostamento di particolare rilievo per l'Italia, dove già la Legge 431, 15 anni prima della Convenzione, aveva esteso l'obbligo di tutela paesistica ad un ampio ventaglio di categorie di beni naturali e culturali, complessivamente coprenti circa la metà del territorio nazionale. Il secondo movimento, strettamente connesso al primo, concerne il significato del concetto di conservazione e il suo rapporto con l'innovazione e coi processi di sviluppo. Anche questo movimento si è manifestato dapprima nel campo della conservazione della natura, in cui si è registrata l'inscindibilità dei problemi ambientali da quelli dello sviluppo economico e sociale, della povertà e della privazione, della soppraffazione politica, economica e culturale, dell'esclusione e dei diritti d'accesso alle risorse (in primo luogo l'acqua): la stessa immane tragedia dello tsunami ha messo in evidenza come il mancato sviluppo civile o forme distorte di sviluppo turistico possano centuplicare i danni delle catastrofi naturali. In forme meno tragiche ma non meno pervasive, il degrado e la distruzione del patrimonio paesistico esibiscono ovunque l'interdipendenza coi processi economici: la conservazione dell'articolato patrimonio paesistico europeo (e soprattutto la riqualificazione delle aree degradate) non può fare a meno di politiche attive nel campo dell'agricoltura, degli insediamenti e delle infrastrutture. In sostanza l'evidenza empirica ha brutalmente costretto a rimettere in discussione quella contrapposizione tra conservazione e sviluppo (i limiti dello sviluppo denunciati dal gruppo Meadows nel 1972) che aveva nei decenni precedenti guidato la critica radicale dei modelli dominanti di sviluppo: una contrapposizione che sarebbe tuttora stolto sottovalutare (basta pensare all'importanza degli accordi di Kyoto per controllare il global change) ma che rischia di lasciare in ombra l'esigenza di rapporti più articolati e complessi tra conservazione e sviluppo. È alla luce di questi rapporti che vanno cercate oggi le ragioni della conservazione. Il passaggio cruciale concerne il rapporto tra conservazione e innovazione: sul piano teorico, la conservazione è inscindibile dall'innovazione, nel duplice senso che la vera conservazione presuppone sempre una certa tensione innovativa (anche soltanto in termini di nuove attribuzioni di senso); e che simmetricamente ogni vera innovazione propone alla società contemporanea un impegno conservativo nei confronti dei sistemi di valori esistenti (Gambino 1997). La produzione di nuovi valori non può disgiungersi dalla rielaborazione continua di quelli già esistenti. Ma, se le nuove concezioni della conservazione (del paesaggio, della natura, del patrimonio) si vanno consolidando sul piano dei principi e degli orientamenti internazionali, occorre riconoscere che esse sono tuttora fortemente contraddette sul piano delle politiche e delle pratiche sociali. È su questo piano che la cultura tecnica e scientifica deve ora portare l'attenzione. 3 - Riaffermare il ruolo del paesaggio (e più in generale del patrimonio) come fattore di sviluppo locale e risorsa competitiva Il paesaggio non può non essere pensato come una risorsa fondamentale per la vita e lo sviluppo delle comunità locali: come afferma esplicitamente la Convenzione Europea del Paesaggio, il paesaggio va infatti riconosciuto giuridicamente in quanto componente essenziale del contesto di vita delle popolazioni, espressione della diversità del loro comune patrimonio culturale e naturale e fondamento delle loro identità. È nel paesaggio e nei suoi processi evolutivi che vanno ritrovate le radici del nostro futuro, i nessi identitari che legano la gente ai luoghi, le carte strategiche da giocare nelle reti di scambio, di produzione e di comunicazione che espandono la competizione a livello globale. La riconsiderazione in chiave innovativa della conservazione vale per tutto il patrimonio culturale, chiamato sempre più ad esercitare il ruolo di motore dello sviluppo locale sostenibile, soprattutto a fronte di processi di declino ed emarginazione. Si registra un crescente consenso sull'idea che il patrimonio costituisce una risorsa locale che non trova la sua ragion d'essere che nell'integrazione con le dinamiche dello sviluppo (De Varine, 2002). La valorizzazione del paesaggio e del patrimonio culturale non ha senso compiuto che come valorizzazione del territorio, in rapporto ai disegni territoriali (per usare le parole di Emilio Sereni, 1961) delle comunità che lo abitano e continuamente rielaborano. Non a caso la Convenzione Europea richiama la necessità di fare costante riferimento, anche nella valutazione dei paesaggi, alle percezioni e ai valori che sono loro attribuiti dai soggetti e dalle popolazioni interessate. Un rapporto di importanza cruciale ma nel contempo ambiguo e complesso, che sconta la perdita dei referenti tradizionali, con la scomparsa del mondo rurale arcaico in cui erano in gran parte insediati, lo sradicamento e la disgregazione delle comunità locali (Bagnasco 1994) travolte dai processi d'industrializzazione e di modernizzazione, la de-territorializzazione di molte dinamiche economiche e sociali. La mobilità e il nomadismo che crescentemente caratterizzano la società contemporanea allentano od erodono i legami della gente coi luoghi, mentre i nuovi sistemi territoriali locali (Dematteis, 2003) stentano ad aggregarsi attorno a riconoscibili ipotesi di sviluppo endogeno ed autogestito. Le soggettività territoriali, cui fare riferimento per la valorizzazione integrata e conservativa del patrimonio, non sono quindi un dato, ma l'esito, incerto e mutevole, di processi in corso. D'altra parte, se il paesaggio può essere pensato come fondamento delle identità locali, la sua conservazione non può che caricarsi di tutte le ambiguità e le contraddizioni che avvolgono il concetto stesso di identità territoriale e i suoi rapporti con lo spazio e col tempo. Nell'accezione corrente, il concetto di identità è strettamente legato a quelli di permanenza, di durata, di stabilità nel tempo e di definizione e riconoscibilità spaziale. Entrambi questi rapporti sembrano oggi messi in discussione. Sembra sempre più difficile rintracciare nei territori della contemporaneità i nessi duraturi con le popolazioni che li hanno plasmati nei secoli o nei millenni. Nessi che sono in continua evoluzione, come le configurazioni identitarie che ne conseguono: non vi è un'identità, ma un susseguirsi di identità (Raffestin, 2003). Non solo perchè i violenti processi di de-territorializzazione della modernità (in particolare la diffusione urbana e la proliferazione infrastrutturale) hanno cancellato o sepolto le precedenti matrici identitarie, ma anche perché la semiosfera collettiva, che costantemente influenza la produzione del territorio, muta in funzione delle dinamiche del contesto e delle attese e dei progetti di sviluppo (come avviene tipicamente nelle aree turistiche). Il territorio di riferimento cambia quindi continuamente, conservando tracce più o meno riconoscibili delle precedenti fasi produttive, sotto forma di immagini, memorie o connessioni ideali. 4 - Riconoscere la priorità strategica del sistema costiero, a livello euro-mediterraneo, nazionale e regionale Se si pone al centro il rapporto tra paesaggio e territorialità umana, il tema delle fasce costiere assume un significato emblematico, a tutti i livelli. A livello internazionale la tragedia asiatica ha richiamato l'attenzione sulla loro estrema vulnerabilità, avviando riflessioni destinate a proiettarsi ben oltre le grandi calamità naturali, sulle prospettive dell'emergenza continua, come tipicamente quelle legate al global change ed alle connesse responsabilità politiche. La consapevolezza della gravità dei rischi ha già trovato riscontro parziale negli orientamenti programmatici che maturano a livello mediterraneo (Mediterranean Action Plan) ed europeo (come ad es. nelle direttive per la gestione delle zone costiere, CE 2002). A livello nazionale, sebbene sia da tempo riconosciuta la necessità di una politica integrata per le coste, perdura una insostenibile separazione tra le aree marine e le aree terrestri nel quadro legislativo ed amministrativo che regola la conservazione della natura e mancano tuttora iniziative atte ad affrontare seriamente i rischi ed i problemi che si addensano sulle fasce costiere. Non si può dimenticare che la fascia costiera costituisce uno dei principali e più dinamici quadri ambientali del paese, l'ambiente peninsulare ed insulare subtropicale (Gambi, 1972). Vi rientrano una molteplicità di ambienti e paesaggi che, pur condividendo alcuni caratteri climatici e vegetazionali, presentano profonde differenze, che in parte risalgono alle diverse forme organizzative succedutesi storicamente, in parte all'estrema varietà della morfologia costiera, ma in larga misura derivano dalle vicende degli ultimi decenni, che hanno intaccato alla radice le strutture economiche, sociali e insediative. Sebbene nel Mezzogiorno continentale e nelle isole gli sviluppi insediativi ed i mutamenti economici e produttivi non abbiano sempre indotto quelle radicali modificazioni strutturali del quadro ambientale osservate più a nord, in generale l'Italia costiera sembra configurarsi, nel nuovo secolo, come il teatro principale del cambiamento ambientale e paesistico. La straordinaria ricchezza dei paesaggi originari diversificati, che ancora a metà del secolo scorso era percepibile lungo entrambe le dorsali tirrenica ed adriatica, oltre che nelle isole, è stata distrutta o profondamente mutilata, assai più che dai mostri isolati, dall'assiepamento costiero di grandi infrastrutture e di un'urbanizzazione del tutto indifferente ai caratteri dei luoghi, in gran parte fatta di seconde case e guidata dal turismo (in misura notevole, soprattutto nel Sud, abusiva), senza che i nuovi sviluppi economici e insediativi siano riusciti a produrre, salvo rarissime eccezioni, nuovi paesaggi coerenti. Le coste non urbanizzate sono ormai una quota minoritaria delle coste italiane, con tutto quanto ciò significa in termini di scarichi inquinanti, di prelievi idrici, di perturbazione della rete idrografica, di barriere ecologiche e visive, di perdita della continuità ambientale longitudinale della fascia di contatto tra terra e mare. Ma anche quando sono mancati consistenti sviluppi alle spalle della costa, questa è stata quasi ovunque presa d'assalto ed irreversibilmente trasformata: intercettati i recapiti a mare dei corsi d'acqua, tranciata ogni relazione vitale tra ecosistemi terrestri e marini, cancellata o menomata l'intervisibilità, pressochè scomparso l'apparato dunale sotto l'asfalto delle strade o il cemento dell'edilizia rivierasca dei parcheggi e dei campeggi, persino dentro alle aree protette costiere (come al Circeo o al Cilento), persino dentro o a ridosso dei siti archeologici di rilevanza mondiale. Non a caso le coste sono assai poco rappresentate nel sistema nazionale delle aree protette (Ced- Ppn, 2001): una cinquantina di aree, per lo più di modeste dimensioni, su circa 8000 km di costa. In breve, la fascia costiera in Italia è, quasi ovunque, una fascia di elevata criticità socioeconomica, ambientale e paesistica, nella quale un patrimonio prezioso e irripetibile di valori storici, culturali e paesistici è alla mercè di potenti forze disgregatrici. Eppure, essa ospita, nonostante tutto, le nostre maggiori risorse turistiche, una parte consistente dei nuovi sviluppi produttivi, i principali corridoi multimodali per l'interconnessione del paese, quel sistema portuale che dovrebbe e potrebbe assolvere funzioni di crescente importanza nei trasporti del prossimo futuro. Essa ospita gran parte del nostro patrimonio archelogico, artistico, storico, culturale e paesistico ed una parte grandissima della nostra biodiversità. Sembrano, queste, ragioni sufficienti per porre l'esigenza di politiche integrate di ampio respiro per le coste italiane, che guardino molto al di là di ciò che può succedere nelle scarse aree protette marine o nei bracci di mare prospicienti le aree protette terrestri. Eppure ha destato scandalo la decisione della Giunta regionale della Sardegna di adottare alcune norme cautelative di salvaguardia delle coste dell'isola, nelle more di formazione dei Piani paesaggistici, onde evitare trasformazioni che ne pregiudicherebbero la stessa fattibilità. Ma la considerazione dei problemi delle coste, a partire dall'interfaccia terra/mare, va ben oltre le misure di salvaguardia (come giustamente prevede il provvedimento citato), poichè investe la gestione e la pianificazione del territorio. È a questo livello che il problema delle coste pretende un approccio integrato, capace di affrontare congiuntamente sia le interazioni che si manifestano trasversalmente alla linea di costa che longitudinalmente, in termini di continuità e connessioni, discontinuità o fratture ecologiche, paesistiche ed ambientali. Si tratta di portare l'attenzione su quel che avviene lungo la più importante linea di frontiera del territorio peninsulare ed insulare, l'interstizio in cui si producono gli scambi tra sistemi terrestri e sistemi marini, tra le manifestazioni acquatiche e terrestri dell'organizzazione, del funzionamento e della continua ristrutturazione del territorio. È una prospettiva che mette in gioco responsabilità istituzionali diverse, meglio definite sul versante terrestre (soprattutto Regioni, Province, Autorità di bacino) che sul versante marino. Ma che investe anche il coordinamento tecnico-scientifico di strumenti diversi di gestione: in particolare i Piani paesaggistici ridefiniti dal Codice dei beni culturali e del paesaggio, di competenza regionale con gli altri piani per la gestione del territorio. 5 - Ridefinire le missioni della pianificazione Il tema delle coste collega emblematicamente la tutela del paesaggio alla pianificazione territoriale, rimettendo implicitamente in discussione le tradizionali missioni di quest'ultima. La principale sollecitazione concerne la missione di orientamento strategico e visionario: la pianificazione territoriale ed in particolare la pianificazione che si misura con i problemi del paesaggio e dell'ambiente alla scala di area vasta- non può evitare di tenere conto della complessificazione dei processi di governance e dell'esigenza crescente di rivolgersi ad un'ampia platea di soggetti relativamente indipendenti ed operanti sul medesimo contesto territoriale, nei confronti dei quali le forme di comando diretto devono cedere a forme più o meno efficaci di stewardship e cooperazione. Ciò trova riscontri (non senza incertezze e confusioni) nell'evoluzione del quadro istituzionale, ma anche nelle istanze partecipative riguardanti le comunità e gli attori locali e nella ridefinizione dei rapporti pubblico/privato nella produzione delle politiche territoriali. L'esigenza della pianificazione strategica è accentuata dall'incertezza degli scenari previsionali, dalla trans-scalarità delle dinamiche da controllare, dalla crescente importanza del governo locale e dei processi bottom-up, della partecipazione e dell'auto-gestione ai fini dello sviluppo sostenibile delle realtà locali. Ma, sebbene nei piani più recenti si possa notare il crescente rilievo accordato alla missione strategica della pianificazione, essa sembra destinata a convivere con la missione più direttamente regolativa. La pianificazione deve infatti rispondere sempre più ad esigenze di controllo di sistemi e dinamiche complesse, che spostano a scala sovralocale i problemi della regolazione dei processi di trasformazione. Tali esigenze sono accentuate dallo scaling up, dal salto di scala di molti dei problemi ambientali e paesistici, per effetto della globalizzazione e dell'aumento delle interdipendenze. Ambiente e paesaggio hanno bisogno di regole, che assicurino la reciproca coerenza delle azioni modificatrici sia tra i diversi livelli di governo, sia tra i diversi settori d'intervento, sia tra i diversi operatori pubblici e privati. L'esercizio della funzione regolativa nei nuovi orizzonti pluralistici e cooperativi richiede non solo importanti innovazioni sul piano propriamente normativo ma anche un significativo rafforzamento della missione conoscitiva, valutativa e argomentativa, con la quale si giustificano le scelte di tutela e d'intervento, si evidenziano le poste in gioco e si informano adeguatamente i dialoghi interattivi tra i diversi soggetti interessati. A questo proposito è interessante osservare, nell'esperienza non solo italiana dell'ultimo decennio, come allo sviluppo degli orientamenti strategici si sia accompagnata la crescita d'interesse per l'interpretazione strutturale del territorio. Alcune legislazioni regionali hanno già da tempo previsto che ogni atto di pianificazione rispetti le invarianti strutturali (vale a dire gli elementi di lunga durata che connotano il territorio e ne tramandano l'identità) e gli statuti dei luoghi, intesi come insiemi di regole costitutive su cui si è consolidato storicamente il consenso sociale. Il riconoscimento di queste regole costitutive anche con l'ausilio di nuovi strumenti investigativi, come i racconti identitari, le biografie territoriali e l'interpretazione strutturale del territorio, che raccolgono e sintetizzano una pluralità di letture disciplinari, da quelle geologiche a quelle biologiche, antropologiche, storiche e culturali - ha trovato già non poche applicazioni. L'esperienza fatta indica che esso (lungi dal potersi confondere con la pianificazione strategica) costituisce un ponte assai utile tra i due versanti quello strategico e quello regolativo in cui il piano è chiamato a svolgere le sue missioni. 6 - Coniugare l'attenzione per l'unitarietà con quella per le differenze e le specificità Sebbene le nuove concezioni della conservazione allargata a tutto il territorio abbiano avuto l'autorevole riconoscimento della Convenzione Europea del Paesaggio, esse hanno trovato finora scarso e contraddittorio riscontro nelle politiche concrete, soprattutto nel nostro paese. Se infatti il nuovo Codice allarga implicitamente la considerazione dei beni paesaggistici a tutto il territorio (o più precisamente a tutti i beni individuati dai piani paesaggistici, anche non compresi tra quelli di notevole interesse pubblico o tra quelli rientranti nelle categorie corrispondenti a quelle già tutelate ai sensi della Legge Galasso: art. 134), questa dilatazione sembra lontana dalle pratiche correnti e dalle tradizioni di tutela. Non è un caso che anche nel Codice si faccia esclusivo riferimento ai beni culturali e ai beni paesaggistici quali oggetti distinti di tutela e mai ai sistemi di relazioni che li legano strutturando il territorio. La cosa non stupisce: l'idea che l'opzione conservativa debba allargarsi all'intero territorio sembra, in realtà, fragile e perdente di fronte alle minacce e ai rischi incombenti, come tipicamente in Italia le aggressioni dilaganti dell'abusivismo (incoraggiato dai ricorrenti condoni) o la svendita dei beni pubblici (accelerata dai contestati provvedimenti legislativi degli ultimi anni). L'urgenza dell'azione di difesa sembra a molti operatori della conservazione indurre più di ieri a concentrare gli sforzi sulle cose di maggior valore come i monumenti, le aree naturali di maggior pregio, o i paesaggi di pregio eccezionale o a cercare di salvare il salvabile. Di qui la corsa disperata e comprensibile a cercare rifugio negli elenchi delle cose intoccabili, dei tesori non negoziabili. Ma staccare i monumenti o le bellezze naturali o i bei paesaggi dal variegato mosaico di paesaggi umanizzati (pur frequentemente deturpati o sconvolti dalle trasformazioni recenti) che costituisce il volto vero del nostro come di altri paesi europei, significa ignorare le ragioni profonde che stanno alla base dell'attuale domanda di qualità, il ruolo dei valori identitari e il radicamento territoriale delle culture locali, il rapporto costitutivo che lega la gente ai luoghi. Evitare questa spaccatura, d'altra parte, non vuol dire che si debba fare di ogni erba un fascio, negare il valore dei paesaggi eccezionali o il significato peculiare dei tanti impareggiabili paesaggi culturali che arricchiscono lo spazio europeo, stemperare l'azione di tutela nei paesaggi dell'ordinarietà, dell'anomia e del degrado che coprono ormai larga parte del territorio, ignorare il ruolo simbolico e comunicativo dei grandi monumenti naturali o delle emergenze spettacolari non solo nella cattura dei flussi turistici ma anche nella costruzione del consenso sociale sull'azione di tutela. Al contrario, allargare l'attenzione all'intero territorio è la strada obbligata per cogliere le differenze, diversificare l'azione di tutela, rispondere diversamente, nelle diverse situazioni, alla domanda di qualità: l'identità nasce dalle differenze. 7- Coniugare le esigenze di considerazione speciale per il paesaggio con quelle di integrazione Come è avvenuto per varie tematiche ambientali, le esigenze di tutela del paesaggio hanno trovato risposta in provvedimenti legislativi, misure e politiche d'intervento di carattere speciale. Sebbene la Convenzione Europea esorti ad integrare il paesaggio nelle politiche di pianificazione del territorio, urbanistiche, e in quelle a carattere culturale, ambientale, agricolo, sociale ed economico, nonché nelle altre politiche che possono avere un'incidenza diretta o indiretta sul paesaggio (art. 5d), le esigenze di specifica considerazione dei valori paesistici hanno finora sovrastato e schiacciato quelle dell'integrazione. Il nostro nuovo Codice si muove anzi lungo la linea della rischiosa distinzione tra tutela e valorizzazione, peraltro già introdotta a livello costituzionale ed orientata a dividere le competenze statali da quelle regionali (allo Stato la competenza esclusiva della tutela dell'ambiente, dell'ecosistema e dei beni culturali, mentre la valorizzazione dei beni culturali e ambientali è materia di legislazione concorrente tra Stato e Regioni). Sebbene non manchino, anche nel Codice, ripetuti richiami alla necessità di un'azione concorde tra Stato e Regioni, sembra evidente che a questo riguardo il Codice manchi all'appuntamento più importante, quello dei nuovi rapporti tra conservazione e sviluppo sostenibile. Rapporti tanto più condizionanti quanto più la conservazione si allarga sul territorio interessando le aree e i sistemi della marginalità e dell'abbandono (quali misure di tutela potranno mai fermare lo sfacelo dei versanti terrazzati o la ruderizzazione dei villaggi montani in assenza di politiche d'investimento e di sostegno economico e sociale?). Rapporti tanto più importanti quanto più si intenda affrontare seriamente i problemi della prevenzione dei rischi e della messa in sicurezza del territorio, uscendo dalle logiche perdenti dell'emergenza e ponendo mano a politiche strutturali, che facciano i conti con la rilevanza oggettiva delle criticità idrogeologiche del paese, e con la fragilità e vulnerabilità di una larga parte del nostro patrimonio edilizio e infrastrutturale. Nel nuovo Codice, alla distinzione tra tutela e valorizzazione si accompagna quella non meno rischiosa tra i beni culturali e i beni paesaggistici che rispecchia anche la divisione tradizionale delle competenze ministeriali. Distinzione difficile da sostenere sul piano scientifico e culturale (alla luce delle nuove concezioni del patrimonio che si sono sopra richiamate, che tendono piuttosto ad abbattere le vecchie divisioni) e difficile da praticare sul piano applicativo. Basti pensare al tema dei centri storici, praticamente assenti dal nuovo Codice se non nella figura dei monumenti complessi, chiaramente superata dal dibattito degli ultimi decenni (Ancsa, 1990). Anche questa distinzione sembra premiare l'attenzione per la specialità delle singole risorse a scapito di quella per i sistemi di interazione e connessione che strutturano il paesaggio (come le reti ecologiche, le fasce di continuità paesistica, le trame di collegamento socio-culturali) e per i processi di frammentazione che ne minacciano la funzionalità o la sopravvivenza. Queste distinzioni sembrano in sostanza prigioniere delle vecchie logiche della separazione spaziale come strategia di riduzione dei conflitti. Una strategia tuttora spesso imprescindibile (tipicamente nelle zone costiere e nelle fasce fluviali, in cui la separazione tra le aree da lasciare o restituire alla libera evoluzione delle dinamiche naturali e quelle utilizzabili dall'uomo svolge un ruolo irrinunciabile), ma che non può rispondere alle nuove esigenze della conservazione e dei suoi rapporti coi processi di sviluppo sostenibile. Nelle prospettive che si vengono delineando occorre separare quando necessario e integrare ovunque possibile. Non si può negare che questa preoccupazione per le esigenze dell'integrazione pesi anche sulla scelta degli strumenti per la gestione e la pianificazione del paesaggio, che il nuovo Codice, sulla scia della Legge 431 del 1985, ripropone con l'ambivalenza tra piani paesaggistici e piani urbanistici-territoriali con specifica considerazione dei valori paesaggistici. L'esperienza ormai quasi ventennale delle Regioni italiane induce ad andare oltre questa ambivalenza e a riconoscere che la considerazione delle interazioni complesse tra conservazione e sviluppo (e quindi anche tra interessi specifici e interessi generali del territorio) non può esaurirsi nell'ambito di uno strumento di piano o di singoli atti di governo. Essa concerne processi articolati di conoscenza, decisione ed attuazione che mettono in gioco una pluralità di soggetti istituzionali e di attori a vario titolo operanti sui territori interessati. La sfida dell'integrazione va affrontata sul terreno concreto di processi di governance territoriale basati sulla cooperazione responsabile e carichi di sensibilità ambientale, paesistica, storica e culturale. di Roberto Gambino Riferimenti |