Classe 1967, montanaro di Premosello Chiovenda, nella Provincia del Verbano Cusio Ossola, si è laureato a pieni voti in Scienze Politiche presso lUniversità degli Studi di Pavia; consulente aziendale nel campo del management, giornalista pubblicista, è sposato ha una figlia.
Allora democristiano viene eletto, a 22 anni, consigliere a Vogogna, di cui diventa Sindaco nel 1995, con il 53% dei voti, che salgono al 73% con la riconferma del 1999. Negli stessi anni, tra il 1995 e il 1996, è Presidente della Comunità montana Valle Ossola e poi consigliere provinciale di centro sinistra.
Enrico Borghi è ancora consigliere a Vogogna, ma nel frattempo ha allargato i confini della sua azione politica.
Nellaprile del 2000, viene eletto Presidente dellUncem, lUnione Nazionale Comuni, Comunità, Enti Montani. In questa veste affina la sua esperienza in campo internazionale: membro della Camera dei Poteri Locali del Consiglio dEuropa, dal 2002 è componente effettivo del Comitato delle Regioni e del bureau operativo dellAssociazione Europea Eletti della Montagna (AEM), co-fondatore dellAssociazione Mondiale delle Popolazioni di Montagna (APMM) e membro della rete Alleanza Mondiale per la Montagna.
Dal 2003 è consigliere damministrazione del Formez, con delega ai progetti internazionali e nel 2004 ne diventa vicepresidente. Il Presidente Enrico Borghi ha al suo attivo anche unesperienza diretta come amministratore di aree protette. Nel 1993 viene infatti eletto Presidente del Parco Naturale dellAlpe Veglia e dellAlpe Devero ed entra a far parte della giunta nazionale di FederParchi. Anche per questo abbiamo voluto rivolgergli alcune domande sul rapporto esistente, o possibile, tra parchi e aree protette e politiche per la montagna.
Ecco le sue risposte.
Le aree protette rappresentano una percentuale non indifferente dei territori montani. Le ritieni un ostacolo oppure una opportunità per il loro sviluppo?
«Senza dubbio unopportunità. Gli anni dellequazione parco uguale ostacolo allo sviluppo sono ormai consegnati agli archivi, e in tutta Italia si verificano positive integrazioni fra il lavoro degli enti di gestione e gli enti locali, favoriti anche dal rinnovo generazionale degli amministratori».
La montagna del puro divertimento invernale per i cittadini -fatta di assalto meccanizzato alle alte quote- o quella dellambiente naturale protetto accogliente ad uso del turista, rappresentano modelli ormai ampiamente superati. Quali sono le alternative credibili?
«Lalternativa che lUncem propone da tempo: una montagna in grado di assicurare ai residenti i servizi fondamentali -scuola, sanità, trasporti-, di facilitare lavvio di attività imprenditoriali, di consentire lo sfruttamento sussidiario e sostenibile delle risorse montane. In una parola: la montagna dal lunedì al venerdì. Unico modello in grado di superare la formula week-end che alberga ancora nellimmaginario comune ma che dobbiamo necessariamente integrare con una logica più armonica. Perché se la montagna si regge solo su due giorni alla settimana, il rischio dello sfruttamento e del mordi e fuggi è fortissimo.
Ambiente naturale, tradizioni e cultura possono essere carte da giocare nella progettazione del futuro delle nostre montagne?
«Devono esserlo! La montagne rappresentano musei di tradizioni, lingue e culture millenarie, ospitate in contesti naturali di inestimabile bellezza e valore. Tutto ciò necessita però di politiche mirate di valorizzazione e sviluppo, di interventi in grado di favorire limprenditoria nel pieno rispetto del territorio e in unottica di qualità, di contrastare lesodo e incentivare il presidio umano».
Su quali altre risorse punta la montagna per garantirsi un futuro?
«Il futuro della montagna è in questo momento affidato alla partita acqua, ambiente, energia. Questi stanno diventando capitoli economici, in cui si investe e si investirà sempre più in fonti di energia pulita e rinnovabile - solare, eolico, biomasse, idroelettrico e noi dovremo determinare in ciò uno sviluppo attento agli equilibri ambientali ma al tempo stesso capace di creare occupazione e opportunità economiche locali. La scommessa che lUncem sta portando avanti è quella di un coinvolgimento sempre più ampio delle comunità locali allinterno di questo percorso, per evitare neo-colonialismi economici».
I parchi possono aiutare la montagna a trovare nuove forme di possibile sviluppo, rispettoso dei tempi, dei ritmi e delle fragilità delle terre alte. Sei daccordo e se sì, quale ritieni sia la maniera migliore per cogliere questa opportunità?
«Sono assolutamente daccordo. Bisogna però, a mio avviso, cogliere i segni dei tempi e affrontare con coraggio, determinazione e convergenza di idee il tema della riforma della governance dei Parchi. Ho fatto parte agli inizi degli anni 90 della giunta di FederParchi (allora ancora Coordinamento) e conosco bene avendoli condivisi- i principi per i quali la cooptazione doveva essere prevalente nella selezione della classe dirigente di Parchi e Riserve. Ma oggi il livello di accettazione e assimilazione delle aree protette da parte delle collettività locali è tale da non dover temere di affrontare il mare aperto della democrazia. Del resto, che il sistema così non funziona lo dimostrano gli ultimi anni di nomine nei Parchi nazionali, dove tra commissariamenti e nomine partitiche il Ministero dellAmbiente ha creato enti privi di rapporti con i territori e gli enti locali, perdendo di vista lidea del Parco motore di sviluppo. Occorre rimettere al centro la sussidiarietà: dove i primi paladini dei Parchi sono sindaci e amministratori locali i Parchi decollano».
Perché continua a riproporsi, ogni volta che si ventila lipotesi di un parco, il vecchio e superato stereotipo dellarea protetta come istituzione che ingessa il territorio e non ne permette lo sviluppo?
«Perché permane ancora, in certi ambienti, la convinzione che il concetto di area protetta coincida con quello di assenza di intervento sul territorio, inteso come riserva in alcun modo modificabile. Trascurando il fatto che la sostenibilità si accompagna necessariamente allo sviluppo. E un lato della medaglia. Laltro è fatto invece di comunità locali che chiedono di istituirne, o di entrare a farne parte. Bisogna incentivare questi processi, con politiche mirate e non con pannicelli caldi o pacche sulla spalla».
Le Comunità montane sono propositive rispetto agli indirizzi di futuro sostenibile o si limitano a registrare le esigenze del territorio, spesso ignare della necessità di invertire la rotta mutando il modello di sviluppo?
«Le Comunità montane hanno recepito perfettamente lesigenza di lavorare in questo senso. La decisione di iniziare una riflessione seria, come Uncem, sulle modalità di coinvolgimento del territorio nella partita energia -per esempio-, che ha portato poi alla Costituzione di una società che operi a sostegno e a supporto degli enti locali montani nel campo della pianificazione energetica e dellutilizzo delle fonti rinnovabili dei territori montani, è stata sollecitata proprio dallesigenza manifestata in questo senso da numerose Comunità montane. Il punto è trovare il giusto equilibrio ambientale -il famoso sviluppo sostenibile- e mettere i territori montani e le loro popolazioni in grado di governare le filiere produttive e godere del loro valore aggiunto. Ciò presuppone la riforma della stessa Comunità Montana, per renderla davvero lo strumento sussidiario, adeguato e differenziato dei piccoli Comuni di montagna, e la modifica di meccanismi finanziari oggi ancora centralistici. Insomma, serve una Politica.
Cè una Convenzione delle Alpi che attribuisce alle politiche di conservazione e tutela dellambiente naturale un ruolo strategico per il futuro di questa delicata bioregione.
Pensate che possano svolgere un ruolo istituzionale importante e siete disposti a riconoscerlo?
«Non solo siamo disposti a riconoscere le politiche europee di conservazione e tutela dellambiente, e in particolare della corona Alpina così come la Convenzione prevede, ma in questo senso abbiamo da poco ratificato, come Uncem, la Convenzione degli Appennini, firmata lo scorso 24 febbraio a lAquila, con lobiettivo di tutelare la biodiversità, favorire la mobilità compatibile, valorizzare il turismo, i beni storici e culturali, rendere compatibile il rispetto per lambiente con il risparmio energetico della seconda catena montuosa del Paese.
Il punto è però il solito: il tasso di sussidiarietà presente in questi strumenti, di come le popolazioni locali diventano attori e non spettatori di questi processi».
Le comunità locali hanno accolto con diffidenza ed hanno anche avversato questo documento ritenendo fosso troppo marcatamente di matrice ambientalista. Lopinione è mutata?
«Quando le Comunità locali non vengono opportunamente coinvolte il rischio è proprio questo. Ma per fare questo servono scelte politiche vere, la volontà di applicare davvero il principio di sussidiarietà, e non nuovi o antichi centralismi - statali o regionali, cambia poco - che continuano a concepire la montagna come periferia dellImpero. Daltra parte, la diffidenza delle comunità locali è specchio di una mancata attenzione italiana nei confronti di questo strumento. Non dimentichiamo che Austria, Germania, Liechtenstein e Slovenia hanno ratificato tutti i Protocolli, Francia e Monaco una parte di essi, lItalia nessuno. Lopinione muterà quando muteranno i fatti: siamo ansiosi di poterlo fare!».
Quali sono i correttivi che ritenete auspicabili?
«I correttivi nascono da una visione diversa della realtà montana rispetto a quella che i più hanno manifestato fino ad ora. Occorre reimpostare ledificio dalle basi, concependo la montagna non come mero territorio extraurbano, ma come realtà specifica e molteplice, in cui convivono molti aspetti (dalla montagna turistica a quella agricola, da quella manifatturiera a quella postindustriale) e in questo, occorre avere il coraggio di investire sulla sussidiarietà istituzionale. Certo, i comuni montani sono troppo piccoli, troppo frazionati e di dimensioni non consone alle politiche di promozione economica e alla logica essenziale delle economie di scala per lerogazione dei servizi. E spesso le mentalità di campanile sono i primi freni allo sviluppo. E per questo che occorre rilanciare e sostenere lesperienza delle Comunità montane, strumento da riformare e rafforzare anziché penalizzare, come fatto finora. Perché solo creando ambiti territoriali in cui economia, società e ambiente si integrano e si intrecciano è possibile governare dal basso una realtà così complessa. Cominciamo allora a dire che le politiche di attuazione della Convenzione delle Alpi si attuano solo attraverso il sistema integrato Comunità Montane-Parchi, evitando alzate di ingegno centraliste che atterrano sui territori senza alcun coinvolgimento. Perché se la scala della sussidiarietà non è ben declinata, con chiarezza e senza dubbi interpretativi, il sistema si blocca. Come appunto è avvenuto in questi anni».
Non si corre forse il rischio che la Convenzione venga, nei fatto boicottata, o addirittura rigettata?
«Non intendiamo rigettare, o peggio boicottare, la Convenzione delle Alpi. E uno strumento utilissimo, e proprio per questo sottoutilizzato rispetto alle sue potenzialità. Ci auguriamo in questo senso che la recente nomina dellOn. Luciano Caveri a Presidente della Consulta dellArco Alpino, organismo istituito proprio per la messa in pratica dei dettami della Convenzione delle Alpi possa restituire nuova linfa e dare una spinta alle azioni in cantiere».
Cè una convenzione tra Uncem e Federparchi; come intendete dare ad essa attuazione?
«Perché non iniziare insieme a discutere di come riformare la 394 e la 97? Oggi non siamo più quello che eravamo, e non siamo ancora quello che potremmo essere. Inizia una nuova legislatura, che ci auguriamo sciolga i molti nodi irrisolti e dia fiato alle vele dellItalia. Perché non dare il nostro contributo insieme, partendo dal basso, rimettendoci in gioco e dando così un contributo altamente politico fuori da corporativismi e giochi delle parti- alle nostre prospettive comuni?».
Grazie.
|