Federparchi
Federazione Italiana Parchi e Riserve Naturali


PARCHI
Rivista della Federazione Italiana Parchi e delle Riserve Naturali
NUMERO 47 - FEBBRAIO 2006




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Ecoturismo nel Parco Nazionale di Butrint

In Albania un progetto pilota di cooperazione internazionale, su base comunitaria, seguito dalla Banca Mondiale

«Una vacanza in Albania? Che razza di idea…»: paese abbastanza sconosciuto, giudicato sia pericoloso sia poco appassionante, l’Albania, per mille ragioni vere e presunte, paga lo scotto di una pessima reputazione. Nonostante le tante ricchezze (molto a rischio) e la sua vicinanza con l’Europa, “vendere” l’Albania come destinazione turistica è ancora oggi molto difficile.
La Banca Mondiale affianca da anni le autorità nazionali con molti interventi a sostegno dello sviluppo turistico del paese (anche se, purtroppo, le varie iniziative non sempre appaiono coordinate ed espressione di una visione coerente del tipo di sviluppo voluto). Tra queste azioni, un piccolo progetto “pilota” di un certo interesse è stato promosso dal 2003 al 2005 nel Parco Nazionale di Butrint, teso a sviluppare, per la prima volta nella zona, un dialogo concreto tra Parco e popolazioni locali per la creazione di iniziative di eco-turismo su base comunitaria.
Il Parco di Butrint, di grande valore archeologico e naturalistico, è un vero fiore all’occhiello del paese. E’ situato nella regione di Saranda, all’estremo sud dell’Albania, sulla costa di fronte alla vicinissima isola di Corfù. Su una superficie di 29 kmq (attualmente è però in corso un processo di ampliamento dell’area protetta) si incontrano colline di macchia mediterranea e di ulivi, un grande lago salmastro ed un altro più piccolo d’acqua dolce, diverse zone
paludose, una estesa piana alluvionale, canali di collegamento tra i laghi e il mare, preziosi habitat per uccelli e altra fauna meno appariscente, ma molto interessante, come anfibi e rettili (tra cui molti endemismi), e una ricca flora balcanica e mediterranea. Nel cuore di tutto ciò si trova l’antica città di Butrint, uno stupefacente agglomerato di rovine archeologiche illiriche, greche, romane, bizantine, veneziane, ben conservate e immerse nella natura. Ed intorno, al di fuori delle antiche mura, sono visibili resti di castelli e fortezze veneziane e turche, il tutto a testimoniare un passato incredibilmente ricco della storia che coinvolse nei secoli tutto il Mediterraneo. Il Parco è giovane, essendo stato istituito ufficialmente nel 2000, ma la zona archeologica è Patrimonio dell’Umanità dell’Unesco dal 1992; dal 2003 è inoltre Zona Umida di Importanza Internazionale secondo la Convenzione di Ramsar. Nelle immediate vicinanze del Parco, ma per ora ancora fuori dei suoi confini, si trovano alcuni villaggi diversi per dimensioni, origini storiche e realtà socioeconomiche, ma con comuni problemi di emigrazione, di assenza di una pianificazione del territorio e di una chiara strategia di sviluppo locale, a fronte di emergenze territoriali e di pesanti sacche di povertà tra la popolazione.
Butrint è una tradizionale meta turistica nazionale, che comincia ad essere abbastanza conosciuta anche all’estero, con una cospicua presenza di visitatori stranieri: i dati della stagione turistica del 2004 riportano 43.000 presenze tra albanesi e stranieri. Le visite sono limitate però ad una giornata e sono ristrette alla sola zona archeologica (recintata, dove si paga un biglietto d’entrata, e che è da tutti considerata erroneamente, rispetto ai veri confini dell’area protetta, “il Parco”). Le presenze nazionali, kossovare e macedoni sono legate prevalentemente al mare e alle spiagge fuori dal parco, mentre la maggior parte degli stranieri europei e nordamericani arriva da Corfú, con gite puntuali a Butrint promosse da agenzie greche (un tipo di turismo, quindi, che lascia poche risorse economiche sul territorio). Solo recentemente si comincia a riscontrare un aumento di presenze di stranieri in viaggio attraverso il paese, con comitive organizzate o in piccoli gruppi liberi.
La grande scommessa attuale del Parco è quindi quella di creare un’offerta eco-turistica, che aumenti le attività e i servizi messi a disposizione del visitatore, sia albanese che straniero, in modo da incoraggiarlo a trattenersi nell’area più a lungo. Ad esempio, un’apprezzabilissima iniziativa del Ministero della Cultura albanese (purtroppo non ben pubblicizzata) sfrutta l’incanto della zona archeologica e del teatro greco, organizzando, presso il Parco, rassegne internazionali di teatro, concerti e spettacoli di danza classica.
Il progetto della Banca Mondiale era dunque nato su questa realtà di partenza, per esplorare la possibilità di nuove iniziative eco-turistiche, basate però su un criterio fondamentale, il “community based tourism”: dovevano cioè coinvolgere in modo attivo le popolazioni dei villaggi ai confini del Parco, mostrando loro il legame tra sviluppo turistico e importanza della conservazione delle risorse culturali e ambientali.
Il progetto era stato strutturato dalla Banca Mondiale in due componenti: una di creazione dell’offerta sul campo (affidato ad una Ong italiana, il Comitato Internazionale per lo Sviluppo dei Popoli – Cisp) ed una di promozione di Butrint in Italia e all’estero (affidato ad una società di comunicazione, Weber Shandwick). L’idea, molto interessante, ma come vedremo, molto problematica, era quella di agire in contemporanea sui due fronti.
A livello della componente di promozione, quindi, la società di comunicazione ha lavorato attraverso la creazione di un sito web, la partecipazione del parco a grandi fiere internazionali del turismo, l’invio a Butrint di giornalisti italiani e di un Educational Tour di tour-operator italiani.
Molto più complessa è stata invece la parte sul campo, di creazione vera e propria delle attività eco-turistiche gestite dalle comunità locali in collegamento col Parco.
Accanto alla grande potenzialità eco-turistica dell’area, molti erano infatti i limiti di partenza: tempi dell’intervento estremamente ridotti, risorse economiche limitate, scarsità di risorse umane locali preparate su queste tematiche e praticamente nessuna esperienza di questo tipo da parte delle comunità e del personale del Parco.
Il Cisp ha quindi deciso di impostare l’intervento mirando a:
Sottolineare l’aspetto “pilota” del progetto, concentrandosi su poche attività “pioniere” individuate (promozione dell’artigianato locale; creazione di un servizio di giri in barca con i pescatori; ospitalità per i turisti presso le famiglie, su un modello molto semplificato di “bed and breakfast”)
Ricercare risultati anche piccoli, ma molto concreti e visibili
Puntare sull’effetto dimostrativo verso le comunità locali della potenzialità di questo tipo di attività
Porre grande attenzione alla visibilità del Parco presso le comunità locali, in tutte le iniziative
Promuovere la formazione e il “training on the job” a vari i livelli (personale locale del progetto; artigiani, pescatori e famiglie coinvolte nelle attività; guide del parco; studenti della locale scuola professionale per il turismo)
Offrire informazione e comunicazione alle comunità locali sull’evoluzione del progetto e le attività del parco, attraverso i media locali e la diffusione di uno specifico bollettino.
A riassumere la filosofia dell’intervento, lo slogan del progetto proposto alle comunità era: «Vivere vicino al Parco è un’opportunità».

Alla fine del progetto, i risultati della componente sul campo sono stati incoraggianti, e le positive valutazioni fatte sia interne, da parte degli attori coinvolti, sia esterne, da parte di esperti della Banca Mondiale, hanno dato ragione al tipo di impostazione prescelta.
Senza addentrarsi in dati quantitativi e qualitativi sui risultati ottenuti, inutili in questa sede e molto legati alla realtà specifica, alcune considerazioni generali scaturite da questa esperienza possono essere considerate delle vere lezioni apprese, utilizzabili in altri interventi di cooperazione anche in contesti diversi:
Risultati concreti. L’attiva partecipazione delle comunità in un processo di sviluppo può essere possibile se focalizzata all’ottenimento di risultati molto concreti e visibili, anche se piccoli. Il rischio tipico di molti progetti di cooperazione è quello di avere eccessive ambizioni, che poi vengono disattese, oppure di essere eccessivamente teorici, producendo studi e documenti di indubbia necessità e valore scientifico, ma che non hanno impatto immediato sulle popolazioni locali coinvolte. In entrambi i casi, ciò produce una sfiducia delle comunità nei confronti della cooperazione, il che rappresenta un fortissimo ostacolo al loro coinvolgimento come attori partecipi.
Tempo. Lo sviluppo del turismo basato sulle comunità locali richiede molto tempo. I passi necessari non possono essere saltati, in quanto i diversi attori coinvolti devono conoscere le peculiari caratteristiche del mercato turistico in cui incominciano a muoversi, sviluppare le loro capacità, valutare il loro reale interesse a questo tipo di iniziative ed imparare dall’esperienza. “Learning by doing” (imparare facendo) è, infatti, il criterio strategico fondamentale, che va però accompagnato: un supporto tecnico da parte delle istituzioni è necessario, prima che le comunità possano sviluppare un approccio imprenditoriale autonomo. Questo tempo va valutato in base alle caratteristiche culturali locali, il livello d’istruzione e dell’esperienza delle persone coinvolte, ecc… Se è giusto pensare il prima possibile alla sostenibilità e a gettare le basi per l’indipendenza delle comunità da aiuti esterni, d’altro lato un’eccessiva fretta, come quella manifestata da alcune agenzie internazionali, di vedere raggiunta tale autonomia rischia di bruciare l’iniziativa e di scoraggiare le persone coinvolte.
Aspettative. La parola “turismo” scatena ormai, ovunque nel mondo, aspettative altissime, che vanno ridimensionate all’inizio di un intervento, in tutti gli attori coinvolti, dalle comunità, alle istituzioni, ai donatori. Introdurre, da subito, una visione più corretta e realistica può creare le basi per una migliore gestione del progetto e per una maggiore consapevolezza dei risultati raggiungibili. Per esempio, rispetto alla reali possibilità di incrementare il reddito delle persone coinvolte (che è ovviamente uno dei principali obiettivi), va chiarito subito che per molto tempo si potrà sperare di ottenere solo dei redditi addizionali, e non una sostanziale modifica della condizione economica (il che significa, tra l’altro, sollecitare all’inizio gli attori coinvolti a non abbandonare le loro attività principali di sostentamento): sembra un concetto scontato, ma, proprio a causa delle grandi aspettative, non lo è affatto.
Numero di attori coinvolti. In un progetto di cooperazione, il dato numerico di quanti “beneficiari” sono stati coinvolti è un tipico indicatore fondamentale per valutare il successo di un’iniziativa. In un progetto di sviluppo turistico comunitario, però, è impensabile, anzi controproducente, coinvolgere dal principio troppi attori, poiché il limite è dato dal mercato (ad esempio, nel progetto in questione, far partecipe un numero eccessivo di famiglie per l’ospitalità in casa, avrebbe significato scontentare tutti, per l’impossibilità di riempire tutti i posti-letto). Una soluzione è la diversificazione delle attività nell’ottica del turismo diffuso, coinvolgendo in qualche modo tutto il villaggio con iniziative collaterali (dal negozietto di villaggio, al bar e alla taverna locale, al signore anziano del posto che fa da guida, ecc…). All’inizio, però, i numeri saranno, comunque, sempre inevitabilmente ridotti.
Promozione all’esterno e attività sul campo: il problema delle due velocità. Strategico nell’esperienza esaminata è stata l’idea delle due componenti: da una parte azione sul terreno, dall’altra promozione all’esterno. L’approccio è indubbiamente corretto, ma ne va evidenziato il pericolo intrinseco. Infatti, il tempo per creare iniziative in loco è infinitamente più lungo di quello necessario per la promozione di una nuova destinazione turistica. Inoltre, se non accuratamente mirata, la diffusione commerciale può rivolgersi ad un pubblico troppo vasto e quindi non pronto per una realtà “nascente”. In definitiva, il rischio è quello di ricevere troppo presto sul posto turisti non preparati, mentre i servizi e le attività turistiche non sono ancora consolidati. L’effetto inevitabile è la delusione da entrambe le parti, con il rischio di “bruciare” l’iniziativa. La soluzione è quella di una promozione molto soft all’inizio, e molto mirata, ad esempio attraverso circuiti specifici di turismo consapevole o associazioni di escursionismo, facendo in modo che i primi gruppi di visitatori siano assolutamente consapevoli del tipo di situazione che incontreranno, e le comunità, dal canto loro, abbiano il tempo e la tranquillità per imparare da queste prime esperienze. Anche in questo l’esempio del progetto esaminato è esemplare: i tour-operators italiani invitati nell’ambito della promozione commerciale, pur concordando sulla grande potenzialità del luogo, non hanno ritenuto opportuno inserire ancora questa nuova proposta turistica nei loro cataloghi, mentre un’associazione di trekking italiana coinvolta da Cisp è stata così entusiasta dell’esperienza da organizzare due gruppi di visitatori durante il progetto, promuovere in Italia tre conferenze di presentazione dell’esperienza, inserire informazioni su Butrint nel loro sito web e fare pubblicità informale tra i loro soci. In proposito va anche sfatato un luogo comune: oggigiorno questo tipo di visitatori non è più espressione necessariamente di un turismo povero, giovanile e “saccopelista”, ma anzi è caratterizzato statisticamente da una maggioranza di persone con cultura e reddito medio e medio-alto, specificamente interessato a scambi culturali e ad ambienti naturali ben conservati: il target ideale e non marginale, quindi, del turismo nei parchi. Qualche ultima considerazione finale: molto più del turismo di massa, il turismo su base comunitaria non solo genera benefici materiali alle famiglie locali coinvolte, ma ha un impatto molto forte sul sentimento di orgoglio e di senso di appartenenza al proprio territorio, rendendo la popolazione più attenta all’importanza della conservazione delle risorse naturali e culturali. Su questa base, gli interventi promossi devono porre grande attenzione al rafforzamento e alla formazione delle risorse umane e al coinvolgimento delle autorità locali. Contemporaneamente, queste azioni dovrebbero essere inserite in una politica governativa di sviluppo turistico coerente. Infine, come sempre e ovunque, un forte dialogo tra Parco e comunità locali è fondamentale e rappresenta una delle chiavi principali di successo.

I Parchi nazionali in Albania
In Albania esistono attualmente (dati aggiornati al Febbraio 2006) 13 Parchi Nazionali (oltre ad altre figure di protezione), per un totale di circa 56.440 ettari.
Il più antico e’ quello di “Mali i Dajtit” (Monte Dajti), nelle immediate vicinanze di Tirana, dichiarato Parco Nazionale nel 1960. Ad esso hanno fatto seguito altri sei parchi, nominati nel 1966: P.N. Theti, P.N. Lura, P.N. Pisha e Divjakës, P.N. Llogaraja, P.N. Bredhi i Drenovës. Dopo la caduta del regime, a partire dal 1996 sono stati creati i parchi di Lugina e Valbonës, Mali i Tomorrit, Bredhi i Hotovës, Qafë Shtama, Zall Gjocaj, Prespa ed infine, nel 2000, Butrint.
Tutti i parchi sono recentemente passati dall’autorità del Ministero dell’Agricoltura a quella del Direttorato per la Politica per la Protezione della Natura del Ministero dell’Ambiente, Foreste e Acqua. Fa eccezione il parco di Butrint, che dipende, dal momento della sua istituzione, dal Ministero della Cultura, in considerazione del suo principale valore archeologico.Per la maggior parte si tratta di parchi di montagna, che ospitano specie rare come l’orso, o di zone umide, molto importanti per le vie migratorie degli uccelli. Sono zone di grande bellezza e di alto interesse naturalistico. Pochi sono attrezzati per il turismo. Vari progetti di cooperazione internazionale stanno appoggiando il governo albanese nel rafforzamento della gestione e della protezione di questi territori.

di Stefania Petrosillo