Parchi e sviluppo: un binomio da sempre problematico.
Con lo "sviluppo locale" tutela e risorse naturali sono diventati materia di politica economica. Possono i parchi indirizzare lo sviluppo locale? Fare da "antenna" per fornire al sistema locale conoscenze e modelli che non possiede ma di cui ha bisogno?
Nei vent'anni di vita di "Parchi" il mondo delle aree protette è molto cambiato. Sono assai più estese le aree sottoposte a tutela, più numerosi gli enti parco nazionali e regionali, più ampio l'insieme delle persone che si occupano del tema anche a seguito dei progressi della politica di conservazione europea, la direttiva Habitat e Natura 2000. In questo arco di tempo è avvenuto un altro cambiamento, forse meno evidente: la tutela e l'uso delle risorse naturali sono diventati materia di politica economica, entrando nel campo d'azione di amministrazioni che in precedenza si consideravano estranee al tema. Questo cambiamento si è prodotto, in gran parte, in conseguenza dell'emergere di un particolare approccio allo sviluppo economico: quello che individua nel sistema locale un'unità di analisi rilevante per comprendere i processi di sviluppo, e pensa che la produzione di beni pubblici, materiali e immateriali, stia al cuore dello sviluppo locale (Brusco 2004, Pichierri 2003, Trigilia 2005). Un'eccellente dotazione di verde pubblico che - ben manutenuto, accessibile e fruibile - diventa occasione di investimento e di produzione di servizi, è infatti uno dei più classici esempi di bene pubblico. Per questa via, il paradigma dello sviluppo locale ha generato uno slittamento del senso e delle ragioni per le quali conviene aver cura delle risorse naturali, attribuendo a queste ultime nuovi diritti di cittadinanza in altre politiche pubbliche oltre a quella della conservazione. Ma si può considerare stabile questo cambiamento, indotto e favorito dal paradigma dello sviluppo locale? Mi pare sia lecito dubitarne, per due ragioni principali.
La prima è che il cambiamento non si è evoluto sino al punto di modificare i comportamenti amministrativi codificati. E' vero che ormai si discute spesso dei legami che intercorrono tra beni naturali e attività economiche localizzate, ma non esiste ancora, su questo tema, una politica compiuta, provvista di propri modelli interpretativi e d'azione, di comune riferimento nella pubblica amministrazione centrale, regionale e locale. Questo naturalmente è una debolezza, perché in assenza di codificazione aumenta il rischio di tornare indietro.
La seconda ragione è che il paradigma dello sviluppo locale non è riuscito a guadagnare preminenza nella discussione di politica economica nazionale. Le posizioni più forti sono altre: quella di chi auspica una programmazione dello stato centrale che modifichi il modello di specializzazione produttiva a favore di nuovi settori e l'hi-tech; quella di chi si batte per la sistematica eliminazione dei vincoli che impediscono la concorrenza. La posizione di coloro che, senza negare valore alla forza del mercato e alle politiche centrali, sostengono l'importanza di istituzioni sensibili ai contesti e in grado di modificarli rimuovendo gli ostacoli allo sviluppo, è invece minoritaria (per un punto recentissimo, si veda Bagnasco 2006). Il rischio di tornare indietro, dunque, è reso probabile non solo dall'assenza di codificazione, ma anche dalla vulnerabilità politica del paradigma.
Nel fornire qualche spunto su questi temi (nella prospettiva storica che la ricorrenza del cinquantesimo di "Parchi" invita ad assumere), farò riferimento a evidenze tratte dalla politica regionale europea, la branca di politica economica che tra fine anni Novanta - inizio Duemila ha fatto i passi più decisi e convincenti di applicazione del paradigma dello sviluppo locale al mondo delle aree protette. In tale ambito la mancata codificazione alla quale si è fatto cenno appare manifesta, e molto concreta la possibilità che si traduca in un arretramento. In un clima poco attento alle politiche locali di sviluppo, le strade dei parchi e quelle della politica economica potrebbero di nuovo divaricarsi. Ma seguendo le tracce di alcune evoluzioni in corso, altre finestre di opportunità sembrano aprirsi e rendere possibile nuove forme di allineamento, come tenterò di esporre alla fine dell'articolo.
Casi rivelatori
Nelle regioni del Sud undici progetti integrati di sviluppo locale (di cui sette in Campania) sono focalizzati, in specifico, su ambiente e parchi naturali. Sei di essi hanno ricevuto nel loro insieme, nell'ambito della programmazione regionale dei fondi europei 2000-2006, 51 milioni di euro, destinati soprattutto a opere di valorizzazione dell'ambiente e di conservazione e recupero del patrimonio culturale.
Destinazioni di spesa ovvie, si dirà. Non è così. Se si guarda, con riferimento ai territori delle aree protette, a come è composta la spesa ordinaria dei fondi europei - quella che non passa per i progetti integrati ma per il consueto meccanismo dei bandi e delle graduatorie - si trova che le classi di intervento "valorizzazione dell'ambiente" e "valorizzazione del patrimonio culturale" ottengono finanziamenti piuttosto modesti: il 10 e il 7% rispettivamente del totale. Viceversa negli ambiti dei progetti integrati sopra citati, focalizzati sui parchi, queste classi pesano rispettivamente per il 42 e per il 33,7%. Mentre inoltre nel primo aggregato di spesa hanno rilievo gli investimenti nella modernizzazione agricola, nel secondo hanno rilievo gli investimenti nel turismo.
La fonte di questi dati e comparazioni è ufficiale: si tratta dell' "Aggiornamento della valutazione intermedia del Quadro Comunitario di Sostegno 2000-2006", licenziato nel novembre 2006 dall'Unità di valutazione del DPS (Dipartimento per le Politiche di Sviluppo, Ministero dello Sviluppo economico), e resa disponibile sul sito di quest'ultimo dal gennaio 20071.
Gli scarti di valore sopra riportati sembrano suggerire che, nel caso dei progetti integrati, la composizione degli investimenti pubblici sia più sensibile al fatto che ci si trovi in un'area protetta. Lo affermano, sia pure con cautela, gli autori della valutazione: «Si può constatare, anche sulla base dei soli dati di monitoraggio, che laddove vi sono PIT con tema ambientale la composizione e le tipologie di interventi in via di realizzazione assumono un profilo più specifico»2.
Questa osservazione ha per me un particolare significato. Non penso che sia la cornice dei progetti integrati come tale a fare la differenza: i progetti integrati sono una modalità di spesa pubblica le cui caratteristiche positive sono numerose, ma i cui limiti applicativi sono pure tutt'altro che trascurabili (DPS 2006b). A mio parere quei casi sono invece indizi di un altro fatto: che in quella cornice si creano maggiori possibilità (che alcuni parchi riescono a cogliere) di orientare le scelte delle coalizioni territoriali. Il merito va riconosciuto a dispositivi di decisione collettiva di tipo deliberativo (Cersosimo e Wolleb 2006) mediante i quali, usando le armi del confronto, della razionalità discorsiva e del contributo progettuale, i parchi riescono ad esercitare una maggiore influenza. Non va dimenticato infatti che, nella situazione ordinaria, ogni ente locale candida in competizione con gli altri le proprie idee progetto e concorre all'assegnazione delle risorse senza passare per il filtro di un coordinamento. Le scelte che essi esprimono sono meno allineate ai valori e alle priorità del parco, perché questo è un risultato da conquistare più che un dato che si propone spontaneamente. Penso sia questo il motivo per il quale, al di fuori di quella particolare (e largamente perfettibile) forma di coordinamento locale che sono i progetti integrati di sviluppo locale, i parchi si riempiono più facilmente di progetti poco finalizzati, diretti ad ammodernare le aziende agricole più che a promuovere servizi di fruizione o di educazione ambientale.
Scelte recenti
Se questa osservazione è fondata, essa si collega a una quantità di questioni delicate: come rafforzare il ruolo dei parchi nell'economia dei territori; quali opportunità hanno i parchi per contare di più; quali sono le capacità e le funzioni per riuscirci. Per illustrare come possono essere diverse le risposte a tali questioni, vorrei evocare un altro episodio della storia della politica regionale degli ultimi anni.
Questa politica, a partire dal 2000, ha indirizzato molte risorse finanziarie alla rete ecologica e alle aree protette, scegliendo di attribuire principalmente alle Regioni la decisione su come esse dovevano essere investite nel rispetto di indirizzi e criteri generali. Nel 2004, in sede di valutazione intermedia del ciclo di programmazione, si è giudicato insufficiente quanto era stato realizzato, e, allo scopo di migliorare le cose, si è affermato che da quel momento in avanti sarebbe stato prioritario in tutte le regioni:
emanare la legge regionale sulle aree protette e individuare il sistema delle aree protette regionali;
riconoscere formalmente i siti Natura 2000;
istituire le aree protette e individuare gli enti di gestione; predisporre gli strumenti di pianificazione a livello di singola area;
concentrare gli interventi negli ambiti territoriali che rappresentano i nodi della rete ecologica (aree protette e siti Natura 2000);
attuare le misure di conservazione dei siti Natura 2000 mediante appropriati piani di gestione, secondo le Linee guida emanate dal Ministero dell'Ambiente.
Il ragionamento, a me pare, può essere stato grosso modo il seguente: occorre contenere e al limite far cessare la dispersione delle risorse finanziarie destinate alla rete ecologica al di fuori dei siti riconosciuti e, soprattutto, occorre impegnarsi con maggiore determinazione sul fronte delle norme e dei piani. Bisogna che le Regioni rispettino la sequenza secondo la quale prima si norma e si regola, dopo si progetta l'intervento di sviluppo.
Come ho già avuto modo di commentare (Natali 2005b), questa revisione ha significato riorientare risorse già rese disponibili per le comunità residenti nei territori protetti, e in particolare per lo sviluppo di sistemi produttivi legati alla presenza dei parchi, a favore dell'implementazione della politica di conservazione. Nulla di nuovo, in verità. In altri casi la programmazione della politica regionale di sviluppo si è fatta carico di ritardi e inefficienze di politiche di settore, usando le proprie risorse finanziarie come incentivo a fare ciò che la legge prescriveva ma si continuava a non fare. Gran parte della premialità del QCS 2000-2006 ha avuto questo scopo, e, tra le altre cose, è riuscita a sbloccare in tutte le regioni meridionali la creazione delle Agenzie Regionali per l'Ambiente, che a fine anni Novanta quasi ovunque nel Sud non esistevano (DPS 2006a).
Chiarito che nulla di inedito s'è fatto in questo caso, vorrei discutere la logica della revisione. E' vero che fare le leggi e i piani favorisce (o, in versione più forte, è precondizione di) un uso più incisivo ed efficace dei fondi per lo sviluppo? E' sensato, a questo fine, concentrare le risorse nei nodi della rete e dare priorità ai piani di gestione? Mi permetto di dubitarne. Se lo scopo è creare nuovi tipi di economie, o, in concreto, lo sviluppo di servizi privati a basso impatto ambientale e alto contenuto di conoscenza, ciò che serve è investire nella cura delle risorse e in servizi pubblici funzionanti (i beni pubblici, appunto, di cui tanto si parla), e soprattutto, con molta più convinzione, in formazione, apprendimento, diffusione di competenze tecniche, incremento delle capacità organizzative, usando a tal fine tutti i mezzi adatti al compito nel tempo più rapido possibile. Non mi par questa la prospettiva privilegiata da chi richiama l'attenzione sulle leggi, i piani territoriali e i piani di gestione, benché riconosca - come non potrei? - che si tratta di provvedimenti importanti, e per di più dovuti.
La questione delle competenze
Il senso d'un arretramento possibile, e da evitare, a me sembra in sostanza piuttosto forte. Ma arretramento rispetto a cosa? Negli ultimi quindici-vent'anni (gli stessi di questa Rivista, nata nel 1990) si è ragionato in modo via via più serrato attorno alla promozione dello sviluppo nelle aree protette. Questa discussione ha avuto a mio parere un punto focale: la necessità di fornire ai parchi intesi come aree e comunità, più che come enti, le conoscenze necessarie per progettare un modello di sviluppo coerente con la tutela, e per contrastare con successo gli attacchi dei modelli incoerenti. Si è sostenuto cioè che occorre accumulare "da qualche parte" - presso gli enti parco, o presso altri enti locali - la capacità di svolgere analisi e articolare proposte, agendo non solo di rimessa.
L'approccio si fa strada con vivacità alla fine degli anni Ottanta, in un clima reso animato da studi su casi concreti. In vari ambiti territoriali (Parco Nazionale d'Abruzzo, Parco Regionale dei Sibillini, ed altri) si comincia a dire che sarebbe stato utile smontare le false promesse che gli speculatori edilizi facevano alle comunità locali dell'Appennino, argomentando sul piano della razionalità economica prima ancora che sul piano della conservazione; dimostrando cioè che i flussi di benefici generati dagli investimenti non avrebbero determinato alcuna svolta nel benessere locale perché i profitti estratti dall'attività sarebbero andati a Roma o a Milano, non ai paesi del parco. O che sarebbe stato bene spiegare, con buoni e documentati ragionamenti, che la perdita di valore delle risorse naturali conseguente agli interventi distruttivi avrebbe significato perdita di attrattività, e che questo sarebbe stato pagato molto caro dalle comunità locali in termini di riduzione dei flussi futuri di reddito, oltre che di degrado ambientale.
Favoriva questo tipo di riflessione, l'intento di alcuni ambientalisti di rinnovare il proprio linguaggio e stabilire nuove alleanze. Fa parte dei miei ricordi personali il fatto che tra 1985 e il 1987 l'associazione Italia Nostra, guidata da Giorgio Luciani e Gianluigi Ceruti, e la società di studi economici Nomisma di Bologna, presero a dialogare intensamente tra loro e progettarono di svolgere insieme un programma di studi diretto a dimostrare la convenienza anche economica di tutelare la natura e il patrimonio culturale (Brusco 1987). Si trattava, da parte di Italia Nostra, dell'esigenza di esplorare strade nuove di costruzione del consenso, oltre che di ottenere il riconoscimento giuridico delle proprie istanze (progetto pure perseguito con decisione, giacché, come tutti i lettori di "Parchi" sanno, Gianluigi Ceruti ha avuto ruolo trainante nel varo della legge quadro nazionale sulle aree protette nel 1991). Poco dopo anche il WWF Italia manifestò esigenze simili e commissionò uno studio per valutare l'impatto economico del Parco Nazionale d'Abruzzo sulle comunità locali (Nomisma 1989). Nella mia regione, l'Emilia-Romagna, le amministrazioni locali si ponevano sotto altra prospettiva problemi analoghi. La Provincia di Ferrara, per esempio, era determinata a usare la carta del Parco Regionale del Delta del Po per sostenere l'economia della metà orientale del proprio territorio, ove l'industrializzazione non era mai arrivata, e si interrogava sulla fattibilità di un'agenzia di sviluppo del Delta collegata all'ente parco, dedicata a promuovere la riduzione degli impatti agricoli e la conversione al biologico, la fruizione del fiume e delle valli, l'offerta di servizi capaci di attirare il turismo verde (una ricostruzione è in Natali 2005a).
Anche attraverso questi pochi cenni, è possibile percepire che tipo di fermento caratterizzasse quel periodo. Da molte parti si puntava a rendere gli argomenti della conservazione più forti usando il linguaggio dell'economia, ci si interrogava sulla creazione di istituzioni capaci di agire in modo mirato, luogo per luogo, a favore di percorsi di produzione di reddito compatibili con la tutela. Accrescere le competenze economiche a disposizione dei parchi e degli intenti di conservazione, era considerato in questo quadro la questione più importante, la priorità da perseguire.
La stagione degli accordi
Negli anni successivi sono intervenuti cambiamenti che hanno confermato, a mio parere, la centralità della questione delle competenze. Due, in particolare. Uno è stato il dilagare della cosiddetta "amministrazione per accordi", che progressivamente si impone come modalità ordinaria di attuazione delle politiche pubbliche per trattare la crescente segmentazione e, insieme, l'interdipendenza dei centri di decisione. Essa prevede che una pluralità di attori istituzionali, portatori di interessi pubblici differenziati, si incontrino su un piano di coordinamento orizzontale, non gerarchico, e trovino il modo di assumere decisioni condivise.
L'altro cambiamento è stato lo sviluppo, impetuoso nella seconda metà degli anni Novanta, della programmazione negoziata, una modalità con la quale l'incontro di interessi tra pubblico e privato viene previsto, organizzato, normato allo scopo di conseguire risultati più rilevanti in vari tipi di situazioni: talvolta si tratta di recuperare disagi sociali gravi, ambiti in crisi (contratti d'area); talvolta di amplificare le esternalità positive di grandi investimenti industriali (contratti di programma); talvolta di stimolare il coordinamento di investimenti pubblici e iniziative imprenditoriali private nell'ambito di un accordo locale per lo sviluppo (patto territoriale).
L'amministrazione per accordi da un lato, e la programmazione negoziata dall'altro, hanno cambiato profondamente l'ambiente istituzionale. Ne sono stati investiti il modo di funzionare dei singoli enti, l'esercizio del governo, la rete delle relazioni rilevanti per la gestione del potere pubblico in numerosi ambiti. Gli accordi sono diventati il modo ordinario con cui le istituzioni si rapportano tra loro e costruiscono i loro piani d'azione, in una varietà di settori: dall'ambiente, al territorio, all'industria, al welfare (Bobbio 2000). La programmazione negoziata ha segnato in profondità le politiche di sviluppo attirando crescenti finanziamenti, e ispirando nuove modalità di attuazione dei programmi pubblici (per esempio i progetti integrati di sviluppo locale, di cui ho già parlato).
Per tutti gli attori pubblici, enti parco inclusi, le arene di confronto e di coordinamento alle quali partecipare e a cui fornire un contributo si sono moltiplicate. Per gli enti parco, in particolare, si è creata la possibilità di esercitare un'influenza su una varietà di tavoli di concertazione, facendo valere il proprio punto di vista o provando a imbastire alleanze, su un terreno di indirizzo, di scelta e di proposta. Nel contesto negoziale la capacità di indicare percorsi in positivo si è imposta come una risorsa cruciale. Ecco perché il tema delle competenze è diventato ancora più importante. Moltiplicate le sedi in cui interagire, e le opportunità di farlo con efficacia, i parchi si sono trovati a fare i conti con la loro effettiva capacità di esserci e di contare.
(E, sia detto per inciso, le sedi sono davvero tante. Si pensi al fatto che nell'arco di pochi anni, anche nei territori marginali, si sono avuti, variamente sovrapposti: il Gruppo di Azione Locale del programma Leader, e poi Leader II e Leader Plus; il contratto d'area; il patto territoriale generalista, quello per l'occupazione, quello per l'agricoltura; il PRUSST; il progetto integrato territoriale della programmazione europea 2000-2006. Le competenze per interagire su questi fronti appaiono essenziali, anche per non scomparire dalla scena degli attori rilevanti e trovarsi subordinati ad alleanze avverse.)
Spunti sul (possibile) futuro
Che cosa ci si può aspettare nei prossimi anni? Il pluralismo dei centri di decisione, il coordinamento tra amministrazioni, l'approccio contrattuale e negoziale all'implementazione delle politiche, appaiono destinati ad accompagnarci a lungo. Azioni pubbliche importanti continueranno a declinarsi al livello della regione e del sistema locale, per tenere conto delle disomogeneità dei contesti territoriali e delle concrete condizioni di successo delle scelte. E' forse da aspettarsi (e da augurarsi) una maggiore capacità di scelta strategica nazionale, o, in certi campi, già più europea che nazionale, ma la dimensione della progettazione e della cooperazione amministrativa su base territoriale, continuerà ad essere importante. Di conseguenza resterà, per i parchi, l'esigenza di dialogare con altre istituzioni, investendo, a questo scopo, nelle competenze e nelle capacità necessarie.
In questo scenario appaiono possibili due evoluzioni, in grado di aprire nuove finestre di opportunità per i parchi.
La prima. Sul piano dei modelli, la sperimentazione ormai lunga del decentramento e dell'amministrazione per accordi a livello regionale e locale, ha reso assai più consapevoli che l'implementazione delle politiche corre il rischio del localismo; che le decisioni, cioè, vengano prese sulla base di riferimenti e di quadri di analisi ristretti se non autoreferenziali, eccessivamente focalizzati su fattori interni e invece poco sensibili alle dinamiche esterne, alle esigenze di adeguamento che pongono e alle opportunità che creano. Nel campo della politica di sviluppo, il localismo è particolarmente dannoso in quanto impedisce di riconoscere i vantaggi comparati di cui le aree godono, e di trarne conseguenze coerenti. Emergono allora temi quali l'apertura verso le reti globali della conoscenza, il coinvolgimento di centri di competenza specializzati, l'aggancio a standard di servizio codificati (se ne discute ampiamente nella bozza di Quadro Strategico Nazionale 2007-2013: cfr. DPS 2006d). Sono temi che s'annunciano difficili da trattare, perché si tratta di mettere in moto intenzionalmente quel processo di conversione e integrazione di conoscenze locali e globali, di cui da tempo si discute nella letteratura sui distretti industriali (Becattini e Rullani 1993; Becattini 1998). I sistemi locali virtuosi convertono e integrano conoscenza spontaneamente, grazie a forte interscambio con l'esterno e forte capacità di riorganizzarsi. I sistemi locali che non lo fanno da soli devono imparare, e in che modo possono riuscirci non è affatto chiaro.
In sé il tema non è nuovo. Recuperando altri ricordi del passato, potrei rammentare una riunione a cui partecipai a Gargnano dieci anni fa, in occasione dell'istituzione della Fondazione Valerio Giacomini. Già allora si discusse dell'idea di un ente parco attrezzato a fare da "antenna" verso l'esterno per immettere nel sistema locale conoscenze e modelli che il locale non possiede ma di cui ha bisogno (Natali 1997). Rispetto ad allora, tante cose sono cambiate. Oggi è molto più forte e condivisa l'esigenza di avere istituzioni-antenna, istituzioni-ponte tra mondi diversi. Quando si discute di governance multilivello - cosa ormai sempre più frequente - si sta dicendo che occorre istituzionalizzare canali di connessione verticale che facciano circolare contenuti dal locale al globale, dalla periferia al centro, e viceversa. Riletto e ridetto col linguaggio e le categorie di oggi, è, in fondo, il tema di allora.
La seconda finestra di opportunità riguarda un tema che potrebbe maturare di qui a poco. (Meno probabile del precedente, esso appare destinato ad affermarsi se potrà raccogliere l'impegno di chi ne riconosce la validità.) Si tratta dell'esigenza di collocare gli accordi tra enti pubblici, ed il rapporto negoziale tra pubblico e privati - fenomeni che, come si è detto, sembrano destinati a proseguire e, forse, a rafforzarsi - entro cornici cognitive più strutturate e dense di informazioni di interesse collettivo, rese disponibili da istituzioni "terze" responsabili della loro formazione e delle attività che portino al loro riconoscimento da parte dei diversi soggetti in campo. Tali quadri di conoscenze non sarebbero gettati nella contrattazione, nel gioco negoziale, ma agirebbero sulla consapevolezza condivisa delle condizioni entro le quali quel gioco si sviluppa. Curare questo aspetto sarebbe di fondamentale importanza. Promuoverebbe un processo di accumulazione di conoscenza collettiva a beneficio di tutti i giocatori, allo scopo di aumentare il grado di razionalità complessiva delle scelte. L'arena negoziale su base territoriale locale continuerebbe ad avere importanza: per allineare le preferenze, coordinare le decisioni, integrare le azioni pubbliche e private. L'istituzione "terza" avrebbe in più il compito di modellare le prospettive e i termini dell'interazione, e in parte riorientare le istanze. Un modello di questo tipo è prefigurato dall'Europa nella direttiva 2060 sulle acque: il meccanismo di partecipazione pubblica che viene proposto, prevede che coloro che partecipano si riconoscano reciprocamente e riconoscano le condizioni da rispettare per la riproduzione del bene comune3. I parchi, oltre a interrogarsi sulle necessarie "connessioni di rete" tra locale e globale di cui ho detto al punto precedente, potrebbero confrontarsi anche con questa dimensione. Chiedersi cioè che cosa significherebbe essere, nei rispettivi territori, istituzioni terze che costruiscono il quadro delle condizioni da rispettare per fare economia: condizioni di riproduzione delle risorse naturali, e, insieme, di riproduzione delle capacità economiche idiosincratiche ai territori (con radici nella storia, nella cultura materiale e il sapere di lunga formazione). E' possibile che in futuro una prospettiva simile si affermi? Con quali implicazioni sul piano delle prassi e degli strumenti? Difficile dirlo, ed io certamente non sono in grado di dirlo. Posso solo riaffermare il punto affinché ci si ragioni attorno: come incardinare la politica di sviluppo locale nei parchi non in una negoziazione tra interessi entro un quadro di vincoli ambientali (come all'incirca accade ora), ma in un processo di partecipazione pubblica fondato su condizioni-obiettivo condivise di riproducibilità delle risorse naturali e umane.
Bibliografia
Bagnasco A. (2006), Imprenditorialità e capitale sociale: il tema dello sviluppo locale, in Stato e mercato, n. 78,
Becattini G. (1998). Distretti industriali e made in Italy, Bollati Boringhieri
Becattini, G., Rullani, E. (1993) Sistema locale e mercato globale, in Economia e politica industriale, n. 80
Bobbio L. (2000), Produzione di politiche a mezzo di contratti nella pubblica amministrazione italiana, in Stato e mercato, n.58, aprile
Brusco S. (1987), Quanto può rendere il patrimonio ambientale e artistico del Bel Paese (intervista), in Airone, gennaio
Brusco S. (2004), Industriamoci. Capacità di progetto e sviluppo locale, Donzelli
Cersosimo D e Wolleb G. (2006), Economie dal basso, Donzelli.
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Natali A. (1997), Il parco come sistema produttivo locale, in Uomini e parchi oggi. Ricordando Valerio Giacomini, Atti del convegno di Gargnano del 30 maggio - 1 giugno 1996, a cura di: Coordinamento nazionale dei parchi, Regione Lombardia, Comunità montana Parco Alto Garda Bresciano
Natali A. (2005a), Risorse naturali e sviluppo: i saperi e le regole, in Economia e Società Regionale, n. 4. in www.eco-eco.it
Natali A. (2005b), Aree naturali e politiche di sviluppo, in Parchi n.45
Nomisma (1988), Parco naturale ed economia locale: il caso del parco nazionale d'Abruzzo, Rapporto per il WWF Italia.
Pichierri A. (2003), Tesi sullo sviluppo locale, in Studi Organizzativi, n.3
Trigilia C. (2005) Sviluppo locale, Laterza.
Anna Natali
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