Federparchi
Federazione Italiana Parchi e Riserve Naturali


PARCHI
Rivista della Federazione Italiana Parchi e delle Riserve Naturali
NUMERO 51 - GIUGNO 2007



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Le mani sui parchi

Quando la politica, che nella sua espressione più alta è il motore della gestione democratica di un territorio, diventa mera spartizione di potere. Piccolo viaggio tra le distorsioni di un sistema di governance delle aree naturali protette che in Italia rischia di soffocarle.

La politica e i parchi. Più che un matrimonio obbligato, quasi un incesto. La politica, secondo la consueta definizione scolastica, è l’arte di governare le società. Quanto ai parchi, esprimono una forma di gestione territoriale volta a comporre democraticamente gli interessi locali e quelli generali sulla base di particolari risorse innanzi tutto naturalistiche presenti in un territorio, straordinarie appunto perché fuori dall’ordinario. E “comporre interessi” vuol dire fare politica, anche se sulla porta dell’ufficio o sulla carta intestata c’è un airone oppure una campanula.
Basta scorrere la rassegna stampa quotidiana riportata su Parks.it per leggere di polemiche tra Comuni per la sede del parco o di “crociate” verdi per una nomina a presidente o a consigliere di un’area protetta. Non solo non ci scandalizza ma ci pare auspicabile, se davvero si lavora per la piena integrazione dei parchi nella società e nelle istituzioni. D’altronde è stata la stessa legge quadro nazionale sulle aree protette, la 394/91, a fondare la sua lungimirante – e oggi possiamo definire anche fortunata, perché coronata da successo – scommessa proprio sul coinvolgimento pieno delle istituzioni, tanto centrali che locali, nel disegno di tutela delle risorse naturali più importanti del Paese. Di più. Ci appare un gradino importante nella scalata dei parchi alla piramide dei valori e dei patrimoni collettivi l’entrata in scena di attori finalmente di tutti gli orientamenti culturali e politici. Perché le primogeniture è giusto rivendicarle, ma alla causa serve molto di più trovare nuovi alleati che celebrare tra pochi intimi sempre gli stessi e pure sbiaditi successi. Dunque nelle pagine che seguono parliamo d’altro. Del tentativo, cioè, di trovare anche ai parchi un banco nel mercato della politica. Di come un’occhiuta sete di poltrone dei partiti cerchi d’infiltrarsi nei consigli direttivi scavando tra le interpretazioni degli articoli di legge, gli aggettivi non perentori, le precisazioni omesse dai legislatori. Di quella pessima pubblicità ai parchi che, non certo per colpa loro, i due principali quotidiani italiani hanno nei mesi scorsi generato con articoli dal titolo “Spoil system negli Enti Parco” (Corriere della Sera, 6 maggio) e “Ma come sono verdi i direttori dei Parchi” (La Repubblica, 24 aprile).
“La politica ha seri doveri nei confronti dei parchi, non certo quello di piazzare amici e nemmeno di lasciarli senza soldi”, dice Renzo Moschini, “ma neppure di decidere cose che è meglio che decidano i parchi, come ad esempio direttori e vigilanza. Dovrebbe soprattutto capire che la gestione e la politica dei parchi è responsabilità concorde delle istituzioni e non di questo o quello schieramento politico. Da questo punto di vista oggi nessuna forza politica ha del tutto le carte in regola”.

I presidenti
I parchi nazionali in Italia sono governati da un ente parco, dove un presidente nominato dal Ministro dell’Ambiente ma gradito alle Regioni coinvolte guida un consiglio direttivo di dodici persone. Contrariamente ai consiglieri, al presidente non è richiesta per legge nessuna particolare qualifica in materia di conservazione della natura. A chi di dovere non è sfuggita la svista e tra i casi più memorabili è possibile citare notai, costruttori, ex-parlamentari o consiglieri regionali o provinciali, imprenditori turistici, coordinatori locali di partiti, dirigenti sportivi – in alcuni casi tuttora in carica - tutti appunto rigorosamente privi di quelle provate esperienze e attitudini che consentono la guida efficace di un parco nazionale.
Veri rimedi non sembrano essercene, ma per almeno infittire le maglie Federparchi ha detto ufficialmente la sua: nel corso di un’audizione richiesta dall’associazione presso la Commissione Ambiente della Camera, nello scorso aprile, il presidente Matteo Fusilli ha chiesto che come per i membri del consiglio direttivo anche per i presidenti venga pretesa (almeno dalla legge) la comprovata esperienza in materia di tutela ambientale, da documentare con la presentazione di curriculum e titoli. Federparchi ha chiesto anche l’introduzione di criteri di incompatibilità tra il ruolo di presidente e altre cariche istituzionali – come già avviene in molte leggi regionali – quali il parlamentare europeo e nazionale, consigliere regionale, sindaco e assessore comunale, presidente e assessore provinciale, presidente e assessore di comunità montana, appartenente alle Forze Armate.
Qualità che la legge non può proprio specificare, ma non per questo meno utile a interpretare il ruolo, sarebbe poi l’autorevolezza. “Il presidente di un parco nazionale deve avere carisma, eccome se lo deve avere, e poi anche un direttore che non faccia scherzi”, dice uno che se ne intende e cioè Fulco Pratesi. “Se un presidente ha carattere come all’Arcipelago toscano aveva dimostrato di avere Giuseppe Tanelli”, aggiunge Umberto Mazzantini, esponente di spicco di Legambiente, “le decisioni si prendono e semmai a uscirne ridimensionato è il direttivo, ridotto al ruolo di camera di compensazione”.
E poi meglio del posto o venuto da fuori? Per l’attuale Ministro Pecoraro Scanio il punto sembra essere irrilevante. Si va dal romano Mario Tozzi, paracadutato all’Elba dagli schermi Rai, a Fausto Giovanelli che il suo più recente (e forse principale) viatico l’ha ricevuto sul suo Appennino tosco-emiliano dall’”aquila di Ligonchio”: siamo felici che finalmente il presidente del parco, gli ha detto in faccia Iva Zanicchi nel corso di una manifestazione locale di fine maggio, sia tu e cioè uno di noi, un montanaro.

I consigli direttivi
Qui gli estensori della legge 394 s’illudevano di essere stati più chiari. Ricapitoliamo in breve, e ci scuserà un pubblico perlopiù di addetti ai lavori. Il direttivo, e parliamo sempre di parchi nazionali, è formato dal presidente e da dodici componenti nominati dal Ministro, sentite le Regioni coinvolte. Questi dodici consiglieri vanno scelti, prosegue la legge, “tra persone particolarmente qualificate per le attività in materia di conservazione della natura o tra i rappresentanti della Comunità del parco”. Così sancendo quel matrimonio, tra ambientalisti e istituzioni, che è poi l’indicazione più stringente della 394. Delle due l’una, infatti: si può essere nominati consiglieri se si fa parte della Comunità del parco oppure se si ha un provato curriculum di difensori della natura. E in nessun altro caso. Insomma, le designazioni spettanti alle università e agli altri enti di ricerca (come il Cnr, l’Uzi, la Sbi, l’Accademia dei Lincei – tutte peraltro mai rappresentate, a beneficio delle sole università) e quelle spettanti al Ministro dell’Agricoltura e al Ministro dell’Ambiente dovrebbero rispettare quella pre-condizione. Ma le cose vanno davvero così?
Intanto precisiamo qualche piccolo dato, per esempio sulla frequenza delle convocazioni dei consigli direttivi: varia naturalmente da ente ad ente, dipendendo da numerosi fattori, ma mediamente le riunioni si svolgono una volta o due al mese. Ai consiglieri è riconosciuto un gettone di presenza di poche decine di euro. Nonostante ciò, e nonostante la partecipazione talvolta passiva di alcuni membri, è davvero raro che una convocazione - valida quando è presente la maggioranza dei consiglieri - vada annullata per le assenze. Dice ancora Mazzantini: “sedere al tavolo del direttivo di un parco nazionale è diventato un elemento di prestigio politico anche per il più distratto tra gli amministratori locali”.
Scorriamo la composizione del direttivo, scandita puntigliosamente dall’articolo 9 della legge. La compagine più numerosa è composta dai cinque nominati su designazione della Comunità del parco. Seguono tre coppie di consiglieri, designati rispettivamente dalle associazioni ambientaliste, dalle istituzioni scientifiche e dal Ministero dell’Ambiente: due consiglieri ciascuno. Infine, una designazione spetta pure al Ministero delle Risorse agricole.
Il drappello delle istituzioni locali è dunque il più numeroso ed anche il più complesso da trattare: lo facciamo più avanti. “Va detto subito, comunque”, aggiunge Mazzantini – forse l’ambientalista con la maggiore “anzianità di servizio” nel governo di un parco nazionale: infatti ha vissuto per intero la gestione Tanelli, poi quella prolungata del commissario Barbetti come consulente, quindi di nuovo consigliere col neopresidente Tozzi – “che se da parte degli amministratori locali c’è un grande sgomitare per entrare nel direttivo, poi quando ci sono dentro svolgono una funzione molto dimessa, sono quasi sempre a rimorchio. L’unico all’Arcipelago che svolgeva una funzione molto critica era proprio Ruggero Barbetti, che stava chiaramente studiando da presidente. Gli altri seguivano la discussione se riguardava direttamente il territorio del proprio comune, altrimenti sembravano di passaggio”.
Poi ci sono i due consiglieri designati dalle associazioni ambientaliste, o meglio dalle associazioni di protezione ambientale individuate dal Ministero dell’Ambiente. E’ importante specificarlo poiché questo è un ulteriore varco utilizzato dai ministri per aumentare il proprio controllo sui direttivi dei parchi nazionali, oppure per gratificare esponenti politici locali. Come? Facendo cadere la propria scelta, poi sancita dal decreto di nomina, su esponenti di associazioni politicamente schierate oppure realmente poco attive sul fronte della conservazione della natura. E’ il caso qui di ricordare come in anni soprattutto recenti sia stato assegnato il patentino di “associazione di protezione ambientale” a soggetti come Lega Navale Italiana, Associazione Nazionale Energia del Vento, Associazione Nazionale Istruttori Subacquei, ASI-Alleanza Sportiva Italiana, Associazione nazionale Cacciatori dell’Appennino-URCA, Federazione Ornicoltori Italiani, Federazione italiana pesca sportiva e attività subacquee, L’Umana Dimora, Movimento Azzurro, Ekoclub International, Movimento italiano genitori-MOIGE, e molti altri. Associazioni che spesso non hanno come primo fine statutario la conservazione della natura, né molti iscritti almeno realmente tali, né che si distinguono per attività di chiara impronta ambientalista come possono essere considerate, ad esempio e probabilmente innanzitutto, azioni legali quali esposti su violazioni di leggi ambientali, costituzioni di parte civile, ricorsi ai Tar.
Come ricordato, due consiglieri vengono poi nominati su designazione delle istituzioni scientifiche: alla fine, delle università con sede nelle province nei cui territori ricade il parco. La legge specifica, ricordiamo di nuovo, che andrebbero scelti tra persone particolarmente qualificate non nella ricerca scientifica – che in questo caso sarebbe un’ovvietà – ma per le attività in materia di conservazione della natura. Proviamo a immaginare quali potrebbero essere, per un ricercatore: studi non solo conoscitivi ma con chiari risvolti gestionali, collaborazioni pregresse con enti parco o altri soggetti istituzionali, rapporti di consulenza e/o sostegno con associazioni ambientaliste, attività di educazione ambientale che esulino dagli stretti ambiti lavorativi. “La mia esperienza al parco della Maiella la definisco tutto sommato positiva”, risponde pacatamente a domanda Fernando Calamita, ordinario di geologia strutturale presso l’Università di Chieti e Pescara e nominato nel direttivo del parco nel 2002. “Per me era la prima volta e sono entrato in un mondo nuovo che non conoscevo, poiché non avevo precedenti contatti con i parchi. La mia presenza nel direttivo è rivolta semplicemente a far conoscere l’ambiente fisico della Maiella, su cui vanno a gravare tutti gli aspetti antropici. E posso aggiungere che l’ente è stato un po’ distratto su questi temi, mentre su altri come l’orso, i centri visita e molti altri ha fatto molto”. E’ possibile aggiungere un’altra riflessione sull’opportunità che tali designazioni vadano a cadere su esponenti del mondo universitario già investiti da ruoli rilevanti e impegnativi quali direttori di dipartimento o addirittura presidi di facoltà, come avviene ad esempio all’Appennino tosco-emiliano o alla già citata Maiella. Quanto tempo avranno a disposizione queste persone indubbiamente valentissime per occuparsi con profitto della vita complicata di un parco?
A completare la dozzina di consiglieri, come detto, vi sono infine i designati dai ministeri: due dall’Ambiente e uno dalle Risorse agricole, a testimonianza e sintesi del ruolo attuale e passato avuto dai due comparti nella piccola storia dei parchi italiani. Anche qui, repetita juvant, competenze in materia di conservazione sarebbero obbligatorie poiché non sostituibili dalla pur aulica carta intestata dei designatari. “Invece, fin da dieci anni fa, la scelta di assegnare quei posti in direttivo molto spesso ad amministratori del territorio è stata puramente politica”, sostiene Nino Martino, oggi direttore alle Dolomiti Bellunesi ma in passato con ruoli di primo piano prima al Wwf e poi presso la segreteria tecnica del Ministero dell’Ambiente. “Quelle tre rappresentanze dovevano essere a beneficio dei tecnici, nelle intenzioni del legislatore, e io lo so bene perché di quel gruppo di lavoro ho fatto parte. E questo ha cambiato gli equilibri, delicatissimi, che la 394 aveva descritto”.
Più che a tecnici competenti e magari opportunamente indipendenti, così, i tre incarichi quinquennali sono non di rado assegnati con criteri semplicemente lottizzatori. “Durante il mio mandato come presidente il Ministro Bordon nominò il rappresentante della Margherita a Salerno”, dice Giuseppe Tarallo, oggi Commissario al Cilento in attesa di conferma, “e dal canto suo il Ministro dell’Agricoltura piazzò un esponente dell’allora partito popolare”. L’ex Ministro Altero Matteoli – autentico campione, andrà pur detto, del malcostume politico che andiamo qui certo lacunosamente descrivendo - ha designato alla Maiella un medico, presidente provinciale dell’associazione Ekoclub, e al Gran Paradiso un imprenditore, presidente del Comitato locale “Acqua buona”. L’attuale Ministro delle Politiche agricole e forestali, Paolo De Castro, ha designato all’Arcipelago toscano un ex consigliere regionale Ds. E si potrebbe continuare, non senza chiarire – semmai ce ne fosse bisogno, sulla rivista dei parchi: che anzi è come sempre aperta al confronto e al dibattito con tutti, a cominciare dalla sua gente – che non si vuole qui sminuire l’apporto di nessuna componente sociale/professionale/politica alla costruzione di un sistema dei parchi realmente condiviso e radicato: ma solo dimostrare come alcuni dei criteri guida della legge nazionale sulle aree protette siano stati disattesi e da tutte le parti politiche. “Servirebbe un aumento della sensibilità politica”, osserva Fulco Pratesi, “e in particolare dell’attenzione da parte dei ministeri a proporre nominativi a volte inaccettabili”.
Ai consiglieri esistenti, o meglio alle categorie già così rappresentate, c’è chi propone e non da oggi di affiancarne di nuovi. “Secondo me, e lo sostengo da tempo”, dice Fabio Renzi, a lungo responsabile parchi di Legambiente e oggi segretario generale di Symbola-Fondazione per le qualità italiane, “sarebbe giusto inserire i rappresentanti del mondo dell’agricoltura e della pesca. Sono stati tra i protagonisti di una svolta e da iniziali avversari dei parchi oggi ne sono tra i principali alleati. Oltretutto, così le nostre politiche di tutela del paesaggio smetterebbero di essere solo difensive”. Sul coinvolgimento degli agricoltori nelle politiche delle aree protette l’esperienza più avanzata viene dall’Emilia-Romagna ed ha da poco registrato un importante risultato. “Nei mesi scorsi abbiamo finalmente ottenuto la sottoscrizione del primo accordo agro-ambientale previsto dalla nostra legge”, dice Enzo Valbonesi che guida l’Ufficio Parchi regionale, “che interessa il parco dei Sassi di Roccamalatina. Gli agricoltori locali, tra cui aziende di tutto rilievo come quelle che fanno il parmigiano, hanno siglato insieme alla Provincia e al parco questo accordo molto complesso, che prevede una serie di incentivi per loro ma che consente anche di fatto il raddoppio dell’area protetta, passata da mille a duemilacinquecento ettari. Ora anche altre realtà ci stanno pensando”. Questa è evidentemente un’altra storia, ma fa riflettere sulle opportunità – non solo i rischi – di legislazioni più flessibili e su quanto poco i parchi nazionali possano dirsi realmente rappresentativi del panorama italiano delle aree naturali protette, al contrario assai più vasto e variegato.

La Comunità del parco
Ce ne occupiamo qui, consapevoli della necessità di un’indagine ben più approfondita, in particolare sul ruolo che tale organo riveste per il funzionamento del consiglio direttivo. Vale a dire la designazione dei cinque membri che la legge le assegna di diritto in seno all’organo di governo del parco nazionale. Come recita l’articolo 10 della 394, a lei dedicato, la Comunità del parco è costituita dai presidenti delle Regioni e delle Province, dai sindaci dei Comuni e dai presidenti delle Comunità montane nei cui territori sono ricomprese le aree del parco. “E questa articolazione istituzionale dovrebbe essere il più possibile rappresentata nella cinquina di consiglieri designati dalla Comunità del parco”, dice Giuseppe Tarallo, “tanto più in un parco come il Cilento dove sono presenti qualcosa come ottanta Comuni. Così si costituirebbe un vero raccordo tra le istituzioni, e lo stesso dovrebbe valere per la giunta. Invece a prendersi tutti i posti sono i Comuni, e anzi nemmeno quelli per la precisione”. Già, perché la politica con la “p” minuscola ha trovato un’altra piega della legge ove infiltrarsi. Sta tutta nell’innocente formulazione dell’articolo 9, comma 4, punto a) che si limita a quantificare il numero dei designati dalla Comunità (appunto cinque) senza specificare l’ovvia opportunità che siano appunto espressione delle istituzioni locali. Così, in molti casi le designazioni avvengono ad appannaggio di sindaci, assessori o consiglieri comunali ma non in quanto tali, bensì in qualità di “persone particolarmente qualificate per le attività in materia di conservazione della natura”. Insomma, l’altra possibilità offerta dalla legge per entrare nel direttivo, come già ricordato in precedenza. Una scappatoia dalle maglie ben più larghe e che soprattutto mette al riparo i designati da ribaltoni elettorali localmente sempre in agguato. Infatti, visto che la Comunità del parco è un organo previsto dalla legge a rappresentanza degli enti locali e della Regione, il legislatore si è posto il problema della scadenza dei designati dalle proprie cariche pubbliche a seguito di un’elezione locale o regionale, e della conseguente mancata funzione di rappresentatività delle istituzioni democraticamente elette che invece motiva quella presenza in seno alla Comunità. Nel 1998, così, sette anni dopo la promulgazione della 394, il Parlamento ha chiarito meglio (con la legge 426/98). "Qualora siano designati membri dalla Comunità del parco sindaci di un comune oppure presidenti di una comunità montana, di una provincia o di una regione presenti nella Comunità del parco, la cessazione dalla predetta carica a qualsiasi titolo comporta la decadenza immediata dall'incarico di membro del consiglio direttivo e il conseguente rinnovo della designazione. La stessa norma si applica nei confronti degli assessori e dei consiglieri degli stessi enti”. Chiaro il concetto? Se si siede nella Comunità e si perdono le elezioni, si va a casa lasciando tutte le poltrone, anche quelle verdi. Ma c’è appunto chi non s’è arreso. “Da noi al Cilento è successo con due membri della giunta”, racconta Giuseppe Tarallo, “che nonostante non fossero più rappresentativi dei Comuni di appartenenza, perché passati in minoranza, restarono al loro posto poiché si erano fatti designare nel direttivo come esperti. Sono furberie che aumentano i conflitti, ostacolando non poco il funzionamento già difficile degli enti. Simili nomine da parte della Comunità potrebbero essere accettate in via eccezionale solo nel caso di una forte e riconosciuta competenza specifica del consigliere in questione”. “Sono escamotage che generano il rischio di uno scollamento fortissimo tra la rappresentanza e i rappresentati”, aggiunge Mazzantini. Che va anche oltre, riflettendo a voce alta sul ruolo e la composizione attuali della Comunità. “Io credo che oggi quest’organo non abbia più motivo di esistere, così com’è o è un doppione del direttivo oppure della Comunità montana. Vedrei bene invece una riforma che ridisegnasse un direttivo più snello, anzi magari sostituito del tutto da una giunta, che risponde dei propri misurabili risultati di gestione, e come organo di controllo una Comunità più forte con dentro anche gli ambientalisti. Lo devo dire, come ambientalista a volte adesso mi trovo invece in difficoltà ad esercitare un ruolo di governo quando dovrei averlo di controllo. La legge, lo sappiamo, è stata fatta per consentire l’istituzione dei parchi. Ma ora si potrebbe davvero cambiarla, tutto questo federalismo alla fine non funziona”.
Le Regioni
La governance delle aree protette è un tema che naturalmente non riguarda i soli parchi nazionali. Al contrario, le diverse legislazioni regionali lo affrontano nel consueto e inevitabile ordine sparso in ciascuno dei punti sopra toccati.
I requisiti di competenza per il presidente del parco, ad esempio, contrariamente a quel che accade – come visto – per i parchi nazionali sono previsti dalle leggi regionali vigenti di Campania, Toscana, Liguria, Basilicata, Valle d’Aosta. Anche l’incompatibilità della carica con le figure di parlamentare europeo e nazionale, consigliere regionale, sindaco e assessore comunale, presidente e assessore provinciale, presidente e assessore di comunità montana è ad esempio espressamente indicata dalle leggi toscana e calabrese.
Riguardo ai sistemi di gestione, alcune Regioni stanno lavorando a modifiche della propria legge quadro. E’ il caso del Piemonte, dove il disegno di legge della giunta – ormai da molti mesi al centro del dibattito locale – prevede tra l’altro l’accorpamento degli enti gestori da trentacinque a diciannove, in base a criteri geografici o tipologici, nonché il dimagrimento dei consigli direttivi composti ora da 4 rappresentanti degli enti locali più due di ambientalisti e agricoltori. E a superare la frammentazione attuale sta pensando anche l’Emilia-Romagna. “Intanto prima dell’estate riceveremo le proposte dei parchi, delle Province e del mondo scientifico e ambientalista circa la possibilità di istituire nuove aree protette”, dice ancora Enzo Valbonesi. “E’ un passaggio che prevede la nostra legge”. Qualche anticipazione per Parchi? “Nuove proposte riguarderanno il parco del Basso Trebbia, dalla confluenza col Po fino all’inizio della montagna, per iniziativa della Provincia di Piacenza d’accordo coi Comuni interessati. Poi ci sarà il raddoppio del parco dei Cento Laghi, per la porzione rimasta fuori dal Parco Nazionale dell’Appennino e soprattutto verso zone agricole. Ancora, prevediamo un ampliamento notevole della riserva del Trebbia e la sua trasformazione in parco, nonché l’istituzione di nuovi paesaggi protetti che potrebbe interessare anche il Delta del Po con il più volte auspicato collegamento tra le diverse stazioni del parco”. E le novità sulla gestione? “La nostra legge è servita a mettere in moto le Province, o almeno quasi tutte, e a smontare quelle opposizioni feroci ai parchi che provenivano in passato dalle associazioni agricole. Nei primi mesi del 2008 vogliamo aprire un dibattito sulla governance, riflettendo bene sul fatto se per parchi così piccoli come spesso sono i nostri vanno ancora bene i consorzi oppure è preferibile andare ad aggregazioni su scala provinciale. Questo non vuol dire affidare i parchi alle Province, ma ragionare su aggregazioni, reti provinciali e soluzioni possibili che superino l’attuale frammentazione. Quanto al Delta, bisognerà trovare il modo di dargli una forma di gestione più stabile, magari da ente, pensando alla prospettiva del parco interregionale”.

Accade in Campania
La stabilità può diventare una chimera in un parco di 178.172 ettari (pari cioè a più di mezza Valle d’Aosta) con ottanta Comuni, 560 km di perimetro (record assoluto nell’Italia dei parchi) e una popolazione residente di circa centomila persone disperse in nuclei abitati di piccola e spesso piccolissima dimensione. Se poi i partiti decidono di considerare l’area protetta alla stregua dell’ennesimo ente pubblico da espugnare, la missione si fa quasi impossibile. E la denuncia di Giuseppe Tarallo, prima sindaco ambientalista di un Comune del parco, Roccamorice, poi presidente del parco e ora commissario è dura e amareggiata. “Il mio consiglio direttivo è stato di fatto in ostaggio di una sola forza politica (la Margherita ndr), in cui si riconoscevano sei consiglieri su dodici. Quando un consigliere è purtroppo deceduto, il professor Mario Milone, e un altro ha lasciato il consiglio, Antonio Canu, è divenuta una maggioranza schiacciante. Stessa situazione in giunta, dove s’era tre contro due. E non si trattava del normale orientamento politico che tutti abbiamo (Tarallo ha dichiarate simpatie per i Verdi, ndr) bensì di un’impostazione partitica che ha condizionato la vita dell’ente, tendendo continuamente a delegittimare il mio ruolo di presidente”. Per esempio come? “Nell’ambito del Pit io approvo la realizzazione dell’intervento più rilevante, il Centro per la Biodiversità, in una località tra le più importanti dove il parco ha pure la sede, cioè Vallo della Lucania. E la maggioranza del consiglio me la boccia, solo perché quel Comune è amministrato da una giunta di centro-destra. Ancora. C’era il progetto Piccole Isole da approvare, un noto piano di ricerca coordinato dall’Infs sulle migrazioni ornitiche nel Mediterraneo, la cui approvazione era rinviata dalla giunta di seduta in seduta. Approfittando di un’assenza e quindi dell’inedita situazione di parità insistetti per farlo passare, finché mi chiesero se “erano amici miei”; in quel caso avrebbero votato a favore, per ottenere in cambio il mio assenso in una successiva occasione. Io naturalmente rifiutai, e approfittando del maggior peso che in caso di parità viene attribuito al voto del presidente il progetto passò”. Quali provvedimenti aiuterebbero ad impedire tali degenerazioni? “Per esempio la nomina diretta dei membri della giunta da parte del presidente. Almeno così si sceglierebbe lui la squadra con cui lavorare, sempre sottoponendosi al voto finale del direttivo. Se un presidente è messo in minoranza nel proprio parco, qualcosa non va. Lo abbiamo sempre detto come Federparchi: i parchi non sono di qualcuno, nemmeno di chi vince”.
In Campania l’esempio del Cilento non è isolato. Nella primavera scorsa, Il Mattino ha dato conto di un consiglio direttivo di un parco – quello regionale di Roccamonfina-foce del Garigliano – cambiato addirittura prima del suo insediamento. Al primo decreto di nomina di ottobre, infatti, ne ha fatto seguito un secondo a fine marzo che sostituiva i rappresentanti della Comunità montana, della Coldiretti e di Legambiente. Sulle nuove nomine, aggiungeva inoltre il quotidiano, c’è da registrare il ricorso al Presidente della Repubblica inoltrato dal Comune di Galluccio, il cui rappresentante è stato escluso dal direttivo.
A settembre dell’anno scorso, sempre in Campania, alcuni ambientalisti tra cui lo stesso Pratesi avevano scritto una lettera aperta al presidente della Regione, Antonio Bassolino, per segnalare lo stato di abbandono e involuzione della nascente “fantastica stagione dei Parchi”. Tra i motivi di fallimento, oltre a temi consueti quali l’inadeguatezza delle risorse economiche e di quelle strutturali dell’assessorato competente, al primo punto la missiva evidenziava “perplessità sulla presenza di un altro presidente, alla guida di un parco regionale molto importante, la cui inidoneità a tale nomina, ormai riconosciuta da tutti, è tale da aver bloccato qualsiasi iniziativa di conservazione e di promozione del territorio con danni notevoli alle popolazioni locali che nel parco avevano creduto fin dal primo giorno”. Il parco in questione è il Matese, lo straordinario massiccio appenninico situato tra Campania e Molise, abitato dal lupo e dall’aquila reale. “Purtroppo dalla giunta non è venuta alcuna risposta”, dice Maurizio Fraissinet, ispiratore e materiale estensore di quella lettera nonché ex presidente del parco nazionale del Vesuvio e già vice-presidente di Federparchi. “E questo è indice dello stato di crisi in cui verte la Regione Campania, con la giunta incapace di prendere atto dell’errore commesso su una persona la cui sostituzione è richiesta da un vasto movimento di cittadini e istituzioni locali. Questo amministratore siede al posto di comando del parco per essere passato da Forza Italia all’Udeur: un premio, insomma. In Italia trovare persone idonee a fare il presidente di parco non è certamente impresa facile, però ci sono limiti che non andrebbero valicati dalla politica”.
Fraissinet, che ha lavorato a lungo a fianco della giunta Bassolino proprio sul settore dei parchi, estende le sue considerazioni anche ai parchi nazionali. “Quando ero al Vesuvio le mie difficoltà in seno al direttivo erano soprattutto coi rappresentanti del Ministero dell’Ambiente e quelli delle istituzioni scientifiche. Della presenza di questi ultimi faticavo a comprenderne l’utilità, quando come presidente potevo richiedere in qualunque momento una consulenza scientifica sui temi più diversi: in ogni caso erano e sono figure spesso autorevoli, che quindi non danneggiano certo ma al contrario possono qualificare il lavoro di un consiglio. Quanto ai rappresentanti del Ministero dell’Ambiente invece non mi spiegavo proprio la necessità della loro presenza, visto poi che la scelta non cadeva su tecnici – magari istruiti con apposite linee guida ministeriali – ma su politici locali. Visto il sacrosanto controllo già esercitato a Roma su tutti gli atti amministrativi degli enti, quella presenza ulteriore risulta proprio incomprensibile”.

Accade nel Lazio

E’ ancora la politica dei partiti intesa come mera spartizione di potere, infine, a paralizzare da ben due anni un altro dei sistemi regionali di aree protette più importante e per certi versi innovativo, cioè quello laziale. Dopo i commissariamenti voluti dall’allora giunta di centro-destra guidata da Francesco Storace, accompagnati da modifiche alla legge quadro regionale e proposte di ridimensionamento delle aree ma pure da segnali contraddittori – come il considerevole aumento del personale – le elezioni regionali dell’aprile 2005 hanno portato al governo il centro-sinistra. Alla guida della coalizione vincente è Piero Marrazzo, che nel suo programma elettorale scriveva a chiare lettere che “i parchi sono stati interpretati come strutture “da occupare” sia in termini di organi di amministrazione, sia di personale”. Ventuno mesi e un mare di polemiche e duri bracci di ferro tra i partiti dopo, finalmente nella primavera scorsa sono arrivati i decreti di nomina che dovevano mettere la parola fine a un vero e proprio scandalo. Undici tra parchi e riserve di grande valore, dai Simbruini a RomaNatura, ciascuno guidato da un ente parco con presidente e consiglieri – specificherebbe la legge, figurarsi - “scelti tra persone che si siano distinte per gli studi e per le attività nel campo della protezione dell’ambiente”. L’articolo di legge della legge-quadro laziale, la 29/97 con successive modifiche, è il n.14. Sulla scelta del presidente del parco recita che viene effettuata “dal Consiglio regionale su una terna di nominativi proposti dalla Giunta regionale, sentiti i sindaci dei comuni ricadenti nel territorio dell’area protetta”. Ulteriori prescrizioni sono indicate per l’individuazione dei membri del consiglio direttivo, altre sei persone scelte tra i rappresentanti del Comunità del parco (tre), della Provincia, delle organizzazioni agricole, delle associazioni ambientaliste (uno ciascuno). Sulla scorta di un bando pubblico della Regione arriva una vera e propria valanga di autocandidature: più di mille persone hanno fatto richiesta per diventare presidente o al più consigliere di un parco o di una riserva naturale del Lazio. Più o meno cento ad ente, in media. Assieme a molti candidati senza requisiti si fanno naturalmente avanti anche gli esperti. Quando vengono rese pubbliche le terne dei potenziali presidenti, selezionati dall’attuale Assessore all’Ambiente Filiberto Zaratti (in un primo tempo era Angelo Bonelli, poi eletto in Parlamento), divampano le polemiche. Alla fine nell’elenco definitivo dei presidenti figurano personalità di riconosciuta competenza o impegno come Francesco Petretti (nominato alla guida di RomaNatura) e Paolo Piacentini (neopresidente ai Lucretili). Più sofferta la nomina all’Appia Antica di Adriano La Regina, uno dei più conosciuti e influenti soprintendenti archeologici d’Italia da poco in pensione, distintosi in passato per scontri durissimi proprio con l’ente parco ma alla fine personalità d’indiscusso valore. Anche sulle altre nomine la giunta ha assicurato in più occasione di aver operato la selezione seguendo esclusivamente i dettami della legge. Ha però destato scalpore tra gli addetti ai lavori, va pur detto, la non motivata esclusione non solo da quell’elenco di undici neopresidenti ma anche dalle terne iniziali di persone quali Giancarlo Paoletti, a lungo direttore del parco dell’Appia Antica e successivamente commissario al parco di Bracciano-Martignano, o Alessandro Bardi, già vicesegretario nazionale del Wwf Italia. Oppure, caso davvero clamoroso, quella di Maurilio Cipparone e cioè dell’ideatore prima e presidente poi dell’Agenzia regionale parchi della Regione Lazio (Arp), uno dei maggiori esperti di aree protette in Italia, da anni esponente degli organi direttivi della stessa IUCN.
Non solo, ma c’è chi ha ravvisato gravi irregolarità nell’iter amministrativo che ha portato ai suddetti decreti. “Sulle nomine dei presidenti si è arrivati al punto di cambiare il protocollo”, denuncia duramente Rodolfo Bosi dell’associazione Vas-Verdi Ambiente e Società, a lungo consigliere a Veio, “per consentire la nomina di una persona che non ha partecipato al bando. Riguardo ai consiglieri designati dalla Comunità, a Bracciano sono state ravvisate delle irregolarità per non rispondenza con i requisiti di legge. Quanto alle nomine degli ambientalisti posso citare il caso che mi riguarda, al parco di Veio, dove ignorando la designazione già effettuata dal precedente Assessore Bonelli è stata indicata un’altra persona”. Gli ambientalisti di Vas hanno pure puntato il dito sull’assenza dei requisiti di competenza previsti obbligatoriamente dalla legge per molti dei presidenti, compreso quello nominato al parco più importante del Lazio e cioè quello dei Monti Simbruini. Al momento in cui scriviamo (primi di giugno), i ricorsi presentati o in via di presentazione sono in tutto quattro. Uno è dello stesso Maurilio Cipparone, che nella sua richiesta di accesso ai documenti amministrativi si riserva di chiedere l’annullamento di tutti i provvedimenti. Altro ricorso è quello presentato da tre membri della Comunità del parco di Bracciano-Martignano, contro il decreto relativo a quel parco; inoltre si stanno aggiungendo due ricorsi da parte di alcune associazioni ambientaliste e cioè sicuramente almeno Vas per Veio e Italia Nostra e Vas per RomaNatura, per quanto riguarda i consiglieri designati dalle associazioni. Quando i lettori di Parchi leggeranno queste pagine, la vicenda emblematica dei parchi del Lazio – ed anche altre non meno cruciali, citate o meno in questo articolo - avrà avuto ulteriori e magari drastici esiti. Di fronte all’eventualità di riazzerare tutto si sono prevedibilmente registrate molte reticenze ed esitazioni, oppure proprio rispettabili contrarietà. Tutto da registrare in una modesta nota a piè di pagina, al più, nel prossimo voluminoso rapporto sulle difficoltà dei “paradisi naturali di casa nostra”? Ma perché mai molti parchi in Italia, affidati a simili cure, dovrebbero decollare?

Giulio Ielardi