Il Patrimonio Mondiale dell'Umanità rappresenta il legame tra passato e presente e, come tale, aggrega il senso di identità individuale e collettiva favorendo la coesione sociale.
Il patrimonio culturale e naturale di un popolo è la memoria vivente della sua tradizione e rafforza le fondamenta sulle quali la società costruisce il proprio futuro. Ne fanno parte luoghi tanto unici e tanto diversi come le regioni selvagge del Serengeti nell'Africa orientale, la Grande Barriera Corallina in Australia, le Piramidi egiziane, le cattedrali barocche dell'America Latina, la laguna di Venezia e aree vaste e significative del nostro paesaggio culturale come il Parco Nazionale del Cilento e Vallo di Diano, il Villaggio Nuragico di Barumini, la Costiera Amalfitana. Ciò che rende eccezionale il concetto di Patrimonio Mondiale dell'Umanità è la sua applicazione a livello universale. I siti del Patrimonio Mondiale appartengono alle popolazioni del mondo, indipendentemente dal territorio in cui si trovano.
L'Organizzazione delle Nazioni Unite per l'Educazione, la Scienza e la Cultura (UNESCO) promuove l'individuazione, la protezione e la conservazione del patrimonio culturale e naturale nel mondo, di straordinario valore per l'umanità, attraverso la "Convenzione per la Protezione del Patrimonio Mondiale Culturale e Naturale", adottata dall'UNESCO nel 1972.
Oggi 176 Stati hanno ratificato la Convenzione che è divenuta uno degli strumenti più condivisi e invocati in occasione di rischi e pericoli di distruzione del nostro patrimonio ma anche strumento di grande successo, per la incessante richiesta di inserimento nella lista, tanto da divenire oggi uno strumento da ripensare e rilanciare rispetto alla necessità di interagire con la crescita di consapevolezza del grande ruolo del patrimonio per la società. Non si tratta solo di difendere il passato, ma di farlo in modo che sia compatibile con un tipo di crescita che rispetti e non sfrutti le risorse dell'umanità e della natura. Preservare il nostro patrimonio culturale è essenziale per almeno due motivi: per il suo valore universale storico ed estetico e per l'importanza che assume per le società e le culture che ne sono custodi.
Dobbiamo aprire le vie della comunicazione, condividere informazioni, proteggere e preservare la proprietà culturale e promuovere il dialogo tra coloro che non sono ancora coinvolti. Viviamo in un solo mondo e nessun problema è esclusivamente dell' "altro". Gli eventi ci hanno reso testimoni di spettacolari e drammatiche distruzioni, dimostrando con chiarezza come l'eredità di alcuni possa divenire l'obiettivo simbolico di aggressioni, incomprensione e rifiuto.
La protezione del patrimonio, la sua rappresentazione e trasmissione alle future generazioni sono dunque imperativi etici, inseparabili dal rispetto per la dignità della persona umana e dal desiderio di vivere insieme da parte di individui e gruppi con differenti identità culturali.
La nostra nuova responsabilità è di sforzarci di capire e riflettere più a fondo sull'uso fatto dell'eredità culturale, per rafforzare il nostro desiderio di vivere in pace. Gli ultimi anni del ventesimo secolo ci hanno insegnato a riconciliare universalità ed identità nel nostro approccio al patrimonio comune dell'umanità. Oggi siamo di fronte ad una nuova sfida: fare della diversità uno strumento di dialogo e comprensione.
Come i siti dichiarati dall'UNESCO patrimonio mondiale dell'umanità, altre aree d'eccellenza come le aree naturali protette vivono di fatto la stessa fase di transizione.
Da luoghi di conservazione e tutela a simbolo di nuovi modelli di economia e creatività.1
Come è emerso nella Conferenza mondiale di Durban nel settembre 2003, la ricerca della qualità nelle politiche dei parchi deve confrontarsi con importanti cambiamenti di rotta, su cui anche in Italia sarebbe opportuno concretamente riflettere, per non trovarsi come sempre a rincorrere i cambiamenti :
« il definitivo superamento delle concezioni "insulari" delle aree protette, in favore di una vera e propria "territorializzazione" delle politiche che le riguardano, basata sul riconoscimento che esse fanno parte inscindibile di più vasti sistemi ecologici, economici, sociali e culturali;
il pieno riconoscimento della inseparabilità dei problemi ambientali a tutti i livelli da quelli sociali ed economici, e quindi delle politiche di conservazione da quelle volte a promuovere lo sviluppo sostenibile.
Le nuove parole d'ordine ("lavorare con, per e mediante le comunità locali", "occuparsi meno dei visitatori e più degli attori locali", spostare l'attenzione sulle reti e le connessioni, etc...) ruotano attorno a questa duplice indicazione.»2
Recentemente nell'ambito del Convegno Parchi Italiani: le sfide della qualità, organizzato nell'ambito del VII congresso nazionale di Legambiente, è stata presentata la ricerca "Istruzioni per l'uso" in cui si offre una prima mappa per orientarsi lungo gli itinerari della qualità, facendo emergere la necessità di coordinare in un progetto unitario questi nuovi scenari.
I parchi hanno messo in evidenza la capacità del territorio di far emergere creatività e competenze, di promuovere alleanze e tessere reti, di uscire dalle gabbie della protezione passiva e tentare di costruire nei parchi e coi parchi dei "laboratori di sviluppo sostenibile", forzando spesso i limiti delle leggi e delle scarse risorse finanziarie disponibili.
Si avverte chiara la sensazione che una nuova attenzione alla ricchezza e alla diffusione del patrimonio culturale e naturale, delle reti storiche di relazioni, nonchè il riscatto identitario e l'orgoglio di appartenenza in questi territori d'eccellenza, hanno indotto, non solo nel nostro paese, a parlare di sistemi di connessioni o, con metafora per certi versi ardita, di una vera e propria "infrastruttura ambientale". Una infrastruttura di base, che, anteponendosi a quelle correntemente frequentate (come le infrastrutture dei trasporti o dell'energia) tenda ad assicurare su tutto il territorio le condizioni di innovazione ambientalmente sostenibile.
Queste "nicchie ecologiche" aprono nuovi scenari e opportunità di sperimentazione di un nuovo modello di "democrazia locale rivitalizzata"3 che appropriatasi della propria identità e della forza del proprio tessuto sociale, sappia consapevolmente mettere in discussione i concetti di crescita, povertà, bisogni fondamentali, tenore di vita e decostruire il nostro immaginario economico fortemente intaccato dai processi di globalizzazione.
In questa prospettiva gli strumenti di riconoscimento dei valori identitari (siti UNESCO, aree protette, paesaggi culturali, etc...) assumono un ruolo concreto e coerente alle vocazioni dei territori, di coesione sociale intorno al quale diventano più realistici programmi e prospettive di progresso e crescita.
Ho seguito con notevole passione le tre Conferenza Nazionali dei Siti UNESCO4, che hanno dato uno spaccato di un paese fortemente interessato ai processi di valorizzazione del patrimonio culturale e naturale e soprattutto alla crescita economica e sociale consapevole e coerente con le diversità territoriali.
A fronte dei positivi riscontri per l'avvio e la definizione dei Piani di Gestione dei Siti, sono emerse anche le difficoltà operative e tecniche per una gestione integrata (non esistendo una normativa specifica) e una inadeguatezza organizzativa rispetto a settori in forte crescita come il turismo culturale.
Negli ultimi 10 anni l'Italia è passata da 8 a 38 siti, interessando principalmente i patrimoni culturali; è evidente infatti il divario tra i 33 siti culturali, 1 soltanto naturale e 4 legati ai paesaggi culturali, il che richiede un cambio di rotta nel riconoscimento di valori emergenti e significativi come le aree naturali protette ed una revisione ed aggiornamento della Convenzione nella individuazione dei valori emergenti (tangibili ed intangibili), cercando di favorire lintegrazione di esperienze e conoscenze tra le nazioni aderenti per consolidare la consapevolezza del valore economico e sociale del patrimonio.
Una più integrata e concreta valutazione di questi processi (anche a livello legislativo)5 potrebbe rappresentare un significativo passo in avanti per dare un quadro organico alle politiche ambientali in relazione alla complessità dei conflitti e delle interferenze, alla confusione delle competenze e al pluralismo delle responsabilità istituzionali che caratterizzano i processi decisionali.
Uno strumento unitario e complessivo che guardi direttamente al quadro europeo di riferimento al di sopra e al di la delle competenze nazionali troppe volte ostative di sintesi virtuose, è rappresentato dalla Convenzione Europea del Paesaggio predisposta dal Consiglio d'Europa e firmata a Firenze da 44 paesi nel 2000.
Consacrando politicamente concezioni già ampiamente elaborate a livello scientifico e culturale, anche in contrasto con le pratiche paesistiche più largamente diffuse, la Convenzione lancia alcune sfide che hanno molto a che vedere con le sfide di qualità territoriale cui le politiche di valorizzazione del patrimonio culturale e naturale dovrebbero concorrere.
Domenico Nicoletti
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