Federparchi
Federazione Italiana Parchi e Riserve Naturali


PARCHI
Rivista della Federazione Italiana Parchi e delle Riserve Naturali
NUMERO 51 - GIUGNO 2007



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Incontro con l'Autore - Mario Rigoni Stern

«Caro ragazzo, amico dei Parchi Naturali, sei davvero fortunato a trovarti qui oggi tra queste bellissime montagne: tra Gran Paradiso, Punta Galisia e le Levanne: guardati attorno, respira quest’aria, goditi questa primavera tra la natura che si sveglia dopo il letargo invernale. Richiudi nella tua memoria e nel cuore questa giornata, ti servirà ad affrontare le amarezze della vita che ognuno, crescendo, incontra.
Ma se nella città, o dove ti porterà il tuo futuro, avrai un tempo tutto per te, allora, ritorna quassù a rinfrescarti lo spirito.
Lei, la montagna, sempre ti aspetterà.
Sia sereno il tuo futuro e con affetto ti saluta un nonno ottuagenario».
PNGP - Rotary Club Cuorgnè e Canavese, per il 22 maggio, Giornata Europea dei parchi a Ceresole Reale.

Basterebbero queste frasi, a testimoniare tutta la poesia che il patriarca dell’Altopiano riassume in sé. Un connubio originale ed esclusivo tra memoria e natura.

«(...) appena la neve se ne fu andata per i mille ruscelli, tutti i prati si vestirono di bianchi crochi subito visitati dalle api, e a metà aprile i larici avevano fiorito con il canto dell’urogallo; ai primi di maggio misero la veste anche i faggi: un bel verde lucente che spiccava sul nero degli abeti; il ciliegio sul tetto era come un vezzo sui capelli di una fanciulla, o una nuvola fiorita: i petali si staccavano dai rami ancora nudi come leggere farfalle e si posavano dondolando sulla paglia che pur esse sembrava rinverdire. Intanto il cuculo che come sempre aveva fatto sentire il suo arrivo il giorno di San marco, volava da bosco a bosco ripetendo il suo verso: a volte sembrava così vicino alle case degli uomini come volesse chiamare qualcuno. A causa della pioggia prima e ora di un caldo insolito l’erba dei prati cresceva rigogliosa e in fretta. La mattina di buon’ora del giorno ventiquattro Tönle aveva guidato le pecore verso i soliti pascoli; poi si sedette ad accendere la pipa e a godersi il giorno. Sentì dapprima come un brontolio per il cielo poi uno scoppio lontano. Si alzò in piedi e guardò attorno; non vide niente ma ancora sentì quel brontolio e lo scoppio ripetersi, e susseguirsene altri più numerosi. Allora capì: era incominciata la guerra (...) »
Storia di Tönle, Einaudi 1978

Mario Rigoni Stern è l’ecologista vero, fuori dagli stereotipi della città, dai salotti buoni della convenienza ambientalista, dal “politically correct” verde.
E’ uno che la Natura l’ha scritta nella pelle -come fosse un moderno tatuaggio-, radicata nelle ossa, inchiodata nella mente. Sa di piedi affondati nella terra, nel fango delle steppe di Russia, nella morbidità dei letti di aghi di larice delle sue contrade, oppure inciampati nelle radici del pino mugo.

«Da allora si diffuse la tradizione dell’albero di natale che oggi ambientalisti e verdi vorrebbero far morire. La loro ragione, molto emotiva e poco razionale, è che migliaia se non milioni di abeti vengano così sacrificati, che boschi vengano distrutti con grave danno ecologico. E si indignano. Ma le cose non stanno così. Intanto si può subito dire che dove per così tanto tempo questa tradizione è viva e viene praticata, i boschi non sono affatto scomparsi. Nei paesi del Nord Europa le foreste di conifere coprono ancora grandi estensioni. (...) Gli alberi che vediamo vendere agli angoli delle piazze cittadine (...) per lo più vengono da coltivazioni apposite, poste su terreni abbandonati che qualche montanaro coltiva per avere ogni otto-dieci anni una entrata extra per il suo magro vivere (...) Non preoccupatevi, quindi, amici ecologisti e verdi, per gli alberi di natale che vedrete vendere nelle vostre città: hanno lo stesso valore morale dei fiori nelle fioriere. E a coloro che verranno a trascorrere le vacanze natalizie e di fine anno vorrei solo dire di non essere loro ad andare nel bosco a tagliarsi l’albero di natale, che sì potrebbero far danno, oltre al furto. E poi sotto quell’albero che rallegrerà le nostre case non mettiamo solo doni costosi, inutili o diseducativi per i nostri ragazzi, ma assieme a qualche libro anche qualcosa per la ricerca sul cancro, o per i vecchi del ricovero».
Arboreto selvatico, Einaudi 1991

Oggi la maggior parte della gente non sa distinguere un abete da un pino. Sono gli “ecologisti da salotto” per i quali tutte le conifere sono “pini”. Poi ci sono quelli che non si rendono conto che l’uomo vive sulla terra da molte migliaia di anni e sulla terra c’è tanto posto, senza che si vada a cercare nulla altrove. La maniera di vivere della nostra epoca mi sorprende. Mi domando se serva a qualcosa fare una coltivazione intensiva e produrre molto, per poi finire con il buttar via i prodotti per mantenere il mercato... Mi sembra davvero assurdo.

Mario è oggi un concentrato dei nonni saggi che forse non ci sono più e che spesso mancano ai nostri giovani che troppo hanno e che, per questo, rischiano di rassegnarsi alla società dell’avere, rinunciando alla ricerca dell’essere che parte innanzitutto da se stessi, dal bisogno di indagare prima di tutto su ciò che ognuno è, per trovare una strada da seguire e da meritare.
Mario questo esercizio di conoscenza lo ha esercitato sin da bambino, soprattutto rapportandosi con l’ambiente naturale in cui è cresciuto e di cui annotava ogni manifestazione.

E’ un’abitudine che ho sin da bambino. Dal 1938 scrivevo tutti i giorni quello che mi capitava, e non perché dovevo fare un compito. Erano osservazioni: il tempo, il clima, la temperatura, la montagna, la legna...
E quando ero Alpino giorno per giorno, sull’agenda, annotavo. Fino al 31 dicembre del 1943 quando incomincia “Il sergente nella neve”, il caposaldo e, poi, la ritirata. Lo scrissi un anno dopo, non sugli appunti ma nell’aria del ricordo, ricostruendo ciò che mi era capitato l’anno prima.
Da allora continuo a guardarmi intorno e mi limito a fare delle osservazioni, cercando dunque di trarre delle conseguenze da ciò che vedo. Ciò che scrivo nasce dall’osservazione, dall’esperienza, ma anche da tante letture. Ci sono libri importanti che ci insegnano a vedere le cose. Nell’Ottocento hanno scritto libri importanti sulla natura e sull’ambiente; anche Columella è divertente, da leggere, come il Maffei che è del Cinquecento. Leggendo libri, osservando, si imparano molte cose. Io cerco di trasmetterne qualcuna, senza nessuna ambizione di essere messaggero di qualcuno né, tantomeno, profeta di qualcosa.
Ma osservo che l’attuale maniera di vivere è sbagliata, che il mondo che stiamo vivendo è fatto per consumare e che il consumo consuma anche la natura. Consumando la natura, noi consumiamo l’uomo, e alla fine consumiamo l’umanità. Cinquant’anni fa si sentiva la gente cantare. Oggi la maggior parte della gente non canta più.

Ha gli occhi dolci e fermi che sanno guardare come a scavarti dentro e denudare i tuoi pensieri. La memoria di atroci momenti passati in guerra, il ricordo struggente di tanti compagni angosciati e angoscianti, nell’insistente domanda al sergente: “Ghe rivarem a baita?” si è strozzata in gola, lascia spazio alla speranza quando incrocia la natura nelle sue multiformi manifestazioni, le stagioni, gli uccelli del bosco, il bosco.
Allora tutto si fa canto di riconciliazione, occasione per rimarginare, almeno temporaneamente, ferite mai, del tutto, cicatrizzate.
E’ il poeta che incontra, nonostante la fatica dell’esistere, la gioia del vivere, di attraversare questa esperienza di viaggio senza meta al limite del razionale e dell’insensato, che per alcuni è regalo, per altri suona a condanna.
Lui ne ha fatto, con la sua opera, una rapsodia di dolore e di serenità.
La verità raccontata dal dramma alla favola, per dirci ogni volta della vita, che prevede il dolore e la felicità che segnano attimi o vite intere.
Nella sua poetica, Rigoni Stern li incrocia più volte e trova la speranza in un attimo di bellezza, anche quando è circondato dalla disperazione e dalla distruzione cieca che l’umanità sa infliggere a se stessa. Anche quando la morte sembra urlare sguaiatamente e senza pudore alcuno il suo trionfo, ebbene c’è uno spiraglio di luce che ci lascia intravedere la serenità, la vittoria della vita che sigilla la bellezza della Natura e della Terra.
Anche il nostro pensiero di lettori non può, a quel punto, che inseguire questo filo salvifico, l’incanto e la bellezza del suo cammino nei boschi innevati dell’Altipiano, il silenzio caldo di baita o del limite del bosco, disturbato solo dalla danza d’amore e di sopravvivenza dei cedroni. Ho incontrato più volte Mario, più volte l’ho intervistato. Ma questa è occasione speciale. Siamo nelle storiche sale dell’editrice Einaudi in via Biancamano a Torino. Qui si respira ancora la presenza impalpabile, eppur viva, dei più prestigiosi e bei nomi della letteratura italiana.
Le pareti restituiscono, in discreta sobrietà, l’eleganza dei volumi delle varie collane, affiancati a testimoniare di un impegno culturale che è già collezione di classicità e, allo stesso tempo, coraggio di sperimentazione.
L’occasione è il festeggiamento degli ottantacinque anni di Mario, caduti il primo di novembre. Anche adesso, insieme ai vertici della casa editrice, passano di qui per salutarlo, alcuni dei protagonisti della vita letteraria di questi tempi.
Il luogo ancor oggi, nonostante le vicissitudini del marchio, mantiene la sua sacralità e tale pare essere vissuto da tutti coloro che sono qui convenuti.
Anche il festeggiamento di Mario sembra seguire le regole, non evidenti ma presenti, di una ritualità tutta einaudiana, fatta di sobrietà e apparente distacco, ma permeata di autentiche pulsioni passionali, quasi uno spirito, laico, di corpo.
Mario saluta tutti con la sua simpatica disponibilità di severo montanaro che decide, talvolta, di scendere nella città, tra le sue finzioni, a volte anche relazionali.
Va a ruba la sua ultima fatica letteraria e le “Stagioni” si riempiono di autografi e dediche.
Poi, prima della torta, è il momento di dire qualcosa.
E Rigoni va alle radici del suo intenso bisogno di narrare quello che fece scrivere a Elio Vittorini in un risvolto di copertina della collana dei “Gettoni” in cui nel 1953 uscì “Il sergente nella neve”:”Rigoni non è scrittore di vocazione (...) Forse non sarebbe mai capace di scrivere di cose che non gli sono mai accadute”:

Arrivai a Torino da Einaudi nel ’53, viaggiando, da Asiago, in terza classe. Ero vestito un po’ rozzamente e mi presentai in portineria chiedendo di Calvino.
Il custode, con cortese fermezza, mi chiese chi fossi. Alle sue spalle c’era un manifesto con gli autori della casa editrice, in primo piano Calvino, Pavese, Vittorini… sullo sfondo anch’io.
Ecco, sono quello, dissi indicando con il dito. Fui fatto passare all’istante.

I ricordi degli amici in casa editrice, da Nuto Revelli a Primo Levi, Natalia Ginzburg sono un pezzo di storia del nostro paese. Rigoni ricorda anche i momenti di difficoltà e la decisione di non abbandonare l’editore. Di Giulio Einaudi lascia un ritratto commosso.

Einaudi scappava su da me in Altopiano dove facevamo lunghe partite a carte. Voleva sempre vincere, ma capitava sovente che lo battessi e lo accettava malvolentieri. Arrivava spesso con una vena di malinconia e di amarezza... lui di solito così apparentemente forte e caustico. Mi capitò di vederlo commuoversi. Fu una volta a Luserna, villaggio sperduto tra le montagne di neve, isola linguistica cimbra. Una bambina, mentre eravamo seduti, portò un libro, era la prima edizione scolastica de“Il sergente nella neve”, perché glielo firmassi. Dissi: “Guarda Giulio, dove sono arrivati i tuoi libri, qui in montagna a 1700 metri, cinquanta bambini che leggono i tuoi libri... Mettici anche tu una firma”. Con le lacrime agli occhi, guardandosi attorno, mise la sua firma sotto la mia; quella ragazza si è poi laureata all’Università di Trento... ha fatto la sua strada.

Con il tempo che passa e la gente che scivola via verso le strade fredde di una Torino che comincia a sentire le fitte ghiacciate dell’inverno, rimaniamo in pochi e la prenotata occasione per sentire ancora il pensiero saggio di Mario si avvicina, prima che sia trascinato verso la cena di gala. Per me rappresenta il riconosciuto cantore di un territorio, quello alpino, che non vuole arrendersi.
Che, come lui, insegue un destino fatto di fiducia in un futuro, ispirato da un approccio di serenità e di fiducia che dà speranza.
Una serenità cui è giunto dopo aver testimoniato le sofferenze della ritirata di Russia, l’epopea dei suoi Alpini che continuavano a chiedergli «Ghe rivarem a baita?».
La sua barba bianca è oggi memoria di tempi perduti, di saperi e saggezze dimenticate, di dolori rimossi, ma anche di speranze ancora vive.
Le stesse che probabilmente ha saputo infondere ai suoi soldati, fosse anche l’attimo prima del capolinea della loro giovane vita, consumata nel breve tempo della gelida steppa russa.
Un testimone che riconcilia con la poesia del mondo, con modelli di vita ancora possibili, fatti di comunione con la terra, la comunità, gli altri, che sono di volta in volta i propri simili piuttosto che gli insetti, la “selvaggina”, o gli alberi del bosco.
E l’appello a una nuova comunione dell’universo.
Un appello poco ascoltato. Perché le orecchie dell’uomo del Ventunesimo secolo sembrano aver perso la sensibilità verso i toni bassi della discrezione, dell’umiltà, della mitezza, per dare ascolto alle iperboli dell’apparenza, fatta di voci sopra le righe, di arroganza, di ostentazione, di presunzione. Dimentichi che nulla ci è dato sapere, non solo dell’Universo, ma della nostra stessa esistenza. Mario sa di tutto questo. Da tempo. Da quando ha visto giovani vite cadere intorno a lui. Da quando ha dovuto fare scelte e dare ordini basati unicamente sulla speranza di un destino che nessuno di noi può guidare.
Per questo è maestro di vita, messo alla prova da una vita che gli ha chiesto molto.
Forse è per questo che oggi ha tutta la serenità che mai avrebbe immaginato.
La serenità di un montanaro vero che dalla sua casa, lassù sull’Altopiano, a Rigoni di Sotto, continua a raccontare le storie minime, ma infinitamente grandi, universali, della sua terra.
Perché, spiega,

basta saper osservare, per veder, capire, conoscere. L’ambiente è pieno di sorprese, purché le si sappia scoprire. E per scoprirle occorre avere la pazienza di vivere ogni giorno con la curiosità di un esploratore. O di un bambino… Capace di avventure lontane, ma anche di scoperte vicine. L’ambiente in cui viviamo, se ci sappiamo porre in condizioni di ascolto, è capace di raccontarci le armonie universali.

Mario vive ai confini del bosco.
Ai confini di un universo di cui è esploratore eccezionale, capace di interpretarne i segni minimi o quelli, apparentemente, offensivi.

Ho avuto attenzione al mondo naturale fin da bambino. Mi meraviglio ancora oggi di come già da ragazzo era istintiva in me la conoscenza della natura. Andavamo a raccogliere le api selvatiche per mangiare il miele, distinguevamo tutti gli uccelli, il fringuello, il passero, la cincia, il tordo, il merlo, non solo dal canto ma anche dal volo. Eravamo nati così, nati in mezzo al bosco, in mezzo all’ambiente. Sapevamo dell’arrivo delle allodole, il tempo del passo, sapevamo distinguere un lepre dal coniglio come le varie razze di vacche o di pecore.
«Arrivò fino all’Appennino emiliano, a Ligonchio e a Collagna per trattare un acquisto, ma l’aspetto di quelle pecore non lo convinceva perché gli sembravano troppo delicate per le nostre montagne. Trovò invece quanto cercava nei Colli Euganei, tra il Venda e la Rua, (...) Erano pecore nostrane di razza Foza con qualche montone di Lamon; prolifiche e forti di buon peso e di buona resa in lana».
L’anno della vittoria, Einaudi 1985

Andavo da bambino nel bosco e mangiavo le bacche buone e non le velenose. Mangiavo il mirtillo, l’uva ursina, le fragole, il lampone, anche il sorbo degli uccellatori, il crespino... ma non la belladonna, l’uva volpina. Nessuno me lo aveva insegnato ma per quelle velenose provavo diffidenza. Così come prendevo in mano l‘orbettino ma lasciavo stare la vipera.
Era una conoscenza istintiva, ma era anche il fatto che ero nato in montagna e non avevo influenze esterne. Giocavo all’aperto dalla primavera all’autunno e dall’autunno alla primavera. Sapevo leggere le tracce sulla neve. Quando era il tempo del passaggio degli uccelli -eravamo io e un mio amico alle scuole elementari- andavamo su ai roncoli; stavamo lì per ore e sapevamo distinguere un fringuello maschio dalla femmina, il cardellino dalla cardellina. Veniva naturale. Conoscevamo bene anche le piante, sapevamo quale era la pianta buona per fare gli sci: il frassino e il faggio. Il frassino meglio del faggio che si imbibisce di acqua e il frassino no; ma il frassino si scanala lungo la venatura e dunque bisognava ogni tanto ripulirlo nella suola. Sapevamo anche fare la sciolina: pece greca, catrame vegetale, cera d’api sono le basi, sciolte a bagno maria.
Se vuoi una sciolina veloce aumenti la paraffina e diminuisci la pece greca; se vuoi sciolina di tenuta aumenti pece greca e catrame vegetale perché la pece greca ha anche l’abitudine di scivolare indietro; il catrame vegetale lega con la pece greca e fa una buona sciolinatura che resiste. Era una maniera di affrontare la montagna fatta di esperienze, di conoscenze che si acquisivano man mano.

«Come ogni mattina la squadra dei boscaioli era partita prima di giorno, il paese dormiva e solo quando giunsero in alto, lungo la costa del monte, sentirono suonare le campane dell’alba. Deposti i sacchi incominciarono il lavoro. Ogni abete da tagliare era segnato al piede da un numero impresso dal martello della Forestale: secondo il piano economico del Comune in quella particella di bosco, e per quell’anno, si potevano ricavare trecento metri cubi di legname e, ovviamente, erano state scelte le piante mature che già avevano compiuto il loro ciclo di sviluppo».
Il libro degli animali, Einaudi 1990

Curare il bosco, saperlo coltivare è un’attività molto difficile. Più che lavorare un frutteto o una vigna. Perché si tratta di investire non sul breve periodo, quello della vita di piante produttive. La pianta del bosco vive secoli... anche cento, centocinquanta o duecento anni; ma la foresta vive secoli, millenni. Non c’è bisogno di piantare alberi. Si tratta di saper coltivare la foresta, quella disetanea, di diverse età, e mista, cioè di diverse specie, con la sapienza che deriva da conoscenze antiche e saper guardare molto lontano, per comprenderne gli sviluppi futuri. Allora l’investimento che si fa costa una discreta spesa ed è a lunga scadenza. Ma si tratta di un capitale che non ha mai svalutazione, va sempre aumentando.
Noi dobbiamo utilizzare l’interesse che il bosco produce, conservando il capitale.
Curando il bosco abbiamo anche la possibilità di recuperare molte cose che il bosco ci offre: il paesaggio da cui nasce l’interesse turistico; la purezza dell’aria; la protezione dell’ambiente dovuta al fatto che il bosco trattiene l’acqua e tutela l’assetto idrogeologico, gli stessi prodotti, vegetali e animali che ne derivano.
L’uomo moderno ha ancora la lungimiranza per investire in un bosco o sulla montagna?

Bisogna spingerlo a farlo. Rendere presente il pericolo che può derivare dall’abbandonare la montagna a se stessa. La montagna selvatica, dimenticata, diventa pericolosa.
Le Alpi hanno un futuro grande. Ce ne rendiamo ancor più conto oggi che stanno per essere abbandonate. “La montagna regola la pianura” è il vecchio proverbio. Perché le Alpi abbandonate causano disastri in pianura Investire in montagna vuol dire investire su tutto ciò che sta sotto. Certamente non vi è un ritorno immediato, è una resa a tempi lunghi.

«… e poi mi viene da dire che da quando sono state scoperte “la natura” e l’“ecologia”, sono state divulgate conoscenze superficiali, tutti si sentono “verdi” e sapienti..
Camminando assieme ai miei pensieri e considerazioni, masticando una radice di polipodio, giunsi così ai pascoli della malga dove l’irruzione di un motocrossista fece scappare una lepre e spaventare le vacche che stavano ruminando tranquille».
Il libro degli animali, Einaudi 1990

La malga è importante. Va rivalutata. L’alpeggio è una realtà che non possiamo permetterci di abbandonare a se stessa. Nel momento in cui si parla di cibi transgenici, di mucca pazza, bisogna ripensare all’alpeggio non solo come insediamento dotato delle necessarie infrastrutture di servizio, ma proprio come pascolo che impedisce il degrado delle terre alte che rischiano di diventare non solo non più appetibili per l’uomo, ma nemmeno per gli animali. Soprattutto dobbiamo evitare di portare all’alpe i mangimi cui gli animali rischiano di abituarsi rifiutando poi il pascolo. La zootecnia di montagna va gestita con attenzione, altrimenti si rischia il degrado dell’alpe. I pascoli alpini devono essere sfruttati con animali adatti, poco pesanti. Non quelli di parecchi quintali -come la razza pezzata nera o rossa- che caricano troppo il terreno, ma con razze adatte a pascolare la montagna come le brune alpine o le rendene che utilizzano bene il pascolo andando anche in luoghi impervi. Solo così il pascolo non si degrada e la montagna viene mantenuta pulita.

«Così brevemente sull’urogallo. A una buona presenza riscontrata tra gli anni 1940-50 si è avuta in seguito una generale diminuzione in tutta Europa, e dopo attenti studi, osservazioni nel tempo e confronti si può concludere che una delle cause maggiori della sua minaccia d’estinzione è da imputarsi alla distruzione del suo biotopo da parte dell’uomo. Insomma il dissodamento della foresta e la sua trasformazione in bosco puro gli rende impossibile la vita. L’urogallo è per i boschi ricchi di più specie legnose, maturi, con fustaie vecchie, con qualche radura. E poi vuole silenzio e pace. Ora tutto questo lo si è capito e gli operatori forestali ne stanno tenendo conto lasciando per lui delle macchie il più possibile naturali, e in certi luoghi, anche da noi, se ne stanno vedendo i risultati. Dalle mie parti i cacciatori hanno convenuto tra di loro, anche se la legge nazionale lo consente, di non cacciarlo più almeno fino alla sua sicura ripresa».
Il libro degli animali, Einaudi 1990

«Mi chinai ad osservare e, dalla neve rossa, raccolsi un ciuffo di pelo: era stato un lepre, l’investito. (...) Povera bestia, pensavo, anche loro pagano la loro parte alla motorizzazione; certo che una volta una slitta tirata da un cavallo non l’avrebbe investito. (...) Arrivai a casa sulla scia del profumo della polenta domenicale e quando raccontai dell’investimento del lepre mi sentii scherzosamente rimproverare perché non ero andato a raccoglierlo. (...). Ritrovai la traccia del sangue acquoso, la seguii con fatica e, finalmente, tra rami di ghiaccio e grumi di neve vidi lui che mi fissava immobile. Con gli occhi grandi e pietosi, le orecchie abbassate lungo il collo. Dalla bocca gli usciva una schiuma rossa. Dopo un po’ allungai la mano per sfiorarlo come per dirgli bravo Era dolce il contatto dei miei polpastrelli con il suo pelo folto e liscio, ma lui fece uno scatto come se fosse stato colpito da una scarica elettrica (...) lo vidi che ancora correva sicuro verso la valle profonda, dove non ci sono strade ma poca neve e ripari e pastura: -Vai!- gli gridai. -Vai e tieniti lontano dalle automobili, e nell’autunno prossimo sono certo che farai ammattire i cani dei segugisti».
Uomini, boschi e api, Einaudi 1980

C’è una domanda che viene spontanea fare a Mario Rigoni Stern, poeta della montagna e della natura che racconta del lepre sopravvissuto allo scontro con l’automobile, del magnifico urogallo, del tremante capriolo sdraiato accanto a Lino il partigiano-cacciatore, del canto della coturnice, del cervo re dell’Engadina, del camoscio che saluta l’alba. Che osserva il volo contro l’azzurro degli uccelli migratori e pensa con ammirazione e stupore alla loro lunga via dell’aria che riporta alla mente i paesi sorvolati, in parte visti e ora rivisti nel loro volo. Bellezze cantate nei libri, che tuttavia possono essere distrutte nella frazione di secondo che trascorre tra il dito premuto sul grilletto e il cuore squarciato dalla pallottola.

«Ecco, proprio tra questi massi pensavamo si fosse rifugiato l’urogallo. (...) poi udii il volo possente venirmi incontro e infine lo vidi con il collo proteso in avanti, la coda distesa e nera. Me lo rividi davanti al mirino, spostai in avanti nella direzione del volo e premetti il grilletto. In quegli attimi non si sa dove si è né come, né dove va la tua anima; non hai né muscoli né ossa, solo una sensazione indicibile. Sentii di averlo colpito e corsi avanti, e mentre correvo udivo il tonfo. Era lì e la terra lo portava come prima l’aria lo sosteneva. Teneva dritta la testa e mi guardava. Mi sentivo timido davanti alla fatalità di quella morte che avevo dato e chinandomi gli accarezzavo il collo e lo ringraziavo. (...) Ora che era nostro, che erano finiti tensione e spasimo, ora ci sembrava che fosse morto anche qualcosa di noi. Non restava più niente né di noi né di lui di quello che eravamo prima: noi due, uomini qualsiasi e lui, una cosa morta qualsiasi. Ritornavano le montagne, le rocce, i massi, il bosco che poco prima non esistevano».
Il bosco degli urogalli, Einaudi 1962

Che diritto abbiamo di soffocare nel dolore quelle vite, quegli attimi di poesia?
Abbiamo il diritto di interrompere le loro speranze, condannandoli a morte?
La giostra della morte. I cani che inseguono, i fucili appostati che interrompono vite. Come in guerra. Predatori e predati. Poi il silenzio, il dolore, il lutto, il ricordo, la sensazione dell’inutilità di tutto questo e delle sua assurdità. E se nelle famiglie dei lepri, dei caprioli, dei camosci, dei fagiani, degli urogalli avessimo seminato lo stesso dolore non necessario ad alcuno? Non è forse perché continuiamo a voler trovare dei nemici davanti ai nostri fucili, come se la guerra non fosse mai finita e l’odio mai superato?
Voglio una risposta sincera...

E che diritto abbiamo a raccogliere i fiori, a tagliare gli alberi, ad allevare polli in batteria, pesci in vasca, far crescere vitelli alla luce artificiale con mangimi innaturali? Di inquinare l’aria e la terra, di far sparire le notti stellate con le illuminazioni cittadine, di frastornare il cervello con rumori laceranti ecc. ecc.? L’essere nostro primitivo è diventato uomo cacciando: lo affermano poeti, scienziati, storici. In qualcuno di noi è rimasto qualcosa di antico; ma ora siamo cresciuti e all’atavica necessità bisogna aggiungere consapevolezza.

Gli sbagli non giustificano la perseveranza...Dunque ritieni che l’uomo, come gli altri animali, sia parte di un universo anche un po’ crudele… E che l’atavica lotta per la sopravvivenza, appartenga al nostro esistere?

Il prelievo di animali selvatici è sempre stato importante e può continuare a esserlo. Con l’attività venatoria possiamo disporre di alimenti di qualità. Io penso sia molto meglio prelevare un capriolo o un camoscio che cibarsi di un vitello alimentato magari con la carne di sua madre. Un vitello è un animale che non ha mai mangiato un filo d’erba in vita sua, lui, ruminante. E’ un problema che abbiamo ogni giorno di fronte. Bisogna curare le possibilità della montagna appenninica e alpina di produrre proteine animali. Si può fare non diminuendo le popolazioni di selvatici, ma anzi, forse aumentandole, purché si sappia fare una gestione oculata di questo patrimonio, con censimenti che indichino le possibilità di prelievo. Cosa raccogliere. Per questo gli interventi vanno guidati da mani esperte.
Come si fanno le “martellate” per gli alberi, decidendo cosa destinare a legnatico, così si può fare per la fauna selvatica, prelevando solo gli animali necessari.
Mi rendo ben conto che queste osservazioni cagionano sorprese o proteste da parte di certi ambientalisti. Quelli che io chiamo “ambientalisti da salotto“ (ci sono anche quelli consapevoli) e vorrei invitarli a trascorrere tutta la loro vita in montagna, per toccare con mano, camminando in ogni stagione, anche in inverno, magari a fine inverno, per cercare di capire come si può vivere in montagna, in quali condizioni di vita. Capirebbero così come sarebbe utile, anche per la gente di città, che la montagna fosse abitata e coltivata dalla gente in maniera intelligente, senza sfruttamento ma con capacità di discernere il giusto prelievo, quello che era nel sapere dei nostri vecchi… Capisco che qualcuno non possa essere d’accordo, ma ci sono esperienze che dimostrano come queste cose possono essere fatte. Nei confronti della natura e dell’ambiente io credo si debba sempre partire da un principio semplicissimo: possiamo utilizzare parte dell’interesse che la natura produce, senza intaccare il capitale. Quando andiamo oltre questa regola entriamo in errore. Possiamo cacciare, tagliare legname, caricare i pascoli, rimanendo però all’interno di un rapporto armonico che ha le sue regole. Ma che consente di utilizzare il territorio senza abbandonarlo a se stesso. Diceva Susmel, grande studioso di ecologia forestale: la natura più utile all’uomo è quella coltivata dall’uomo con intelligenza. Ciò vuol dire poter camminare per i boschi senza rovinarli, arrivare dalla città in montagna senza disturbare gli animali, non andare in fuoristrada sui pascoli… In questi ultimi tempi assistiamo a una deformazione della visione della natura.
E’ la retorica dei “bambi”.
I fumetti di Walt Disney non sono la Natura. E’ tempo di finirla con l’umanizzazione degli animali. Gli animali vanno trattati da animali. Quando sono troppi bisogna tirarli via, altrimenti vengono le epidemie come è accaduto e accade nel Parco del Gran Paradiso e anche in Val di Genova, nelle Dolomiti, dove in una stagione hanno raccolto oltre duemila camosci morti. Perché erano dieci anni che non si andava a caccia. Bisogna rendersi conto che dobbiamo fare in maniera che si mantengano equilibri che oggi non sono più in grado di garantire i predatori. Oggi è necessario l’uomo a fare la parte del predatore perché non ci sono abbastanza lupi, orsi, aquile, perché l’equilibrio biologico sia mantenuto in maniera naturale. Alcuni animali non hanno nemmeno più comportamenti da selvatici, sono quasi domestici...

Eppure c’è oggi chi, davanti agli sforzi, specialmente ad opera dei parchi e delle aree protette -che lo hanno tra i loro compiti istituzionali- si sforza di ricostruire equilibri ecologici anche con la reintroduzione dei predatori, reagisce scompostamente e cerca di distruggere qualsiasi presenza di predatori. Accade per l’orso e per il lupo ritornati nelle nostre Alpi...

Il lupo e l’orso non dovrebbero essere uccisi. A casa nostra l’estate scorsa è arrivato l’orso e spero che rimanga. Mi auguro possa contribuire a tenere lontani i cercatori di funghi e i profanatori della natura. Metterei un cartello “Attenti all’orso” per limitarne la presenza... Quanto ai parchi, ho conosciuto il Parco Nazionale del Gran Paradiso, per la prima volta, all’epoca della Scuola Militare Alpina, nel ’39 Fu durante una esercitazione del corso per sciatori. Partimmo da Dondena poi si salì alla Finestra di Champorcer, poi Cogne, salita al rifugio Sella, il Colle Loson per scendere a Valsavarenche. Il giorno dopo, in vetta al Gran Paradiso con gli sci, le pelli di foca, lo zaino tattico, il moschetto. E’ stata una bella discesa che ricordo come una delle più belle. In quegli anni lì ho girato anche nel massiccio del Bianco. Non potevamo salire la cima perché era francese; lavoravamo alla teleferica per il rifugio Torino, in previsione del suo utilizzo in caso di guerra...
Poi ho avuto modo di visitare tanti parchi e aree protette, non solo alpini o italiani: le Alpi marittime, il Triglav, l’Engadina, Bialowieza con gli ultimi bisonti europei, quelli portoghesi...

«Una questione che in Austria si dibatte è anche quella dei parchi naturali; per ora è questo l’unico paese d’Europa dove non esiste nessuna zona naturale protetta. Ed è anche molto strano se pensiamo come l’Austria goda di ambienti invidiabili per bellezze naturali, flora e fauna. (…) Eppure un parco nazionale in Austria non è ancora nato, e le difficoltà per la sua istituzione si presentano irte e complicate: grossi interessi per lo sfruttamento dei bacini idroelettrici, le proprietà private (non vi sono aree demaniali o comunali), il turismo, le influenze politiche concorrono a far sì che tirolesi, carinziani, stiriani e salisburghesi non trovino l’accordo per fare del massiccio del Grossglockner il parco naturale alpino forse più bello d’Europa. Non ne hanno bisogno? Ma quando l’intenso turismo avrà stravolto costumi e ambiente certamente ne sentiranno la mancanza, e speriamo non sia allora troppo tardi».

«Il Parco dell’Argentera, con i suoi 25.883 ettari compresi tra il torrente Bousset e la Stura di Demonte, rimane, tra quelli che ho avuto occasione di conoscere e di visitare, tra i più felici e di possibile futuro grande interesse naturalistico. (...) quello dell’Argentera potrebbe diventare il parco naturale più bello e organizzato di tutte le Alpi, stati confinanti compresi. Se poi si riuscisse, previo risarcimento a eliminare il pascolo delle pecore e delle vacche, saremmo alla perfezione. Sulla strada del ritorno facciamo queste considerazioni; osservo anche i resti di due camosci travolti dalla valanga e il direttore Patrizia Rossi che si china a raccogliere non fiori ma barattoli per acque colorate e carta stagnola:non li nasconde sotto i sassi ma li ripone nel suo zaino. Mi fermo a bere un’acqua canterina che esce dalla roccia per portarmela via come ricordo vivo».
Il magico “kolobok”, Editrice la Stampa 1989

Alpino sciatore con la Scuola Militare Alpina, la passione per gli sci, la neve, il bosco innevato...

«Sciavo davanti a casa dove, con i fratelli e gli amici che abitavano nelle vicinanze, usando i badili avevamo costruito una pista a lato della strada. A legarmi gli sci sugli scarponi fu lo zio Mosè, che poi mi diede una spinta gridando: «Pista! Stai in avanti!»
Arrivai in fondo senza cadere, tra l’ammirazione delle bambine che, invece, scendevano con gli slittini. (...) Fu allora, in quell’inverno, che, abbandonata la strada, ci spingemmo a sciare sulla collina delle Laiten. Ma lì era molto più impegnativo, e lunga la discesa. Per via delle cadute, quando ritornavamo a casa verso il tramonto si era tutti bianchi per la neve che si era agghiacciata sui nostri vestiti. A casa trovavo sempre il focolare acceso.
Fu forse questa mia confidenza con la neve e con il freddo che mi permise di superare inverni ben più duri? E questa mia familiarità con l bosco e con gli animali che mi aiutò a sopravvivere in certi momenti? Sì, questo. Ma anche tanta fortuna».
Inverni lontani, Einaudi 1999

Al ritorno dalla Russia anche per “il sergente nella neve”, quella passione sembrò sull’orlo di svanire.

«Non volevo più vedere sci, montagne. Per un anno non misi più gli sci ai piedi, volevo star solo, non avevo voglia di vedere nessuno. Poi, una notte rimisi gli sci ai piedi ed uscii nel bosco. Ritrovare la montagna, il bosco, da solo con gli sci o senza, mi ha restituito il contatto con la vita. Poi sono arrivati i figli negli anni Cinquanta facevo sia sci di fondo che discesa; passavo per uno spericolato. D’altra parte era anche il periodo in cui passavo per ribelle, sovversivo, perché nel temo libero leggevo molto, leggevo di tutto, titoli che per loro erano proibiti. Era il tempo in cui il maestro diceva “Mai più un libro di Einaudi dovrà entrare nella mia scuola!”.
L’anno scorso sono ancora andato a fare un po’ di fondo, ma adesso ho paura di cadere...

«Due o tre ore ogni sera le passavo a riordinare la biblioteca degli ex combattenti, che avevano qualche migliaio di volumi. (...) Si sa, allora non c’era la televisione, pochi avevano la radio e la gente leggeva di più. Alla domenica mattina, dopo la messa, venivano in biblioteca anche dalla contrade lontane. Pagando venti lire potevano avere in prestito un libro per quindici giorni. (...) Quelle venti lire per libro così raccolte e giornalmente registrate, servivano per pagare un modesto canone alla vedova che ci affittava la stanza al piano terreno (...) E riuscivo addirittura a comprare qualche libro nuovo di narratori o poeti, o qualche saggio di storia (...) Queste mie scelte arbitrarie provocarono in paese una certa reazione da parte dei benpensanti che vedevano nella piccola biblioteca un luogo di riunioni sovversive»
Inverni lontani, Einaudi 1999

Già, la montagna è oggi assediata da chi la vorrebbe raggiungere con ogni mezzo, dal quad all’elicottero. Thomas Merton ha scritto: “ So bene che la solitudine è il loro più grande bisogno; ma se tutti verranno nel deserto come potranno essere soli?”.
Un detto orientale recita: “ Chi è solo curioso non può accampare diritti”.
Eppure, oggi, tutti accampano diritti, vogliono raggiungere, senza fatica, le cime estreme, i luoghi più appartati e solitari che ancora, fortunatamente, esistono...

Troppa gente va in montagna senza sapere cosa fa, senza averne la consapevolezza. Io direi di vietare le auto ad un certo punto Non possiamo fare selezione tra i poveri e i ricchi, tra chi può pagare il pedaggio e chi no, tra chi è giovane o vecchio. La mia proposta è: fin dove arriva il servizio dello Stato si può andare in auto. Fin dove arriva il postino si può andare in macchina, nelle Alpi. Dopo la si lascia e si procede a piedi. Qualsiasi attività che non sia di lavoro, per coltivare il bosco o per gli alpeggi, va fatta a piedi, non giustifica più l’automobile. Allora non occorrerebbe più far tante leggi per la protezione dell’ambiente. Qualcuno dice che questo sia impossibile. Bah io credo che un giorno ci arrive