Federparchi
Federazione Italiana Parchi e Riserve Naturali


PARCHI
Rivista della Federazione Italiana Parchi e delle Riserve Naturali
NUMERO 54



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OGM

Il rischio ambientale per la flora e l’ecosistema

l’opinione di sandro pignatti
Il tema degli organismi geneticamente modificati è, da tempo, sul tavolo della discussione e trova suoi di sostenitori piuttosto che di detrattori.
Non vogliamo, in questa sede, entrare nel merito delle valutazioni pro o contro, ma fornire elementi scientifici che aiutino nella discussione. Soprattutto su quegli aspetti che possono coinvolgere la missione delle aree protette, di conservazione della biodiversità naturale.


A fornirli è Sandro Pignatti botanico, ecologo, professore emerito di Ecologia all’Università di Roma "La Sapienza", membro dell’Accademia dei Lincei, Presidente onorario della Federazione Nazionale Pro Natura. Autore di una monumentale “Flora d'Italia” (1982, tre volumi per un totale di 2.300 pagine) punto di riferimento per il nostro paese, più recentemente ha pubblicato “Assalto al pianeta. Attività produttive e crollo della biosfera” (con BrunoTrezza, 2000) interessante riflessione sui temi del rapporto Uomo-Natura.
Gli organismi geneticamente modificati sono stati dipinti a tinte fosche.
Quando se ne è proposta l’applicazione a frutta, ortaggi, alimenti, sono stati chiamati “cibi Frankstein”. Da essi può davvero arrivare un pericolo reale?

Io mi occupo sostanzialmente di botanica, vegetazione ed ecologia. Dunque la mia risposta rimane confinata in questi campi su cui mi posso esprimere in maniera scientifica.
Il problema della compatibilità di organismi geneticamente modificati con la salvaguardia del patrimonio floristico e dell’assetto dell’ecosistema, nasce dalla possibilità di trasferimento dell’informazione genetica ad organismi affini, che ne potrebbero risultare a loro volta modificati. Questi organismi affini sono normali componenti dell’ecosistema, in cui essi, nelle condizioni attuali, sono perfettamente integrati: eventuali modifiche possono avere conseguenze imprevedibili. Infatti, il trasferimento di informazione genetica può diventare causa per un cambiamento nelle relazioni tra una specie e le altre presenti nell’ecosistema; cambiamento che può avvenire direttamente, oppure in seguito ad ulteriore trasferimento dell’informazione.
Si potrebbe ritenere che il trasferimento di materiale genetico da un OGM ad una specie selvatica sia un fatto molto raro, e che in generale esso possa causare modificazioni di piccola entità; queste avrebbero effetti irrilevanti sulle relazioni tra le specie nell’ecosistema, e sarebbero facilmente riassorbite per effetto dei meccanismi omeostatici dell’ecosistema, fino ad annullarsi. Questo è quanto succede nei casi di inquinamento dovuti a sostanze chimiche, che nell’ambiente vengono diluite ed inattivate, almeno su tempi lunghi. Nel caso degli OGM la situazione però è ben diversa: una caratteristica essenziale del sistema vivente è di dipendere dall’attività di macromolecole (DNA, RNA), che garantiscono la conservazione, riproduzione e trasmissione dell’informazione genetica, completa ed inalterata; pertanto l’informazione immessa nel sistema non è soggetta a diluizione o demolizione, e continuerà ad agire indefinitamente. Se gli organismi che dispongono di questa informazione sono più competitivi di quelli che ne sono privi, l’informazione tenderà a moltiplicarsi ed espandersi. In conseguenza, la coltivazione di OGM, se si verificano condizioni tali da permettere il trasferimento dell’informazione genetica ad altri organismi, può configurare situazioni di rischio.
C’è chi sostiene che tanta prudenza e il continuo invocare il cosiddetto “principio di precauzione” davanti alle novità della ricerca scientifica e tecnologica rischiano di mettere il bavaglio alla naturale sete di conoscenza degli esseri umani, di fatto penalizzandone il progresso.
Lo sviluppo pervasivo della tecnologia mette continuamente la società moderna di fronte a problemi del tutto nuovi, che possono comportare rischi, almeno potenziali. In questi casi è necessaria una sperimentazione accurata, che permetta di ridurre il rischio ad un livello accettabile. Diventa quindi non solo auspicabile, ma necessario che venga applicato il principio di precauzione, basato sull’esigenza di accertare tutte le possibili situazioni di rischio, almeno entro i limiti delle conoscenze del momento, e raggiungere una ragionevole certezza che esse non possano realizzarsi. Nel caso degli OGM si hanno due principali settori di rischio: alimentare e ambientale. Sul rischio alimentare è possibile lavorare utilizzando un’esperienza ormai secolare, con tecniche analitiche e protocolli sperimentali largamente collaudati nelle analisi dei cibi di origine convenzionale (non da OGM).
Nel caso del rischio ambientale, invece, mancano esperienze precedenti. Inoltre, il rischio alimentare è chiaramente limitato a singoli individui, cioè a quelli che si cibano di un dato alimento; il rischio ambientale è invece diffuso, e colpisce tutto un territorio ed i suoi abitanti.
Dunque il rischio ambientale è più preoccupante?
Ci sono analogie evidenti tra i due tipi di rischio, soprattutto in termini di prevenzione. Nel caso di rischio alimentare, è ritenuto ovvio che si debbano utilizzare tutti i mezzi (conoscenze, strumenti analitici, etc…) disponibili; ciò dovrebbe valere anche per il rischio ambientale. Ma non è sempre così.
Le sostanze alimentari ottenute da OGM sono sottoposte a controlli preventivi particolarmente accurati, certamente superiori a quelli per gli alimenti tradizionali. I tentativi di definire metodi di valutazione del rischio ambientale, invece, sono finora rimasti sporadici e quasi sempre limitati ad iniziative individuali ed il rischio ambientale tende a essere sottovalutato. Dunque, tra rischio alimentare e rischio ambientale, si procede spesso con due pesi e due misure. Ciò non è accettabile, né dal punto di vista scientifico, né considerando la responsabilità che tutti abbiamo verso il patrimonio ambientale.
Tutto ciò partendo dal principio che gli OGM non vadano demonizzati.
Ma in un paese moderno democraticamente amministrato, si deve mettere il cittadino nella condizione di effettuare una scelta cosciente nei loro confronti.
Molti gridano all’oscurantismo scientifico, paragonano la situazione a quella dei “luddisti” che si opponevano all’ingresso dei telai nella lavorazione tessile; altri dicono che organismi geneticamente modificati fanno parte da sempre della nostra alimentazione, a cominciare dai grani modificati geneticamente con le radiazioni piuttosto che a nuove varietà colturali originate con l’ibridazione.
Tutti sembrano dimenticare, tuttavia, che il quadro è mutato radicalmente con la tecnica della ricombinazione genetica...
Nelle dure polemiche degli ultimi anni, chi è favorevole agli OGM ha spesso accusato di oscurantismo chi è contrario. Questo può anche esser vero in qualche caso, perché le novità spesso sono accolte con sospetto, specie quando si tratti di argomenti tecnici, non immediatamente comprensibili. Ma non è possibile impostare la questione come una scelta tra libertà di ricerca ed oscurantismo. Con questa drastica opposizione di termini, il problema viene presentato in maniera fuorviante: è chiaro infatti che nella comunità scientifica nessuno accetterà di pronunciarsi in favore dell’oscurantismo e contro la libertà. Siamo di fronte ad un problema complesso, la cui risposta non può venire limitata ad una scelta di campo, ma deve necessariamente risultare più articolata.
Infatti, è vero che gran parte dei modi di vita della società contemporanea sono un effetto della tecnologia, cioè di applicazioni dei risultati della ricerca scientifica. Ciò nonostante, non se ne deve trarre la conclusione che lo sviluppo della ricerca scientifica sia il mezzo obbligato per risolvere i problemi del futuro. Si tratta di un puro atto di fede, che non è sostenuto da argomenti razionali; anzi, anche i maggiori problemi del presente (buco nell’ozono, effetto serra, etc…) sono conseguenze impreviste dello sviluppo tecnologico. Una valutazione consapevole dei successi della tecnologia e delle possibili conseguenze implica conoscenze approfondite e multidisciplinari, che in generale superano la competenza di un singolo studioso. L’informazione sui problemi tecnologici pertanto è spesso affidata a commissioni, nelle quali si tenta una difficile mediazione tra pareri spesso divergenti e si arriva a risultati discutibili. Ci troviamo di fronte ad una situazione contraddittoria: la scienza sperimentale permette di raggiungere conoscenze certe, ma quando si cerca di prevederne le conseguenze sulla società, le certezze svaniscono. Dunque, anche la fede nello scientismo può essere considerata una pericolosa forma di oscurantismo. Ne consegue la necessità di arrivare ad una informazione non specialistica, in modo che ciascuno possa giudicare i fatti secondo la propria ragione ed esperienza, evitando di restare vittima di questa illusione. La ricerca scientifica ha prodotto nel passato e continuerà a produrre in futuro grandi vantaggi per l’umanità, ma il cittadino di un paese moderno deve esser messo nella condizione di decidere coscientemente, caso per caso, quale sia l’uso migliore delle nuove conoscenze.
In effetti l’ingegneria genetica è un settore di ricerca che si è sviluppato soltanto negli ultimi decenni e che pone una serie di problemi del tutto nuovi.
In molti scritti sull’argomento si sostiene che in realtà l’uomo fa ingegneria genetica già da diecimila anni, cioè da quando ha iniziato ad ibridare le piante agrarie. Dunque, la produzione di OGM sarebbe soltanto un modo di continuare, con altri mezzi, un processo che ha una lunga tradizione ed ha contribuito positivamente al progresso dell’umanità, senza conseguenze negative, ed anzi sviluppando la biodiversità. Da queste affermazioni si trae la conclusione che i prodotti dell’ingegneria genetica per l’agricoltura risultino vantaggiosi o quanto meno innocui. Queste affermazioni vanno però contestate. Tra l’attività di selezione esercitata nella pratica agraria fino a pochi decenni orsono, e l’ingegneria genetica, esiste infatti una differenza essenziale. La selezione veniva tradizionalmente eseguita su ceppi scelti in base al loro aspetto fenotipico, per i quali si ignorava la struttura del genoma, ed all’oscuro dei possibili legami di causa – effetto tra genoma e fenotipo; si svolgeva dunque sostanzialmente alla cieca. Essa poteva venire attuata (mediante ibridazione o innesto) soltanto tra ceppi affini, cioè tra diverse popolazioni della stessa specie o, tutt’al più, tra specie diverse ma molto simili l’una all’altra. Attraverso l’ingegneria genetica si opera invece su genomi noti, e pertanto è possibile fare scelte mirate al raggiungimento di determinati obiettivi, ed è possibile utilizzare materiale genetico proveniente da qualsiasi organismo: di conseguenza nelle piante agrarie sono stati introdotti geni di piante del tutto diverse, di microrganismi e di animali. E’ vero che l’attività di selezione con metodi tradizionali ha permesso di ottenere un gran numero di piante utili, che però nella grande maggioranza dei casi hanno potuto vivere solamente come piante coltivate, cioè limitate all’ambiente agricolo. Benché questa attività sia stata continuata durante migliaia di anni, non sono infatti noti casi di piante agrarie che abbiano potuto inserirsi nella vegetazione naturale e rendersi competitive rispetto alla flora spontanea. Con l’ingegneria genetica la situazione è completamente diversa e non si può escludere a priori la possibilità di ottenere (direttamente oppure indirettamente, per trasferimento di materiale genetico) organismi a carattere invasivo.
Anche sul contributo all’arricchimento della biodiversità credo vada fatta qualche precisazione.
Indubbiamente. L’affermazione che l’ingegneria genetica porti ad un aumento della biodiversità va contestata, pur essendo chiaro che per questa via si producono genomi con caratteristiche del tutto nuove. Infatti, come biodiversità si intende la diversità dei viventi quale risultato dell’evoluzione, cioè (in senso darwiniano) di due processi paralleli: la selezione dovuta ai fattori dell’ambiente e la competizione con altri organismi. La biodiversità è «l’insieme di strutture e funzioni diversificate che i sistemi viventi hanno sviluppato, sotto il vaglio della selezione naturale, in base all’efficienza nell’uso delle risorse materiali ed energetiche». La biodiversità è dunque il risultato del processo di auto-organizzazione dei viventi a livello spaziale, temporale e relazionale tra organismi, specie e comunità. Con la biodiversità, in sostanza, si può misurare il successo ottenuto dai viventi mediante l’evoluzione: un obiettivo ambizioso, ma per il quale oggi si hanno alcune premesse interessanti. Nella produzione degli OGM tutto questo è irrilevante: si tratta di organismi nuovi, progettati dall’uomo, che non si inseriscono nel processo di evoluzione; essi sono progettati e realizzati in funzione di scopi precisi e ben definiti
Interferire con la struttura genetica nostra e dei nostri simili, soprattutto di quelli di cui vogliamo servirci, che chiamiamo OGM, è, secondo Di Mauro (2005) il frutto di “arroganza genetica”.
Come osserva Siep (2004) «A nessuno è mai venuta l’idea di produrre nuovi genomi al solo scopo di aumentare la diversità». Gli OGM sono dunque il risultato di un processo in netta antitesi con l'evoluzione biologica, cioè con la vera fonte della biodiversità.
Essi, a loro volta, possono essere causa di riduzione della biodiversità, come ad esempio nel caso dell’uso di tossine batteriche nella protezione del mais.
Per quanto riguarda la biodiversità, va ancora messo in evidenza come l’agricoltura tradizionale, attraverso la selezione, abbia prodotto migliaia di piante agrarie (cultivar), mirabilmente adattate alle più diverse condizioni ambientali; ogni area geografica possiede le proprie cultivar, che spesso hanno un ruolo importante nelle attività agricole, alimentazione, economia ed identità culturale. Si tratta di un patrimonio insostituibile, che si è accumulato nei secoli e ci è stato trasmesso dalle generazioni precedenti. Da decenni è in corso un processo di omologazione e standardizzazione merceologica, che ha favorito poche cultivar altamente produttive e marginalizzato il resto. E’ facile prevedere che questo processo verrà ulteriormente accelerato da un impatto generalizzato degli OGM, che richiedono alta specializzazione sia nella struttura genetica delle piante coltivate che nelle condizioni ambientali ove avviene la coltivazione. E’ dunque prevedibile che la diffusione degli OGM avrà come conseguenza un ulteriore impatto sulla biodiversità, che può mettere in crisi la coltivazione di un gran numero di cultivar fino a causarne la scomparsa.
Cerchiamo di approfondire, in questa sede, il rischio ambientale, stante le responsabilità particolarmente sensibili di chi amministra le aree naturali protette che andrebbero preservate da ogni inutile rischio, proprio perché in esse la tutela dell’ambiente naturale originario rappresenta la ragion d’essere e lo scopo principale.
In base alle conoscenze attuali, non si conoscono fatti dai quali si possa ricavare la certezza che gli OGM siano, in quanto tali, dannosi o pericolosi per l’ambiente. Tuttavia, vi sono molti argomenti per sostenere che l’uso di OGM comporta un rischio ambientale. Sulle possibilità di prevedere e prevenire i rischi per l’ambiente finora si sa pochissimo, e questo favorisce l’illusione che il rischio ambientale sia trascurabile. La probabilità che l’introduzione di una specie geneticamente modificata nell’ambiente sia causa di modificazioni dei rapporti con le altre specie, oppure di trasferimento di materiale genetico su altri organismi, è stata già dalla seconda metà degli anni Novanta, indicata come situazione di rischio, almeno potenziale. Più recentemente, nel 2005, una ricerca eseguita in Inghilterra. E’ stata controllata la possibilità di trasferimento di geni dalla colza modificata resistente agli erbicidi (GMTH) a specie selvatiche affini e si è accertato che era stata acquisita la resistenza e la presenza del gene introdotto sulla colza, dimostrando che il passaggio del transgene è possibile anche per cause naturali, pur trattandosi di un evento estremamente raro. Sono state inoltre controllate le condizioni di campi che dopo la coltura di colza GM erano stati coltivati a cereali accertando la persistenza di piante GM, come residuo della coltivazione precedente, con frequenze dal 20 % a 80%.
Questi risultati provengono da esperienze eseguite in altri paesi, e quindi in condizioni molto differenti da quelle che si potrebbero avere da noi. Pertanto, se trasferiti al sistema agronomico del nostro paese, non hanno che un valore orientativo. Si tratta comunque di approfondire la conoscenza delle conseguenze che la modificazione genetica può arrecare alle specie ed alle relazioni tra queste nell’ecosistema.
L’introduzione nell’ambiente di OGM può avere conseguenze dirette oppure indirette: come è affermato in documenti ufficiali della Commissione delle Comunità Europee «le attività concernenti gli organismi geneticamente modificati (OGM) non sono pericolose di per sé, ma possono in talune circostanze causare danni alla salute o notevoli danni all’ambiente (ad esempio la fuga da un impianto di massimo contenimento o conseguenze impreviste di un rilascio deliberato) …».
Le conseguenze dirette riguardano soltanto le specie considerate affini agli OGM, mentre sono conseguenze indirette quelle che riguardano i rapporti con organismi differenti che partecipano all’ecosistema. Come conseguenze dirette si possono prevedere cambiamenti nelle caratteristiche strutturali o funzionali di specie selvatiche. Questi cambiamenti, se fossero limitati alla specie affine all’OGM, probabilmente avrebbero effetti modesti, ed entro certi limiti anche prevedibili. Tuttavia, il caso di una specie che cresca isolata, senza rapporti con altre specie vegetali, animali o batteriche, è soltanto un’astrazione largamente utilizzata nelle ricerche impostate secondo il metodo riduzionistico, ma del tutto estranea alla realtà. La condizione normale nella biosfera è che ogni specie abbia una possibilità di sopravvivenza soltanto quando è inserita nell’ecosistema, così da interagire con altre specie.
Nell’ecosistema, un gran numero di specie vegetali, animali e microbiche sono tra loro strettamente legate da connessioni che hanno soprattutto carattere funzionale, e che riguardano rapporti tra organismi del tutto differenti: ad esempio tra piante produttrici di nettare ed insetti impollinatori. In un senso molto generale, le relazioni tra le specie che convivono possono avere carattere di contiguità ecologica, competizione, rapporti di pascolo o di predazione, demolizione della lettiera, micorriza e tanti altri, fino a forme di coevoluzione. Queste relazioni sono soggette a continue, modeste variazioni, periodiche o aperiodiche, ma il sistema nel suo complesso si mantiene in condizione metastabile, cioè relativamente stazionaria. Questa condizione è descritta (con linguaggio abbastanza improprio) come “equilibrio ecologico”, espressione che indica una sostanziale stabilità nel tempo. Quando una specie viene modificata, esiste la possibilità che le connessioni funzionali con l’uno o l’altro partner vengano a loro volta modificate, e questo può provocare un effetto a catena con risultati del tutto imprevedibili. Infatti, finora sappiamo ben poco sulle relazioni funzionali tra specie diverse nell’ecosistema, e quanto sappiamo ha soprattutto valore di principio, ma non raggiunge il dettaglio necessario. Ad esempio, è noto che la maggior parte delle piante con fiori sono impollinate da insetti, e che la maggior parte degli insetti si nutrono di materiale vegetale, ma siamo ben lontani dal conoscere dettagliatamente quali insetti agiscano da impollinatori per ogni specie vegetale, e quali vegetali forniscano il nutrimento per ogni specie di insetto. Si aggiunga che anche la previsione degli effetti di modificazioni indotte rimane in molti casi aleatoria.
Quando sia impostato in questo modo, il problema di prevedere le possibili conseguenze della modificazione genetica di una specie selvatica, nel suo habitat naturale, appare di una complessità estrema. Tuttavia, il fatto che il rischio sia suddiviso tra un gran numero di organismi non significa che per questo esso risulti frazionato e possa essere considerato trascurabile. Anzi, si può prevedere che quanto maggiore sia il numero di organismi presenti al margine delle colture GM, tanto maggiore sarà la probabilità che almeno uno di questi sia recettivo. Anche questa possibilità, peraltro, manca ancora di una prova decisiva. Va sottolineato che un metodo di applicazione generale, che permetta valutazioni di rischio e confronti non è stato ancora messo a punto.
Nel Rapporto della Commissione nominata dalle Accademie Nazionali (Accademie, 2003) si chiede espressamente che si proceda ad una “scelta o preparazione di protocolli di valutazione del rischio”, senza i quali le ricerche sperimentali rimangono di significato episodico. Questo appello, tuttavia, finora ha avuto poco seguito. E’ necessario prevedere un livello di massima precauzione, tenendo conto del fatto che nel caso dell’equilibrio ecosistemico, dopo il danno, sono sostanzialmente impossibili le azioni di ripristino previste dalla normativa (Commissione delle Comunità Europee, 2000). Inoltre, le condizioni si presentano più difficili per quanto riguarda più specificamente l’Italia, che è stata un importante centro di domesticazione per numerose specie di interesse agrario. Di conseguenza, la nostra flora è particolarmente ricca di specie che sono forme ancestrali per specie coltivate; il passaggio di geni provenienti da OGM appare quindi facilitato. Il rischio ambientale, pertanto, si presenta a due livelli: delle singole specie (flora) oppure delle comunità biotiche che costituiscono l’ecosistema. Il rischio ambientale derivante dall’uso di OGM è legato alla possibilità di una modificazione durevole nell’ecosistema: un evento, che in generale è considerato abbastanza improbabile, e comunque di scarso rilievo, perché non riguarda direttamente né la salute umana né l’economia. Tuttavia, va affermato chiaramente che la banalizzazione del rischio ambientale deriva dal fatto di ignorare i termini reali del problema (quando non sia un’opinione interessata). Infatti, la possibilità che una piccola modificazione nell’ecosistema possa avere ricadute ambientali generalizzate è tutt’altro che infondata: se ne conoscono numerosi esempi, ben documentati, che saranno brevemente ricordati più avanti.
Inoltre va ricordato che si tratterebbe di un danno irreversibile, perché un ripristino pieno, come richiesto dalla legge, è praticamente impossibile.
Ben più aleatoria è la valutazione preventiva di possibili effetti dannosi derivanti dalla diffusione di piante GM. Secondo Di Mauro (2005) si possono prevedere almeno tre possibilità: (1) evoluzione di piante improduttive, differenziatesi in parallelo all’introduzione di quelle GM, ed in grado di sostituirle, avendo maggiore capacità di competizione; (2) evoluzione di insetti resistenti agli insetticidi incorporati negli OGM; (3) danni derivanti all’equilibrio ecosistemico dalla distruzione di insetti innocui. Però la nostra capacità di previsione è limitata, rispetto alle innumerevoli possibilità di modifiche ai complessi rapporti ambientali, quale conseguenza dell’immissione di organismi del tutto nuovi. Ad esempio, l’uso di OGM resistenti agli erbicidi, consente di modificare il regime dei trattamenti, e questo ha avuto gravi conseguenze, non tanto per gli insetti utili (come si temeva) ma per gli aracnidi. I GMHT (genetically modified herbicide-tolerant) vengono creati inoculando geni provenienti da pedobatteri che consentono alle specie coltivate di resistere all’azione di determinati diserbanti sistemici ad ampio spettro. Ciò consente di accrescere notevolmente l’efficacia delle azioni di contenimento delle piante infestanti, impiegando erbicidi caratterizzati da minore tossicità diretta sugli invertebrati terrestri e sui microrganismi del suolo rispetto a quelli impiegati nelle colture convenzionali. Questi erbicidi sono tanto più efficaci quanto maggiore è la superficie fogliare delle piante-bersaglio, quindi risultano maggiormente efficaci in prossimità del raccolto, quando le infestanti sono prossime alla fruttificazione. E’ stato dimostrato che il diserbo più tardivo provoca il trasferimento di una frazione rilevante di materia vegetale dalla rete trofica degli invertebrati erbivori a quella dei detritivori. Il rapporto tra erbivori e detritivori nelle coltivazioni di colza e barbabietola GMHT è risultato sbilanciato verso questi ultimi, rivelando un significativo trasferimento di energia dalla catena trofica dei consumatori a quella dei decompositori.
Finora si sono considerati casi, già avvenuti oppure possibili, nei quali la modificazione dei rapporti ecosistemici ha avuto un effetto negativo, valutabile in termini di sopravvivenza, malattie, costi e distruzione di risorse o di specie.
Tuttavia il problema comporta un aspetto bioetico, che è essenziale, e che permette di mettere in evidenza varie componenti: naturalistica (possibilità incontrollata di mescolanza dei geni), estetica (la “bellezza” della natura), economica (ripartizione di profitti), politica (perdita di controllo su prodotti essenziali alla sopravvivenza), olistica (disturbo dell’ordine naturale).
Non affrontiamo qui l’approccio bioetico.
Tuttavia non possiamo non far rilevare come occorra una mentalità nuova nell’affrontare questi temi. L’approccio newtoniano non è più sufficiente per affrontare la complessità dei sistemi viventi. Occorre attrezzarsi per leggere la realtà con nuovi paradigmi che tengano conto delle più recenti acquisizioni del sapere scientifico. Diviene necessario uscire da una visione riduzionistica e procedere, forse anche, a una revisione del concetto di progresso.
Nella prima fase della biologia, al passaggio tra il sec. XVI e XVII, l’interesse degli studiosi fu centrato soprattutto sulla descrizione dei fenomeni, mentre l’interpretazione e spiegazione di questi è cercata soprattutto mediante l’intuizione. Questa caratteristica rimase nei secoli successivi, anche perché l’esplorazione dei continenti extraeuropei, dell’ambiente marino e delle strutture microscopiche dei viventi offriva la possibilità di sempre nuove scoperte. Nel frattempo, la Fisica classica si sviluppava con Newton come la grande scienza, destinata a portare ad una conoscenza esatta del mondo, e ad una completa prevedibilità dei fenomeni. Si affermava intanto la supremazia della razza bianca, che venne giustificata con la “missione” di civilizzare i “selvaggi”, e da talune forme dell’etica protestante, si sviluppava il capitalismo. Nel pensiero di Condorcet, il progresso dell’umanità secondo il modello occidentale è interpretato come il vero fine della natura: in questo modo, il progresso ne risulta mitizzato. Il mito del progresso consiste nel rifiuto della vita presente in favore di un’ottimistica convinzione di poter raggiungere un superiore stato di certezze, verità e felicità: esso dunque può essere considerato una “fantasia di morte”.
Come conseguenza di questa fantasia, la fede nel progresso diviene motivazione essenziale per gli studiosi che sviluppano la scienza di derivazione newtoniana. Alla fede nel progresso contribuì anche Darwin, la cui teoria dell’evoluzione fornisce una giustificazione naturalistica alla sopravvivenza del più forte.
Fino all’inizio del sec. XX si mantenne una netta distinzione tra le scienze esatte (Matematica, Fisica e Chimica) e la Biologia. Soltanto le prime erano basate su precise catene di causa-effetto; in questo modo sembrava possibile arrivare alla piena prevedibilità dei fenomeni (Laplace), mentre la Biologia rimaneva legata al metodo descrittivo.
Lo sviluppo successivo della Biologia, durante il secolo appena concluso, è caratterizzato da una generale revisione delle motivazioni e dei metodi di lavoro.
E’ stata una lunga rincorsa: ben noti esempi di questo sforzo sono ad es. nel “dogma centrale” e negli scritti di Jacob sulla logica delle strutture viventi (1970) e sull’evoluzione mediante bricolage (1981). Monod resta invece in equilibrio tra caso e necessità. Attraverso lo sviluppo della biologia molecolare, che permette di definire, anche nei sistemi biologici, catene di causa-effetto, così da allargare il campo di prevedibilità, si può oggi affermare che anche la Biologia è entrata nel gruppo delle scienze esatte. Questo però accade mentre i fisici hanno ormai abbandonato la pretesa di esattezza della Fisica classica e stanno elaborando nuovi paradigmi.
Anche come scienza esatta, la Biologia rimane ben distinta dalla Fisica classica.
Le differenze principali si possono riassumere in alcuni punti: la Fisica classica si occupa di processi che si svolgono senza attriti e si mantengono vicini al punto d’equilibrio, usa la dimensione euclidea, traiettorie lineari, ed arriva alla formazione di strutture in un tempo reversibile; la Biologia si occupa di processi non lineari, dipendenti dall’elaborazione di impulsi, e che si mantengono lontani dall’equilibrio, usa dimensioni frattali, percorsi ramificati, ed arriva all’emersione di forme in un tempo irreversibile. Quindi, interpretando i fenomeni biologici sulla base dei principi della Fisica classica, si fa del riduzionismo. Si tratta di una visione limitativa della realtà. Attraverso il ragionamento riduzionistico, l’ingegneria genetica incorpora la cultura newtoniana e meccanicista nella tradizione biologica.
Questo legame è evidente già dal titolo: “ingegneria” è una scienza che si basa su certezze, e permette di utilizzare conoscenze scientifiche per realizzare opere altrimenti impossibili, ad es. le conoscenze sulle caratteristiche fisiche dei metalli per progettare le strutture portanti di un ponte oppure di un edificio. Analogamente, sulla base delle conoscenze sull’attività biologica di una molecola, si può progettare un organismo con caratteristiche nuove e vantaggiose. Lo scopo è in entrambi i casi quello di raggiungere un risultato altrimenti impossibile, che viene inteso come un miglioramento delle condizioni dell’uomo. In entrambi i casi, il risultato positivo permette anche un consistente vantaggio economico. Così si torna alla fede nel progresso; ma su questo concetto molti di coloro che fanno parte della comunità scientifica preferiscono ormai sorvolare, dopo quello che è successo a Hiroshima il 6 agosto 1945.
La fede nel progresso, nelle “magnifiche sorti e progressive” è invocato da chi fideisticamente affida agli OGM la soluzione d molti dei problemi del Pianeta che non è possibile risolvere senza il ricorso all’equità e alla giustizia tra i popoli, sacrificando l’opulenza del troppo a favore della sobrietà. L’incapacità di rinunciare al mito della crescita senza limiti a favore di una società al possesso e alla voracità consumistica sappia sostituire la condivisione e la solidarietà...
La fede nel progresso sta alla base di molte tra le motivazioni che vengono portate in favore dello sviluppo di OGM. Da questi ci si aspetta di aumentare la produzione agricola, risolvere il problema della fame, curare le malattie dei bambini del terzo mondo, liberare l’agricoltura dalla dipendenza dai biocidi. Si prospetta anche la possibilità di benefici ecologici, concentrando la produzione su aree ristrette, ma ad altissima produttività, in modo da disporre di superfici libere per la creazione di nuovi parchi nazionali.
Tutti questi sono obiettivi nobili, ma anch’essi soggetti alla non-linearità dei processi biologici. Sappiamo, ad esempio, che non sempre basta aumentare la produzione di cereali per dare più cibo ai diseredati: infatti, è più verosimile che il prodotto in eccesso rispetto alle esigenze del mercato sia utilizzato come mangime per il bestiame da macello e serva ad incrementare il commercio di carni pregiate per gli abitanti dei paesi ricchi. Quando si trattano i problemi dei sistemi viventi, ci si trova di fronte a un insieme di feedback che ne determina la complessità, e rende imprevedibile l’effetto di qualsiasi modificazione del sistema.
Le decisioni riguardanti l’utilizzo di OGM devono venire prese tenendo conto delle possibili conseguenze sull’ambiente, e su questo tutti sono d’accordo, almeno a parole. In parecchi paesi europei si dispone già ora di conoscenze approfondite sulla flora e gli ecosistemi: si tratta di conoscenze necessariamente incomplete, ma che possono essere considerate sufficienti per prendere decisioni basate su dati di fatto. In Italia, invece non siamo in questa condizione, e ciò per vari motivi: non si è ancora arrivati alla conoscenza generalizzata del territorio, inoltre da noi il problema si presenta più difficile, perché il nostro paese si articola in tre zone biogeografiche fortemente differenziate (zona alpina, continentale e mediterranea). Per questo, nelle esperienze finora effettuate, ci si è limitati a prendere atto che gli OGM da coltivare non avevano creato problemi altrove, e sperare che lo stesso sarebbe avvenuto anche in Italia, ma questo ci riporta a quella che prima è stata definita come una situazione di rischio, e quindi è una prassi inaccettabile. Sappiamo quello che è necessario fare per mettere anche il nostro paese a livello di quelli più avanzati in Europa, e quindi avviare un serio programma di ricerche è un dovere: è necessario eliminare le lacune ancora esistenti nelle conoscenze, e mettere in grado chi ne ha responsabilità, di prendere decisioni basate su argomenti obbiettivi. Lo stato delle conoscenze sulla flora e sugli ecosistemi nel nostro paese segnala due punti di criticità: specie affini agli OGM (distribuzione sul territorio, genetica ed ecologia) e relazioni tra le specie nell’ecosistema. Le conoscenze in questi due campi sono tuttora lacunose e comunque insufficienti ad una prevenzione dei possibili rischi. Se vengono considerati i paesi vicini all’Italia, si nota invece che documenti esaurienti su flora ed assetto ecosistemico sono già disponibili per Germania, Regno Unito, Paesi Bassi, Rep. Ceca, Svizzera e lo stesso vale per il Giappone; documenti similari sono in stato avanzato di realizzazione in Spagna, Slovenia, Austria, Polonia ed altri. Ne deriva la chiara esigenza che, anche nel nostro paese, sia recuperato il ritardo nello sviluppo delle conoscenze sul territorio e siano messi a disposizione della comunità i documenti di base essenziali per una conoscenza adeguata al progresso tecnico-scientifico degli ultimi anni. Per realizzare questo obbiettivo è necessario arrivare ad un grado di conoscenza del territorio, in particolare mediante la realizzazione, su tutto il territorio, di studi specifici su questi argomenti:
- Collocazione (geografica ed ecologica) dei tipi ancestrali selvatici (ancestors) nell’ecosistema, attraverso un generalizzato inventario floristico
- Lista esauriente delle comunità vegetali esistenti in Italia
- Analisi genetica delle popolazioni naturali
- Comprensione dei fattori che regolano la dinamica di popolazione
- Carta della Natura
Deficit di conoscenza che il mondo dei parchi e delle aree protette segnala da tempo e da tempo non trovano adeguate risposte. Intanto inesorabile il tempo scorre e pone oggettive difficoltà gestionali a chi ha la responsabilità del nostro patrimonio naturale.
E’ un compito che andrebbe realizzato in pochi anni, il che è difficile, ma non si può considerare irrealizzabile, in quanto nel paese esistono le competenze necessarie e gran parte del lavoro preliminare è già svolto. Inoltre, su parecchi argomenti, le ricerche potrebbero avvenire in collaborazione con altri paesi dell’area mediterranea. D’altra parte, di fronte all’importanza del problema, non è ammissibile che si proceda senza informazioni adeguate, e non si faccia uso di tutti i mezzi che la ricerca scientifica oggi può offrire, per prendere decisioni per quanto possibile documentate sul problema OGM, che direttamente riguarda l’interesse della collettività.
Questa è un’esigenza non eludibile per un paese moderno.