Intervista ad Aldo Cosentino
Da quasi dieci anni a capo della Direzione Protezione della Natura (prima Servizio Conservazione della Natura), Aldo Cosentino è referente d'obbligo quando si parla di tutela e parchi.
Laureato in giurisprudenza è entrato da subito nella pubblica amministrazione, prima al Ministero della Pubblica Istruzione e in seguito alle Ferrovie dello Stato e al Ministero dei Trasporti, dove ha ricoperto diversi incarichi di rilievo.Nel 1991 è passato al Ministero dell'Ambiente come componente della Commissione tecnico-scientifica di valutazione dei progetti. Dal maggio 1998 è responsabile del comparto ministeriale che si occupa di Protezione della Natura, che è anche Focal Point Nazionale per le principali Convenzioni Internazionali in materia (Biodiversità, Bonn, Berna, Barcellona, Ramsar), per la Rete Natura 2000 dell'Unione Europea, per gli Accordi internazionali di tutela di Adriatico e Alto Tirreno e per l'iniziativa internazionale Countdown 2010. È inoltre presidente del Comitato nazionale dell'IUCN per l'Italia.
In occasione del Congresso di Federparchi lo abbiamo intervistato per fare il punto della situazione attuale e capire problemi e prospettive per il futuro del sistema parchi italiano.
In dieci anni di lavoro a capo della Direzione (prima Conservazione, ora Protezione) della Natura, Lei ha visto avvicendarsi diversi governi e ministri e ha accompagnato la fase cruciale dell'attuazione della legge quadro. Può ricapitolare per i nostri lettori i punti salienti di questi anni visti dalla sua posizione di alto funzionario? Quali battaglie, impressioni e tendenze si sono succedute?
«Sono stati anni pieni e difficili, ricchi di battaglie, alcune vinte e altre che richiedono ancora il nostro impegno. Ma su tutte, un risultato è stato raggiunto se penso a ciò che significa oggi il "sistema" dei Parchi. Oggi credo di potere affermare che tutti gli italiani abbiano ormai visitato un parco, almeno una volta nella loro vita, con la consapevolezza di entrare in un luogo in cui la natura è protetta.
Un risultato raggiunto grazie al lavoro svolto in più direzioni in questi anni per creare un'immagine positiva dei Parchi. Da una parte attraverso la creazione di un sistema di aree rappresentative degli ecosistemi del Paese e per assicurare un sistema di gestione che, in qualche modo, rispondesse almeno in parte alle necessità del territorio. Dall'altra si sono sviluppate campagne stampa e di comunicazione per fare conoscere le aree protette come opportunità e non come limite, puntando sui vantaggi dei Parchi e non sottolineando le necessarie limitazioni imposte dalla priorità della protezione.
Ora, ad esempio, sappiamo che i cittadini preferiscono comprare prodotti alimentari che hanno origine nei Parchi, acque minerali che sgorgano in zone protette, preferiscono mete di turismo lontano dai circuiti massificati che un tempo andavano per la maggiore. Tutto questo ha sviluppato una fitta trama di infinite realtà imprenditoriali, piccole ma ben radicate in territori altrimenti minacciati dall'abbandono. Vincere la diffidenza e sviluppare questa consapevolezza nel cittadino è stata la nostra sfida principale. E io credo che alla fine ci siamo riusciti.
Ora, però, questi risultati devono servire quale fulcro su cui posare la nostra leva istituzionale per raggiungere obiettivi ambientali più maturi e difficili. L'Unione Europea si è imposta di fermare la perdita di biodiversità entro il 2010, azione condivisa a livello mondiale. Ma la strada è ancora molto in salita, nonostante l'approssimarsi della scadenza, perché forse le istituzioni mondiali non sono ancora pronte a lavorare veramente ed in maniera efficiente verso questo tipo di obiettivi.
Per fare ciò, infatti, quello che manca è un dialogo costruttivo fra i diversi settori che gestiscono il territorio e le risorse naturali. Il giorno in cui le scelte decisionali relative alla pianificazione del territorio e ai processi produttivi, dalla pesca alle industrie, dalle attività di turismo all'agricoltura, terranno in giusto conto le necessità della conservazione degli ecosistemi, quel giorno, forse, non avremo più bisogno delle aree protette in quanto la natura sarà sufficientemente protetta ovunque. Quel giorno, secondo me, raggiungeremo l'obiettivo "2010"».
Quale giudizio può dare del ruolo svolto dalla Federparchi in questo processo di cui Lei è stato protagonista?
«Federparchi è stato un partner importante in molte di queste battaglie. Chi mi conosce sa bene che sono un tipo diretto e schietto. Nei Parchi ci sono stato in prima persona. Molte battaglie le ho condotte direttamente sul territorio insieme ai cittadini ed ai collaboratori delle aree protette. E' ovvio, però, che poter contare su una Organizzazione piccola, snella nelle procedure e professionale nei metodi, che potesse garantire il tramite fra i Parchi, il territorio e il Ministero in una maniera diversa da quella istituzionale e personale diretta ha rappresentato spesso un vantaggio risolutivo. Con Federparchi abbiamo lavorato insieme per creare un linguaggio comune fra di noi. Non dimentichiamo che il nostro è un mondo disomogeneo, nella nostra realtà coesistono scienziati, ambientalisti, amministratori, pianificatori, politici e semplici persone di buona volontà. Con Federparchi abbiamo cercato di fare sì che tutti questi potessero diventare dei professionisti della Protezione della Natura. Non solo. Io credo che Federparchi attraverso i risultati, la professionalità e la capacità dimostrata, sia riuscita a guadagnarsi la stima e la fiducia della società civile oltre che delle organizzazioni e degli enti con cui istituzionalmente si trova a dover collaborare».
Le conclusioni della Seconda Conferenza Nazionale delle Aree Protette di Torino individuarono una serie di azioni di cui si chiedeva l'attivazione. Sono per lo più rimaste promesse e buoni propositi così come il Piano Nazionale per la Biodiversità, la Carta della Natura e l'ambizioso progetto di Rete Ecologica Nazionale sembrano essere ancora in alto mare. Quali sono le ragioni di un tale ritardo nel rendere operativi i propositi? C'é qualche spiraglio perché questa situazione possa essere recuperata?
«Mi rendo conto che sulla carta alcune delle indicazioni della Seconda Conferenza sulle Aree Protette possano sembrare rimaste inattese. Però credo anche che sia possibile leggere i fatti in modo diverso.
La "struttura istituzionale" che ruota intorno alla protezione della natura è fatta da una ampia rete di soggetti, di cui il Ministero rappresenta, in un certo qual modo, il vertice. Ma ad esso si affiancano le agenzie ambientali, gli istituti di ricerca e di gestione, sul mare e sulla terra, le Aree Protette, le Università e molte altre più piccole realtà sul territorio.
Per usare un parallelo figurativo, il mio ruolo è più simile a quello di una guida scout: si decide una meta e io suggerisco l'itinerario. Le idee e le indicazioni che continuamente vengono sviluppate in ambiti quali la seconda conferenza che lei cita, ma anche tutte quelle nate nei vari contesti di confronto tecnico e scientifico sulla protezione della natura, più o meno istituzionali, nazionali e internazionali, rappresentano una base di lavoro su cui costruire. Insomma queste linee guida entrano in un grande sistema istituzionale, un sistema pensante dove le idee vengono elaborate da tecnici, sviluppate da esperti, dove nascono progetti, partono finanziamenti, si creano esperimenti ed azioni pilota. E come in tutte le "sperimentazioni", alcune cose funzionano altre vengono cambiate in corsa. Una su tutte la Strategia Nazionale sulla Biodiversità, non ancora definita ma di una tale importanza che merita tutti i nostri sforzi e il nostro impegno.
Nel 2010, a Nagoya, in Giappone, i 191 Paesi della CBD (Convenzione sulla Diversità Biologica) cercheranno di tirare le somme sull'effettiva efficacia delle azioni per ridurre la perdita di biodiversità e si porranno le basi per il lavoro che rimane da fare. Io credo che l'Italia debba arrivare all'appuntamento forte di una strategia nazionale chiara che identifichi i settori di attività importanti, i nostri punti di forza, le debolezze e le priorità per il lavoro dei prossimi 10 anni».
Il precedente Ministro annunciò per il 2009 la Terza Conferenza Nazionale delle Aree Protette. Per Federparchi si tratta di un appuntamento importante da tempo sollecitato. Quando crede si possa svolgere? Quale contributo potrà dare in questa direzione e poi alla discussione la Direzione Protezione della Natura?
«Per la globalità che riveste la "questione ambientale" è impossibile pensare che l'Italia (così come ogni altro paese) possa giocare un ruolo isolato dal resto del mondo. Una Terza Conferenza Nazionale sulle Aree Protette è necessaria, ma sarebbe assolutamente inutile e un grave errore, continuare a pianificare tali impegni senza tenere conto del calendario internazionale.
Il 2009 vedrà l'Italia alla presidenza del G8 e, come da consuetudine degli ultimi anni, anche in questa occasione il Summit viene preceduto da un sessione ministeriale sull'ambiente. Noi stiamo attualmente collaborando con gli sherpa dei vari Paesi per ottenere una visibilità delle questioni di biodiversità anche a livello di Summit dei Capi di Stato.
Ma il lavoro importante sarà quello di negoziare il testo finale con gli altri 7 governi e con gli altri Paesi che saranno invitati al G8 Ambiente che si terrà ad aprile. Stiamo lavorando per fare sì che il testo presentato al vertice dei Capi di Stato possa dare un chiaro mandato alla comunità internazionale, un po' come il WSSD (World Summit on Sustainable Development) fece con il suo Plan of Action.
Per quanto riguarda la Terza Conferenza, sarà l'occasione per presentare i risultati ottenuti dalla Direzione di cui sono a capo. E lo faremo attraverso dati concreti e scientifici sulle specie e gli habitat che stanno vivendo un'espansione o che sono comunque usciti da una situazione di pericolo o instabilità. Dimostrando, inoltre, che questi ora rappresentano delle vere risorse ambientali ed economiche per il Paese.
Il tutto senza nascondere gli insuccessi. Ma al contrario cercando la collaborazione della comunità scientifica e dei tecnici della protezione della natura per aiutarci a capire quali siano veramente le criticità maggiori del nostro territorio e quali politiche debbano essere adottate per garantire un più ampio successo».
Lei ha vissuto in prima persona un delicato periodo, a tutt'oggi non concluso, caratterizzato da molti commissariamenti negli Enti Parco, di cui è stato spesso investito in prima persona e che si sono a volte prolungati più del dovuto. Qual è il suo parere in merito alla loro reale necessità? Non crede, per contro, che possano aver causato "ingessature" e difficoltà per l'operato di molti parchi? Come può essere superata la situazione che portò a quelle scelte?
«I commissariamenti sono stati necessari. Gestire un Parco è un'impresa difficile, bisogna coniugare le necessità dei cittadini e il ruolo istituzionale di protezione, eliminare gli attriti, prevenire possibili conflitti e fare sempre scelte giuste.
Un ente parco deve gestire questioni legate allo sviluppo urbanistico, alle attività commerciali, alla gestione dei rifiuti, agli impianti energetici ma deve anche tenere in conto - per esempio - la biologia delle popolazioni dei cinghiali, i sistemi riproduttivi delle albanelle, il ruolo ecologico delle pozze temporanee e chissà quali altre variabili che ai profani non dicono nulla, ma che in un parco sono vitali. In tutto questo, l'ente parco è un ente pubblico, quindi deve garantire trasparenza nelle azioni, seguire procedure amministrative e tecniche complesse, compresi i controlli da parte dei competenti organi dello Stato. Questo per dire che i commissariamenti non sono stati sempre e solamente un atto politico ma, in una grande maggioranza dei casi, una vera e propria procedura istituzionale per recuperare situazioni che tecnicamente rischiavano una crisi, se non un collasso.
Nella mia esperienza di commissario ho dovuto risolvere una serie di questioni amministrative e procedurali per le quali è servita tutta la mia esperienza, più che trentennale, nelle istituzioni pubbliche.
Come Commissario, però, mi è anche capitato di dovere mettere a posto situazioni piuttosto ingarbugliate da meccanismi territoriali per i quali avevo il vantaggio principale di essere un "forestiero". Le confesso che per un Commissario di un Parco, vivere in un'altra regione è in molti casi un vantaggio notevole. Purtroppo a volte alcune scelte hanno scontentato settori della società civile locale. E' vero però che tali scelte si fanno per necessità, per assolvere al ruolo istituzionale di un Parco e, soprattutto, per portare nel medio o lungo periodo, un vantaggio maggiore degli svantaggi immediati».
Da anni i fondi destinati ai parchi versano in una situazione critica che ha toccato livelli molto bassi, al limite della sussistenza del sistema. Nei prossimi anni verranno meno anche i fondi europei che hanno sostenuto tanti progetti promossi dai parchi per realizzare importanti ricerche azioni ed attività. Quali risorse si possono ipotizzare per il futuro? E quali strumenti per un più volte evocato autofinanziamento che sia di ausilio e integrazione alle risorse pubbliche? Sarà sufficiente il ticket di ingresso cui ha fatto cenno il Ministro Prestigiacomo?
«Il sistema dei parchi è finanziato dal budget dello Stato in virtù del compito istituzionalmente riconosciuto che essi assolvono. Purtroppo queste risorse stanno effettivamente diminuendo, e vi assicuro che questo andamento italiano riflette un processo che sta investendo tutto il mondo occidentale. In uno studio IUCN di alcuni anni fa, l'Italia risultava uno dei Paesi europei che destinava maggiori fondi, e in maniera più costante, alle aree protette. Purtroppo a questa "generosità" non si è sempre affiancata un'efficienza di spesa ed una sufficiente efficacia nell'identificazione delle scelte strategicamente più valide per l'utilizzo di questi fondi. Ma questo è un altro discorso.
In tutto il mondo si sta andando verso l'identificazione di strumenti per l'autofinanziamento dei Parchi. Io, però, non credo che il vero problema per il sistema nazionale italiano sia scegliere quale sistema sviluppare per contribuire al costo istituzionale dello Stato, che dovrà continuare ad esistere.
Sicuramente ci sono anche in Italia realtà in cui il semplice biglietto di ingresso potrà rappresentare un reale contributo, così come credo che la creazione di "label", le etichette sui prodotti dei Parchi di cui accennavamo prima, stiano già creando non solo un possibile meccanismo di finanziamento interessante, ma anche un indotto relativamente importante. Così come questi, molti altri meccanismi si potranno sviluppare. Ma la vera sfida sarà quella di sviluppare dei sistemi che non snaturino il parco e non ne intacchino il potenziale di protezione della natura, che è il ruolo istituzionale per cui un parco viene creato. Anche se abbiamo lottato tanto per uscire da una visione ormai sorpassata dell'ambientalismo a vantaggio di filosofie più antropocentriche, in linea con l'ormai abusato "Ecosystem Approach" della CBD, non bisogna dimenticare che gli animali, le piante, gli ambienti naturali o semi-naturali vanno protetti. Le nuove teorie, per dirlo in estrema sintesi e non me ne vogliano i teorici della filosofia delle scienze, dicono che non bisogna salvare animali e piante per questioni etiche ma per motivi utilitaristici. Proteggiamo la natura perché la amiamo e perché dobbiamo, ma perché ci serve e servirà ai nostri nipoti, e ai nipoti dei nostri nipoti.
Perché, come anche si evince dal recente studio sui risvolti economici della biodiversità (il famoso TEEB "The Economics of Ecosystems & Biodiversity" dell'economista indiano Pavan Sukhdev) non si sviluppa un'economia stabile e duratura senza un sistema ambientale sano e che garantisca i cosiddetti servizi ecosistemici.
Così come è ovviamente instabile un sistema che confida troppo nei finanziamenti Comunitari. I fondi resi disponibili dalla Commissione Europea attraverso i vari programmi di finanziamento che si sono susseguiti negli anni, hanno generalmente privilegiato programmi e progetti che andassero verso lo sviluppo di sistemi di auto-sostentamento. Il Ministero ha iniziato a lavorare, nel caso specifico insieme a Federparchi e per i progetti Life+, per aiutare i parchi a fare le scelte strategiche più giuste a riguardo. Credo che questo sia un ambito in cui dovremo continuare lavorare e sempre con maggiore impegno e con il coinvolgimento di figure professionali maggiormente diversificate».
La necessità di una riforma dell'organizzazione delle Aree Marine Protette è sostenuta ormai generalmente. Quali pensa possano essere le linee guida in tal senso ricavate dall'esperienza di questi anni?
«Un tempo si pensava "la terra è terra e il mare è mare". Quindi si facevano aree protette terrestri e aree protette in mare. Ora ci si rende conto che le scelte che si fanno a terra "finiscono in mare" e che non si possono gestire le aree marine senza prendere in considerazione quello succede a terra. La Convenzione di Barcellona, il processo delle Nazioni Unite per la protezione del Mediterraneo, ha recentemente sviluppato un protocollo sulla gestione integrata della fascia costiera. La mia Direzione ha partecipato in maniera molto attiva al processo tecnico e scientifico che ha sviluppato questo protocollo, e molte delle esperienze fatte, che lei cita, e che ci porteranno ad un qualche tipo di riforma, sono state elaborate anche in quel processo internazionale. E proprio in quel contesto abbiamo portato le nostre esperienze nei vari fora organizzati dalla Convenzione di Barcellona, esperienze che si sono integrate con quelle degli altri Paesi del Mediterraneo. A conclusione dei lavori i tecnici dei vari Paesi hanno presentato una proposta molto valida, che teneva in conto le necessità di tutti. Io credo che ora si dovrà lavorare per dare operatività a questo giovanissimo protocollo, che compie un anno proprio in questi giorni. Le dico la "data di nascita" del protocollo anche per dimostrare che sulle aree marine protette il dibattito tecnico e scientifico è ancora molto indietro in quasi tutto il mondo. Un altro processo molto importante, ad esempio, è quello che si sta ancora sviluppando sulle aree marine protette cosiddette di "alto mare", ossia al di fuori delle acque di giurisdizione nazionale. L'Italia sta seguendo con attenzione anche questo processo, soprattutto per capire come questo si adatti al Mar Mediterraneo. A testimonianza della nostra attenzione sul tema, anche su questo abbiamo un piccolo primato visto che il Santuario Pelagos che abbiamo istituito con Francia e Monaco è per circa metà fuori dalle acque di giurisdizione nazionale.
Insomma stiamo lavorando con la comunità internazionale su vari fronti come, per esempio, cercare di individuare un organismo che possa essere responsabile per l'identificazione, l'istituzione e la gestione dei larghi tratti di mare che non sono di nessuno. O che anzi, per dirla meglio ricordando la caratteristica peculiare della natura, sono di tutti».
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