Federparchi
Federazione Italiana Parchi e Riserve Naturali


PARCHI
Rivista della Federazione Italiana Parchi e delle Riserve Naturali
NUMERO 55



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I boschi dei Castelli Romani per Kyoto

più ossigeno per la capitale e meno CO2 per l'Italia

Un parco di 27.000 ettari alle porte di Roma: 15 comuni e 350.000 abitanti, ma anche un ventaglio di boschi che ne ricopre metà della superficie. È il residuo delle foreste originarie su cui si sono innestati i castagni introdotti nel XVII secolo per motivi prettamente economici. Questo il paesaggio del Parco dei Castelli Romani che si sviluppa su un territorio vulcanico fertile e ricco d'acqua.

Nonostante le manomissioni degli ultimi decenni, le foreste governate a ceduo castanile hanno resistito, e ora si affaccia una nuova possibilità di gestione, diversa da quella tradizionale del taglio. È necessario solo certificare le emissioni di ossigeno che compensano la CO2. Il risultato è una piccola rivoluzione, che se proposta su vasta scala potrebbe cambiare gli incerti equilibri su cui in Italia si basa il rispetto del Protocollo di Kyoto. Per il territorio del Parco gli effetti sono alcune interessanti modifiche gestionali nella conduzione dei cedui e della loro redditività, con ricadute ambientali e paesaggistiche che potrebbero essere molto positive. Ai proprietari spesso non è ancora chiaro ciò che il Parco propone. Nonostante tutto e a conferma dell'azione del Parco, l'Unione Nazionale dei Comuni delle Comunità Montane (proprietaria di diversi milioni di ettari in Italia) ha appena dato inizio a un progetto denominato "Crediti di prossimità" per finanziare, attraverso la vendita dei crediti di carbonio, interventi di gestione forestale previsti dal Protocollo di Kyoto.

Il territorio del Parco
Nel 1984, sulla spinta di una proposta di legge popolare, fu istituito il Parco regionale dei Castelli Romani. Un'origine così particolare deriva dalla indiscutibile bellezza dei luoghi che ha connotato il territorio fin dai tempi più antichi. Colline boscose, fertili valli, ricchezza d'acqua, clima mite, aria salubre, posizione strategica, vicinanza con Roma. I Castelli Romani, così definiti dal XVI secolo, sono arrivati quasi intatti fino al secolo scorso nelle loro particolarità ambientali, mantenendo una notevole integrità anche rispetto all'originario impianto vulcanico su cui si sono geologicamente formati. Gli inarrestabili processi di trasformazione degli ultimi decenni hanno prodotto profonde modifiche, sociali, territoriali e del paesaggio. Ciononostante le dorsali che attraversano il territorio del parco (via Tuscolana, via dei Laghi e l'Appia) offrono panorami e visuali ancora molto belli, spesso inaspettati, e talvolta insospettabili. Da Monte Cavo, l'antico Mons Albanus carico di storia, testimonianze archeologiche e individuabile da Roma a scala geografica, voltate le spalle alla orrenda selva di antenne per le telecomunicazioni che ormai da tempo ne affollano la vetta (saranno delocalizzate), si gode di un panorama che comprende tutta Roma, spazia fino al mare e nelle giornate limpide permette allo sguardo di cogliere il Circeo e le isole Pontine, a più di cento chilometri in linea d'aria. Tutto intorno boschi. Un verde di varie sfumature che lascia intuire la diversità delle specie. Dalle macchie più scure del leccio, a quelle più chiare del nocciolo, del carpino e del castagno. Il castagno, introdotto nel XVII secolo per i vantaggi economici derivanti dallo sfruttamento del legno ha progressivamente colonizzato il paesaggio vegetale, connotandolo in maniera quasi uniforme. Qua e là comunque resiste qualche area residuale dell'originario bosco misto. Il Parco comprende 15.000 ettari, 27.000 con l'area contigua. Con questa rappresenta il secondo parco del Lazio per estensione (dopo il parco dei Monti Simbruini, area protetta appenninica). Per poco meno della metà è coperto da boschi, in prevalenza di castagno. L'attività prevalente nella loro conduzione è il ceduo castanile.

Il Protocollo di Kyoto
Il 16 febbraio 2005, con l'adesione della Russia, è entrato in vigore l'ormai celebre Protocollo di Kyoto che detta di obiettivi di riduzione dei gas a effetto serra (l'anidride carbonica, il metano, il protossido di azoto, i fluorocarburi idrati, i perfluorocarburi, l'esafluoruro di zolfo) per i Paesi industrializzati e quelli ad economia in transizione del centro – est europeo. Il Protocollo impegna i Paesi industrializzati e quelli ad economia in transizione a ridurre complessivamente del 5,2% le principali emissioni di gas capaci di alterare l'effetto serra naturale del nostro pianeta nel periodo 2008-2012. La riduzione non è uguale per tutti. Per il Paesi dell'Unione Europea, nel loro insieme, la riduzione deve essere dell'8%, per gli Stati Uniti del 7% e per il Giappone del 6%. Nessuna riduzione, ma solo una stabilizzazione è prevista per la Federazione Russa, la Nuova Zelanda e l'Ucraina. Possono, invece, aumentare le loro emissioni fino all'1% la Norvegia, fino all'8% l'Australia e fino al 10% l'Islanda. L'Unione Europea, che è stata tra i principali sostenitori politici del Protocollo, ha un obiettivo generale di ridurre le emissioni dell'8% rispetto ai livelli del 1990. Tra i Paesi dell'UE gli obiettivi sono diversificati. L'Italia che ha un obiettivo di riduzione del 6,5%, si trova tra i Paesi europei in maggiore difficoltà nell'applicazione del Protocollo di Kyoto. Ad oggi, al contrario, ha infatti aumentato le proprie emissioni del 12-13%. L'anno di riferimento da prendere in considerazione per verificare l'avvenuta riduzione delle emissioni dei primi tre gas (anidride carbonica, metano e protossido d'azoto) è il 1990, mentre per i rimanenti tre (che sono anche gas lesivi dell'ozono stratosferico e che per altri aspetti rientrano in un altro protocollo: il Protocollo di Montreal) è il 1995.
Per la riduzione delle emissioni, il Protocollo individua come prioritari alcuni settori:
• l'energia, intesa sia come combustione di combustibili fossili nella produzione ed utilizzazione dell'energia che sia come emissioni non controllate di fonti energetiche di origine fossile (carbone, metano, petrolio e suoi derivati);
• i processi industriali, in particolare quelli relativi all'industria chimica, metallurgica, nella produzione di prodotti minerali, di idrocarburi alogenati, di solventi;
• l'agricoltura, intesa come zootecnia e fermentazione enterica, uso dei terreni agricoli, coltivazione di riso, combustione di residui agricoli;
• i rifiuti, intesi come discariche sul territorio, gestione di rifiuti liquidi, impianti di trattamento ed incenerimento.
Sullo sfondo rimane comunque l'enormità della perdurante emergenza del taglio delle foreste. Una devastazione che ha prodotto la sottrazione dell'80% dei boschi originari del pianeta. Un quinto di questa percentuale è attribuibile al disboscamento causato dall'approvvigionamento di legname. Le altre cause della deforestazione derivano dalla richiesta di terreni per l'agricoltura e l'allevamento. Gli abbattimenti hanno causato, secondo il Protocollo di Kyoto, un calo del 15-20% delle capacità di sottrazione dell'anidride carbonica dall'atmosfera. Nel caso si decida di reintegrare il patrimonio boschivo che copriva la Terra appena dieci anni fa, sarebbe necessario piantare 120-150 miliardi di alberi! Ciò potrebbe interessare una superficie di circa un milione e 300 mila chilometri quadrati, ossia un'area paragonabile a quattro volte l'Italia. La situazione delle foreste è leggermente migliorata negli anni più recenti, esse sono tuttavia ancora fortemente debilitate per la massiccia deforestazione degli ultimi decenni. La perdita del patrimonio boschivo ha indotto inoltre una perdita incalcolabile di biodiversità, le foreste infatti sono abitate da oltre l'80% delle specie terrestri del nostro pianeta.
Per favorire non solo l'attuazione degli obblighi, ma anche la cooperazione internazionale, il Protocollo di Kyoto introduce alcune novità rispetto alla Convenzione quadro: oltre alla "joint implementation" - ovvero l'attuazione congiunta degli obblighi definiti dal Protocollo prevista come strumento di cooperazione all'interno del gruppo di Paesi a cui è destinato il Protocollo stesso, cioè fra i Paesi industrializzati e quelli ad economia in transizione (o perennemente in via di sviluppo) - l' "emission trading", vale a dire la commercializzazione dei diritti di emissione - in quanto si stabilisce la possibilità, nell'esecuzione dei propri obblighi, di trasferire i propri diritti di emissione o acquistare i diritti di emissione di un altro Paese (se un Paese riesce a ridurre le proprie emissioni più della quota assegnata può vendere la rimanente parte delle sue emissioni consentite ad un altro Paese che non sia in grado di raggiungere l'obiettivo che gli spetta - e il "clean development mechanism" - uno strumento attuativo orientato a favorire la collaborazione internazionale e la cooperazione tra Paesi industrializzati e Paesi in via di sviluppo su programmi e progetti congiunti.
L'Italia accumula un debito di 4,1 milioni di euro al giorno per lo sforamento delle emissioni di CO2 rispetto all'obiettivo previsto dal Protocollo di Kyoto, ovvero circa 1,5 miliardi di euro l'anno a fine 2008. Una maxi-multa collettiva. Una tassa destinata a diventare sempre meno occulta e a gravare - se non si provvederà per tempo - sulle casse nazionali; con correlati inevitabili dissesti sul patrimonio naturale e soprattutto sulla salute dei cittadini per le ovvie ricadute ambientali dei mancati provvedimenti di mitigazione. Questo costo deriva dal divario di oltre 75 milioni di tonnellate di CO2 (aggiornamento al marzo 2008) che ci separa dagli obiettivi di Kyoto, con un livello di emissioni superiore almeno del 10% rispetto al 1990. Va ricordato che nel periodo di adempimento 2008-2012, la quantità di emissioni assegnate all'Italia è pari a 483 Mt CO2 eq ( -6,5% rispetto al 1990). Il settore sul quale grava le maggiore negatività è quello industriale, che senza una rapida inversione di tendenza sarà costretto a pagare 20 euro per ogni tonnellata di anidride carbonica emessa in atmosfera, in forza delle sanzioni previste nell'accordo, per acquistare "diritti di emissione" e ricorrere ai meccanismi flessibili dei "crediti di carbonio". Inquinamento, traffico, salute, cambiamenti climatici, ecosistemi, agricoltura sono gli altri settori esposti ai notevoli rischi della non riduzione delle emissioni, con forti penalizzazioni economiche che avranno ricadute collettive a livello sociale. L'inerzia comportamentale che spesso caratterizza la programmazione politica potrebbe avviare l'Italia verso un irreversibile avvitamento sanzionatorio che potrebbe creare insofferenza rispetto all'Europa e una deleteria percezione solo economicistica delle più generali contraddizioni ambientali che caratterizzano il nostro modello produttivo.
Mettere in atto un piano per la riduzione o la compensazione della CO2 rappresenta un innegabile vantaggio ambientale e una matematica convenienza economica. Prima arriverà ad essere patrimonio culturale collettivo, specialmente dei decisori politici, meglio sarà per tutti. Intanto in questi giorni si assiste ad un contrasto di valore simbolico: l'ulteriore riduzione delle emissioni di CO2 emessa dalle automobili dal 2012, imposta per legge dal Parlamento europeo, con molte difficoltà perché avversata dalle lobby automobilistiche.

Le opportunità per i proprietari delle foreste
Ai fini della riduzione delle emissioni di gas di serra non va tenuto conto solo dei rilasci in atmosfera dei gas serra provenienti dalle attività umane, ma anche degli assorbimenti che vengono effettuati dall'atmosfera attraverso idonei assorbitori che eliminano tali gas e li immagazzinano opportunamente in modo da non aumentare l'effetto serra naturale. Uno dei principali assorbitori (sink) in particolare dell'anidride carbonica, è costituito da piante, alberi e, in generale, dall'accumulo di biomassa, attraverso la crescita della copertura vegetale. Le piante, infatti, assorbendo CO2 nel processo di fotosintesi, fungono da mezzi per fissare il carbonio nella biomassa e nel suolo, a loro volta considerati delle vere e proprie riserve di carbonio (carbon stocks) sulla superficie terrestre. Si può affermare che, nell'ambito del Protocollo di Kyoto, la promozione di attività che aumentino o conservino queste riserve viene vista come un supporto alle strategie di contenimento e riduzione delle emissioni nei settori energetici e produttivi, in attesa che si diffondano tecnologie pulite e alternative ai combustibili fossili. Le azioni di forestazione possono essere di due tipi: "riforestazione", cioè incremento della crescita delle foreste su aree che erano già forestali e che incendi boschivi o l'azione umana hanno distrutto o depauperato, oppure "afforestazione", cioè impianto di nuovi boschi e nuove foreste su territori potenzialmente idonei o da rendere idonei, ma che in passato non erano sede di boschi e foreste.
Alla COP7 (Conferences of the Parties n.7), tenutasi a Marrakech nel 2001, si è arrivati ad una precisa definizione di foresta, e quindi di afforestazione e riforestazione, e di tutte le misure LULUCF (Land use, Land-use Change and Forestry), ovvero attività di "uso del suolo, cambio d'uso del suolo e forestali", ora diventato AFOLU (Agriculture, Forestry and Other Land Use), previste all'art. 3 del Protocollo, con l'individuazione di quattro attività addizionali: la gestione forestale (Forest Management – FM), la gestione dei coltivazioni (Cropland Management – CM), la gestione dei pascoli (Grazing Land Management – GM) e la rivegetazione (Revegetation – RV).
La definizione di cosa si intenda per gestione forestale è molto ampia: si fa riferimento alla promozione di pratiche gestionali finalizzate al miglioramento di funzioni ecologiche (compresa la tutela della biodiversità), economiche e sociali. In linea del tutto generale tre sono i metodi possibili di compensazione nel ciclo del carbonio attraverso il settore primario:
• conservazione delle riserve di carbonio attraverso la protezione dei suoli e delle foreste esistenti;
• aumento delle riserve di carbonio biologico attraverso una migliore gestione delle attività nel settore (ad esempio: aumento degli stock forestali, riduzione dei prelievi di biomasse legnose, miglioramento delle tecniche di lavorazione dei suoli, prevenzione degli incendi, nuovi impianti e pratiche agroforestali);
• sostituzione di combustibili fossili con biomasse.
Per l'Italia le pratiche di gestione forestale con effetti sulle funzioni di fissazione si identificano principalmente nell'allungamento dei turni, nell'invecchiamento e conversione dei cedui, nella riduzione degli incendi, nell'aumento della densità dei boschi.
La rivegetazione può essere considerata come un'attività di confine tra le misure forestali e agricole in quanto è rappresentata da pratiche che portano a creare una copertura vegetale che non raggiunge i criteri minimi di foresta (ad esempio il rinverdimento di ex cave o discariche). Da un punto di vista quantitativo occorre ricordare che all'Italia è stato concesso un limite di rendicontabilità per le misure di gestione forestale (art. 3.4 del Protocollo) relativamente elevato: 10,2 milioni t CO2/anno, pari a più del 10% del totale dell'impegno di riduzione delle emissioni ufficialmente assunto dall'Italia. Nei piano nazionale si ipotizza inoltre di rendicontare, per l'art. 3.3 relativo ai rimboschimenti, ulteriori 6 milioni di t CO2, di cui la metà connessi ai fenomeni di espansione naturale del bosco su ex coltivi.Con il Decreto del 2.2.2005 del Ministero dell'Ambiente, si è manifestata formalmente una volontà politica di organizzare un "Registro Nazionale dei Serbatoi di Carbonio Agro-Forestali", che dovrebbe monitorare tutti i terreni potenzialmente interessati alle attività agricole e forestali sul territorio italiano, di fatto solo quelle forestali dal momento che il governo ha scelto per ora di escludere le attività agricole dal sistema di rendicontazione del Protocollo. In sintesi si può affermare che le attuali opportunità per i proprietari forestali e agricoli di beneficiare del mercato dei crediti di carbonio prevedono cinque diverse opzioni:
1) Un proprietario può affittare i propri terreni a organizzazioni e società, che usano i fondi di investimento di compagnie private o investitori istituzionali, per realizzare piantagioni forestali o coltivazioni agrarie gestite in modo da originare crediti di carbonio. In questo caso è ovvio che non esistono investimenti iniziali a carico dei proprietari, né costi di gestione; a loro vantaggio, viceversa, si avrebbero invece introiti immediati.
2) Alternativamente, un imprenditore agricolo o forestale può realizzare sui propri suoli una piantagione forestale, con finalità produttive legnose. Ciò significa che i proprietari si fanno carico degli investimenti iniziali e dei costi di mantenimento, si assumono la responsabilità per eventuali debiti, per ricevere i profitti derivanti dalla vendita dei crediti man mano che si formano e, alla fine del ciclo, di quelli derivanti dalla vendita dei prodotti legnosi forestali.
3) Una terza opzione è rappresentata dalla possibilità di realizzare piantagioni arboree o arbustive con finalità diverse da quella di produzione legnosa, ma per migliorare il paesaggio, accrescere la biodiversità, controllare l'erosione, combattere la desertificazione, produrre frutti di bosco o tartufi, ecc., con l'intenzione di non tagliarle mai. Ciò comporta che non ci siano entrate dalla vendita di legname, ma solo dai crediti di carbonio (ed eventualmente dalla vendita di prodotti non legnosi).
4) Una quarta opzione è data dall'allungamento dei turni dei boschi cedui, con la possibilità di ottenere legname di maggiore qualità e quindi di maggiore valore economico.
5) Infine, un imprenditore può decidere di adottare sui propri terreni modalità agronomiche in grado di aumentare il livello di sostanza organica nel suolo e nella lettiera, anche se questo può comportare una riduzione della produzione lorda vendibile. Tuttavia, l'imprenditore potrà ricevere redditi dalla vendita di crediti di carbonio formati dall'accumulo di sostanza organica nel suolo a seguito dell'adozione di determinate pratiche agronomiche (eventualmente grazie anche ai sussidi messi a disposizione da alcune misure comunitarie dei Piani di Sviluppo Rurale).
Attualmente una tonnellata di CO2 equivalente è quotata, a seconda degli schemi di mercato, attorno ai 23 euro.

Il caso dei Castelli Romani
Il Parco dei Castelli Romani ha un territorio prevalentemente collinare, che da pochi metri sul livello del mare arriva ai quasi mille delle vette più alte. Nonostante le manomissioni degli ultimi decenni, le foreste governate a ceduo castanile sono in buona salute e ricoprono una porzione ingente dell'area protetta. Una parte consistente è di proprietà comunale (i comuni del Parco sono 15), con frazioni più piccole ad uso civico. Il solo Comune di Rocca di Papa, per esempio, è proprietario di quasi 2.000 ettari di bosco di castagno coltivato a ceduo.
Il Parco si è reso garante di un progetto voluto da British American Tobacco Italia SpA, società multinazionale che, su base volontaria, ha scelto di bilanciare le proprie emissioni di CO2 in maniera certificata. Al progetto partecipano diversi altri soggetti: il proprietario del bosco (il Comune di Rocca di Papa), un istituto di certificazione (RINA), un ente scientifico indipendente (DICHEP) e un ente ONLUS di tutela ambientale (Fondazione Terra). Il meccanismo, al di là della complessità tecnica del percorso amministrativo da seguire, relativa soprattutto al fatto che si presenta come piuttosto innovativo rispetto alle pratiche comuni, sia per le industrie che decidano di certificare le compensazioni di CO2, sia per i proprietari dei boschi, ha una sua logica elementare: le emissioni di ossigeno derivanti dal non taglio del bosco, unitamente ad altre attività di tutela all'interno dell'area boschiva assegnata, vengono utilizzate dalla società ai fini della compensazione delle proprie emissioni di CO2 e certificate da un ente indipendente di verifica. Il risultato potrebbe essere una piccola rivoluzione, che se proposta su vasta scala potrebbe cambiare gli incerti equilibri su cui si basa il rispetto del Protocollo di Kyoto in Italia. Per il territorio del Parco questo significa proporre alcune interessanti modifiche gestionali nella conduzione dei cedui, che oltre a portare una tangibile convenienza economica alle proprietà, inducono positive ricadute ambientali e paesaggistiche innescate dai mancati tagli o dal prolungamento delle turnazioni di taglio. Al Parco il progetto si realizza su una base temporale di due anni e su 337 ettari di bosco a prevalenza di castagno. L'accordo prevede diverse attività tra cui la pulizia del sottobosco, la sostituzione di piante in caso di atti di vandalismo, taglio abusivo, malattia ed incendio, la limitazione dei permessi sui tagli, la sistemazione e pulizia dei percorsi sterrati, la pulizia degli alvei dei ruscelli. Il ristoro economico è consistente e proporzionalmente ripartito tra soggetti concorrenti. Questo semplice meccanismo non è codificato da una prassi consolidata, spesso è quasi sconosciuto anche agli operatori locali del settore e finora ha trovato scarsa o nulla applicazione in Italia. Si tratta però di un settore in fermento, basta pensare al progetto Roma per Kyoto o alle amministrazioni locali che aderiscono ad "Alleanza per il Clima" od al "Coordinamento Nazionale delle Agende 21 Locali Italiane" e che hanno firmato il "Patto per il Clima", con il quale si impegnano ad attuare interventi di riduzione ed assorbimento della CO2, oppure basta fare riferimento ai privati che si stanno muovendo in questo campo (come le centinaia di imprese che, sulla base di proprie politiche ambientali e di sostenibilità stanno aumentando gli interventi per il "carbon offset").

Valori economici
Il taglio di un ettaro di bosco a prevalenza di castagno, considerate le molte variabili in gioco (indice di copertura, acclività, accessibilità, turno di taglio, etc...), a 20 anni può valere da 15.000 a 20.000 euro circa di ricavo per il proprietario. Ovvero da 750 a 1.000 euro ettaro/anno. Nel caso dei Castelli Romani l'intervento riguarda un'area di 337 ettari in due anni, e produce un ricavo di 110 euro ettaro/anno. Naturalmente questo non preclude la possibilità della ceduazione dopo il periodo relativo all'accordo. Per il normale taglio il ricavo economico non è immediato, ma si sposta in avanti degli anni relativi al turno di taglio (mediamente intorno ai 20-25 anni, ma può arrivare anche a 35). In questo caso c'è da considerare l'attualizzazione degli importi percepiti in un arco temporale pari al turno di ceduazione. Considerando, ad esempio, un tasso di riferimento uguale al tasso BCE e tenendo conto della diversa distribuzione temporale dei due ricavi, il risultato migliora il dato economico relativo all'abbattimento della CO2, appunto perché immediato.
In buona sostanza i ricavi derivanti dall'assorbimento della CO2 sono al massimo annuali, mentre per il taglio, posposto di molti anni, il valore economico deve essere valutato anche alla luce di questo fattore.

Certificazione e registrazione dei crediti di carbonio
Il calcolo degli assorbimenti di carbonio, che per un allungamento dei turni di taglio del bosco ceduo può essere stimato tra 5 e 10 tonnellate/ha, è uno degli elementi fondamentali per quantificare la portata dei progetti, e subordinatamente per il raggiungimento degli obiettivi del Protocollo di Kyoto.
I meccanismi dell'EU-ETS e del Protocollo di Kyoto trattano diverse "commodities", tra le altre il VER (Verified Emission Reduction), rilasciata a seguito di progetti di riduzione delle emissioni di CO2 volontari, verificati da una parte terza indipendente, come appunto nel caso del Parco dei Castelli Romani.
In Italia manca ancora il "Registro Nazionale dei Serbatoi di Carbonio Agro-Forestali". Il CE.Si.S.P., Centro Interuniversitario (costituito tra il DICheP dell'Università di Genova, il DISMIC del Politecnico di Torino e la Scuola Superiore S. Anna di Pisa) gestisce il Registro VER e CO2care (e CO2 Carbon Account Registry, www.eco2care.org). Tale registro, che fornisce l'accesso ai progetti certificati da RINA SpA in materia di riduzione delle emissioni di CO2, fornisce il quantitativo di CO2 non emessa o fissata, legata alla contabilità e registrazione dei crediti di tipo VER. Tale quantitativo costituisce un credito di CO2 certificato dal RINA.
È appena il caso di notare che per un'area protetta esiste comunque un beneficio derivante dal valore ambientale di un'operazione che seppure finalizzata alla comunque positiva contabilità degli assorbimenti delle emissioni di carbonio, può garantire una corretta manutenzione del territorio, un miglioramento degli equilibri ecologici e una tutela dal punto di vista paesaggistico derivante dalla rinuncia al taglio o dall'allungamento dei cicli di turnazione.

Roberto Sinibaldi