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Federazione Italiana Parchi e Riserve Naturali


PARCHI
Rivista della Federazione Italiana Parchi e delle Riserve Naturali
NUMERO 55



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Aurelio Peccei: evitare il malpasso dell'Umanità

Evitare il malpasso dell'Umanità Prendere su di sé la responsabilità per il bene comune

Cent'anni fa nasceva Aurelio Peccei, uomo d'impresa illuminato, capace di una visione globale, precursore della necessità di sviluppo sostenibile, teorizzato con largo anticipo rispetto alla Conferenza internazionale sull'ambiente di Rio de Janeiro.
Ne ricordiamo la figura e l'opera, svolta, in questo settore, attraverso quel Club di Roma di cui ricorre il quarantennale della fondazione.

La catena del pensiero corre immediata da Aurelio Peccei al Club di Roma, alla ricerca sui "I limiti dello sviluppo", commissionata al MIT (Massachusset Institute of Technology). La collocazione temporale ci porta ai primi anni Settanta del secolo scorso e si inserisce in un clima generale che ha spostato la sua attenzione e l'allarme sui temi ambientali, su come l'Umanità sta ignorando gli effetti negativi che l'epoca della veloce espansione industriale e dell'improvviso irrompere del benessere nelle società occidentali rischia di portare con se per le ricadute sugli equilibri naturali e sull'ambiente in generale.

La nascita di una coscienza ecologica
La coscienza ecologica che ha rivelato i suoi primi fermenti a partire dal dopoguerra e che dagli anni Sessanta si è fortemente sviluppata negli Stati Uniti arriva anche nel vecchio continente.
In libreria compaiono le traduzioni dei libri di Rachel Carson, primo tra tutti "Silent Spring/Primavera silenziosa", coraggiosa denuncia dei danni ambientali provocati dall'industrializzazione dell'agricoltura che porta con sé il massiccio impiego di prodotti chimici per la produzione (fertilizzanti) e per la difesa delle colture (pesticidi), piuttosto che di quelli di Barry Commoner, mentre a supporto arrivano i primi saggi targati "The Ecologist" con Goldsmith e Allen di "La morte Ecologica" e il contributo francese con Renè Dumont, "L'utopia o la morte".
Il messaggio è raccolto, in Italia da una schiera di studiosi e di giornalisti, da Dario Paccino ad Alfredo Todisco, da Giorgio Nebbia a Mario Fazio, da Antonio Cederna a Fabrizio Giovenale…
In questa atmosfera di presa di coscienza generalizzata sulle tematiche ambientali e sui rischi per il Pianeta Terra le associazioni ambientaliste storiche si rafforzano, mentre ne nascono altre di timbro più politico e militante destinate a nutrire quel movimento ecologista che approderà poi nella deludente esperienza politica dei Verdi.
Un quadro in cui Aurelio Peccei rappresenta se non una anomalia, almeno una curiosa eccezione, ponendosi come illuminato rappresentante dell'imprenditoria che si domanda, responsabilmente, quale sarà l'impatto che l'era industriale avrà sul futuro in termini di consumo degli spazi e delle risorse a confronto con i limiti del Pianeta.
Il suo pensiero è stato a lungo osteggiato da un imbarazzante silenzio che sembra tuttora permanere in una classe dirigente che si ostina a ignorarne la portata per il nostro futuro. La tesi di partenza è, apparentemente, molto semplice: occorre immaginare un governo della crescita che non si può pensare infinita in un mondo che ha confini precisi. Tra le riflessioni che il rapporto del Club di Roma evidenzia, vi sono quelle sull'esplosione demografica e sul rapporto tra Paesi sviluppati e Sud del mondo.

La bomba demografica
Il primo è tema nodale, punto di partenza per ogni seria riflessione sui limiti delle crescita. «Mettete dei batteri in una provetta, con nutrimento e ossigeno ed essi prolificheranno in modo esplosivo, raddoppiando di numero ogni venti minuti circa, fino a formare una massa visibile e solida. Ma a un certo punto la moltiplicazione cessa, man mano che i microbi vengono avvelenati dai loro stessi prodotti di rifiuto. Nel centro di questa massa verrà così a costituirsi un nucleo di batteri morti o morenti, tagliati fuori dal nutrimento e dall'ossigeno del proprio ambiente dalla solida barriera dei loro vicini. Il numero dei batteri viventi si ridurrà quasi a zero, a meno che le materie di rifiuto non vengano eliminate. L'umanità si trova oggi in una situazione simile. La popolazione sta aumentando in maniera esplosiva, ma i prodotti di rifiuto della tecnologia cominciano a esigere il loro tributo. Le materie inquinanti che avvelenano l'aria e l'acqua non sono soltanto uno sgradevole sottoprodotto delle tecnologia, esse costituiscono una minaccia per la vita, proprio perché l'incremento demografico è stato così anormalmente rapido. Queste materie nocive fanno parte del meccanismo di reazione con il quale la natura cerca di frenare una crescita eccessiva. Lo sfacelo finale della popolazione, quando le difficoltà su larga scala diverranno schiaccianti, deve ancora arrivare. Se l'esperienza di altre specie può servire da esempio, la popolazione sarà ridotta all'incirca a un terzo della sua cifra massima. In tutte le forme di vita animale si notano periodiche esplosioni demografiche. Queste terminano tutte con un crollo». È l'evocativo inizio del primo capitolo "L'uomo, questo microbo", de "La società suicida" di Gordon R. Taylor, che entra a piedi giunti nel nocciolo del problema: la crescita demografica senza limiti. Argomento ancora oggi tabù se è vero che tuttora un noto e ascoltato formatore d'opinione come il giornalista Piero Angela percorre l'Italia a presentare un libro che pone l'accento e l'allarme sul presunto declino delle nascite, che porterebbe a un paese di vecchi e all'impossibilità di pagare loro le pensioni… Informazione del tutto priva di fondamento se si decidesse - come correttezza scientifica vorrebbe - di considerare, nelle cifre della statistica demografica, anche i cittadini immigrati e i loro figli. Come con caparbia ostinazione ci avverte, tra i pochi, Giovanni Sartori dalle pagine del Corriere della Sera: «La semplice verità e che la fame sta vincendo perché ci rifiutiamo di ammettere che la soluzione non è aumentare il cibo ma diminuire le nascite e cioè le bocche da sfamare. La Fao, la Chiesa e altri ancora si ostinano a credere che 6-8 miliardi di persone consentano uno sviluppo ancora sostenibile. No. Più mangianti si traducono oggi in più affamati. I 30 mila bambini che muoiono di fame ogni giorno li ha sulla coscienza chi li fa nascere. [...] Provo ogni tanto a ricordare che all'origine di tutti i nostri mali, ivi incluso il disastro ecologico, sta l'esplosione demografica. [...] Ma è un predicare al vento. Sul punto si è creato un blocco mentale. L'argomento è tabù, è religiosamente scorrettissimo e proprio non se ne deve parlare. E così continuiamo a essere impegnati in una rincorsa inevitabilmente perdente, insensata e anche suicida». I limiti della crescita riguardano anche la popolazione umana tanto più se la tendenza è verso una sua regolamentazione consapevole e non ci rassegniamo invece alla fatalistica necessità di regolatori esterni: carestie, epidemie, guerre, catastrofi più o meno naturali… L'affidamento fideistico a taumaturgiche capacità di autoregolazione dei sistemi non è perseguibile e assai raramente si verifica. Stiamo per sperimentare sulle nostre vite le conseguenze drammatiche della crisi dei mercati finanziari, nonostante i profeti del neoliberismo senza limiti magnificassero, tranquillizzandoci, le capacità di autoregolamentazione dei mercati. Com'è finita lo stiamo vedendo e subendo.

Storia di Aurelio
Aurelio Peccei nacque 1908 a Torino da una famiglia di ispirazione socialista.
Presso l'Università della città subalpina si laureò, in Economia, nel 1930. Quindi frequenta la Sorbonne grazie ad una borsa di studio e si aggiudica un viaggio premio in Unione Sovietica; a metà degli anni Trenta, entra in FIAT, che gli affida un incarico direttivo in Cina, a Shanghai e Nanchang. È l'avvio di una carriera di top manager destinato a portarlo in ogni angolo del mondo; se non che c'è di mezzo la Seconda Guerra Mondiale. Ritornato in Italia alla vigilia del conflitto Aurelio Peccei diviene presto un attivo sostenitore del movimento antifascista aderendo a "Giustizia e libertà"; partecipa alla Resistenza, viene arrestato e torturato. Con il ritorno della pace e la vittoria della democrazia repubblicana torna a impegnarsi in Fiat e per la ricostruzione del Paese partecipando, tra l'altro, alla costituzione di Alitalia. Ma la sua innata aspirazione lo porta a cercare orizzonti più ampi e sposta nuovamente il baricentro delle sue attività all'estero. Nel 1949 è incaricato dal gruppo FIAT di rilanciarne la presenza in America Latina. Per un decennio è in Argentina, dove fonda la "FIAT Concord", ben presto destinata a diventare una delle industrie automobilistiche più importanti del Sudamerica.
Nel frattempo continua a coltivare il suo interesse per le sorti dell'umanità; una predisposizione che diventerà il timbro di un'esistenza segnata da un alto senso di responsabilità nei confronti del mondo. Scrive nella sua autobiografia: «Per i problemi e le situazioni locali e nazionali esistono sindaci, ministri, deputati, senatori – anche generali – e tutta una schiera di altre autorità, e ogni sorta di istituzioni e di organismi che si suppone se ne prendano cura. Invece nessuno è, o sembra sentirsi, realmente responsabile per lo stato del mondo, e quindi nessuno è disposto a fare per esso qualcosa più degli altri, anzi ognuno cerca di battere gli altri nel trarne il massimo vantaggio». Un atteggiamento che lo porterà, nel 1958, a fondare, l'Italconsult, gruppo di consulenza ingegneristica ed economica per i Paesi in via di sviluppo che, sotto la sua guida operò per lo più senza fini di lucro. Nel 1964, il ritorno in Italia, alla guida dell'Olivetti che seppe risollevare da un momento di crisi. Il risultato di queste esperienze lo seppe mettere a frutto diventando uno dei promotori dello IIASA (International Intitute of Applied System Analysis) con sede a Laxenburg, in Austria. L'Istituto, era destinato a svolgere un importante ruolo di collegamento tra Oriente e Occidente, visto il coinvolgimento degli Stati Uniti e dell'Unione Sovietica, con la partecipazione di paesi dei rispettivi blocchi. Fu così che lo IIASA divenne luogo d'incontro per studiosi e scienziati di differenti nazionalità, favorendo il collegamento nel mondo scientifico e producendo importanti studi in settori strategici quali l'agricoltura, l'energia, i cambiamenti climatici. È questo il periodo in cui Peccei comincia a occuparsi sempre più, accanto ai problemi planetari, delle loro interconnessioni con i sistemi ambientali; non a caso lo ritroviamo come membro del International Board del World Wildlife Fund (WWF) che sostiene sia a livello internazionale sia italiano.
A indirizzare ancor più il suo pensiero in questa direzione è l'incontro con il Direttore Generale per gli affari scientifici dell'OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico), Alexander King.

Il Club di Roma
Nel 1965 Peccei comincia a parlare pubblicamente delle sue preoccupazioni per il destino dell'umanità. Lo fa, dapprima con un intervento a Washington alla presenza del Vice Presidente degli Stati Uniti, poi pronunciando, al Collegio Universitario di Buenos Aires, un discorso in cui ribadisce analoghi concetti. Una volta pubblicato, il testo viene letto da King e scatta la scintilla che porterà al proficuo incontro tra queste due straordinarie personalità. Siamo nel 1967, a Parigi e i due decidono di organizzare a Roma un incontro per il 7 e 8 aprile 1968 con una trentina di studiosi dell'Accademia dei Lincei. Gli argomenti sul tavolo riguardano la dimensione globale dei problemi che affliggono l'umanità e la necessità di risposte planetarie. L'incontro non fu coronato da un particolare successo, ma proprio dalla riunione informale che ne seguì, a casa Peccei, (vi parteciparono, tra gli altri, Erich Jantsch, Alexander King e Hugo Thieman) furono poste le basi per la nascita del Club di Roma, ufficialmente costituito alla Villa della Farnesina. All'origine di questa nuova istituzione (che in Italia trovò tra i fondatori Umberto Colombo, Adriano Buzzati Traverso, Altiero Spinelli) la necessità di analizzare scientificamente la situazione del destino dell'umanità per consentire di mettere in guardia le generazioni future su ciò che stava per accadere e che avrebbe condizionato la loro vita e le loro attività. "Attenzione ed educazione al futuro" e "visione del destino dell'umanità", come ha ben evidenziato Giorgio Nebbia, saranno i due concetti sempre presenti nella vita e nell'opera di Aurelio Peccei. Il primo passo, fu quello di chiedere a un prestigioso gruppo del Massachusetts Institute of Technology (MIT) di mettere in piedi una ricerca per il Club di Roma che descrivesse le problematiche mondiali applicando un modello matematico capace di darne una rappresentazione proiettata negli anni a venire in maniera da costituire una guida per le azioni future.

I limiti della crescita
La risposta dell'MIT per il Club di Roma venne da Jay Forrester, esperto in dinamica dei sistemi. Il ricercatore elaborò un modello matematico per analizzare il Pianeta e le sue prospettive di futuro, con alcuni parametri interdipendenti: popolazione, sfruttamento delle risorse non-rinnovabili, industrializzazione, produzione di alimenti, degrado ambientale. L'esecuzione del progetto - che si avvaleva dei primi potenti calcolatori elettronici - fu affidata a un giovane ricercatore Dennis Meadows, e il risultato fu il primo rapporto del Club di Roma, "The Limits to Growth", presentato pubblicamente il 12 marzo 1972 allo Smithsonian Institution di Washington e destinato a essere tradotto in trenta lingue e diffuso in dieci milioni di copie.
Un primo risultato era raggiunto.
Ora il mondo non poteva più dire di non sapere.
Nella prefazione Peccei scrive: «Mi auguro che la pubblicazione del libro in italiano contribuirà ad ampliare in senso temporale e in senso spaziale l'orizzonte dei nostri interessi, spostandoli dalle questioni immediate e locali - a cui troveremo pur sempre rimedio, per quanto difficili esse siano - per considerare anche quelle ben più complesse e importanti che concernono l'organizzazione della vita di quattro o cinque o sei o sette miliardi di abitanti sul nostro pianeta in condizioni ragionevoli di benessere, di giustizia e di equilibrio con la Natura».
Ed emerge la sua preoccupazione sui rapporti squilibrati tra le parti del Pianeta: «La Terza Conferenza delle Nazioni Unite sugli Scambi e lo Sviluppo, testè terminata a Santiago, ha sostanzialmente confermato che i paesi ricchi restano arroccati nelle loro cittadelle dell'affluenza ben decisi a difendere l'ordine mondiale attuale. Ma se tale ordine non cambierà, le prospettive degli altri paesi, più o meno poveri, e uniti solo nel firmare documenti patetici o velleitari, rimarranno oscure, e con esse l'avvenire del mondo, poiché tra quarti dell'umanità continueranno a restare emarginati. Vi è poi la Conferenza di Stoccolma sull'Uomo e il suo Ambiente, già turbata prima dell'inizio da fratture ideologiche, e a cui ricchi o poveri accorrono preoccupati soprattutto di conservare sovrani diritti in casa propria e di partecipare allo sfruttamento delle risorse "libere" del mondo pagando un prezzo possibilmente inferiore a quello degli altri. Nel 1974 vi sarà un'altra conferenza, quella mondiale sulla popolazione, dove il più esplosivo fenomeno dei nostri tempi verrà misurato e analizzato probabilmente soprattutto come fattore di potere o elemento di negoziato fra vari gruppi di paesi [...] Da tutto ciò sorgono domande angosciate. Che cosa succede effettivamente in questo mondo piccolo, sempre più dominato da interdipendenze che ne fanno un sistema globale integrato dove l'uomo, la società, la tecnologia e la Natura si condizionano reciprocamente mediante rapporti sempre più vincolanti? Riusciremo ad assorbire in tempo questi concetti di fondo? Che cosa stiamo preparando in questo decisivo decennio degli anni '70? Che relazione ha questo grande spiegamento di attività politiche internazionali con i perdurare di conflitti armati locali - finché resteranno tali in un'epoca di armi di sterminio di massa - con i fermenti di sofferenza e d'insofferenza di una società in grave travaglio, con gli scoppi di violenza civile che costellano la cronaca di ogni popolo, con le manifestazioni indubbie di crisi economiche, psicologiche, morali, sociali, ecologiche a carattere endemico in grandi zone del nostro globo? [...] Senza una forte ventata di opinione pubblica mondiale, alimentata a sua volta dai segmenti più creativi della società - i giovani, l'"intellighenzia" artistica, intellettuale, scientifica, manageriale - la classe politica continuerà in ogni paese a restare in ritardo sui temi, prigioniera del corto termine e di interessi settoriali locali, e le istituzioni politiche, già attualmente sclerotiche, inadeguate e ciononpertanto tendenti a perpetuarsi, finiranno per soccombere. Ciò renderà inevitabile il momento rivoluzionario come unica soluzione per la trasformazione della società umana, affinché essa riprenda un assetto di equilibro interno ed esterno atto ad assicurare la sopravvivenza in base alle nuove realtà che gli uomini stessi hanno creato nel loro mondo.
Il dibattito aperto da questo rapporto, anche se utile a innescare questo movimento in forma razionale, ed evitare possibilmente il precipitare di una crisi senza sbocchi, non è che una fase di un processo che deve andare assai più in profondità. Il guasto infatti è profondo alle radici medesime del nostro tipo di civiltà. Ricerche più avanzate, autocritiche genuine, meditazioni più penetranti saranno necessarie. Se avremo la forza morale per intraprenderle, non solo potremo sperare di correggere il corso degli eventi per evitare il peggio che già si profila per un non lontano futuro, ma potremo forse gettare le basi di una nuova grande avventura dell'uomo, la prima a dimensioni planetarie, quali le sue conoscenze e i suoi mezzi tecnico-scientifici oggidì non solo permettono, ma ormai impongono». Si scatenò un'intensa discussione, non priva di accuse e di polemiche, in particolare sullo squilibrio mondiale e sulla condizione dei Paesi sottosviluppati funzionale ai consumi dei Paesi industrializzati. Tuttavia la ricerca segnò un punto storico per le ragioni degli ambientalisti e le argomentazioni a sostegno delle loro ragioni non provenivano dall'armamentario ideologico della sinistra rivoluzionaria post Sessantottina, ma dall'incontro tra un autorevole consesso di uomini d'impresa e il mondo scientifico che si esprimeva con una delle massime e riconosciute istituzioni.
Due anni dopo giunse il secondo rapporto al Club di Roma, in cui troviamo un richiamo specifico alla perdita di biodiversità così espresso: «La dipendenza dell'uomo dalla natura è veramente assai profonda: il modo in cui egli usa e abusa delle risorse è soltanto una parte del quadro generale. Via via che l'uomo è diventato la forza dominante che plasma i sistemi vitali sulla Terra, la sua ascesa è stata accompagnata da una riduzione del differenziamento biologico in natura. Le specie che apparivano come non utili all'uomo sono state sistematicamente ridotte di numero o eliminate. Se tale tendenza proseguisse inalterata, ben presto la terra sarebbe abitata da un numero molto ridotto di specie. Oggi noi comprendiamo assai meglio dei nostri antenati che l'esistenza di ogni forma di vita sulla terra - noi stessi compresi - dipende dalla stabilità del sistema ecologico. Una terra che avesse abitanti meno diversificati forse non potrebbe più possedere la stabilità indispensabile per l'adattamento e la sopravvivenza. Se vi fosse un collasso del nostro ecosistema - anche solo temporaneo - l'effetto sull'umanità sarebbe disastroso». Il rapporto contiene indicazioni sulle quali varrebbe la pena di continuare, anche oggi, il dibattito. Uno riguarda il tema energetico con gli autori decisamente schierati contro la scelta dell'energia nucleare, bollata come "patto faustiano", cui va preferita l'opzione a favore dell'energia solare, pur lasciando la porta aperta alla fusione nucleare, se e quando sarà disponibile.
Tra le strategie per sopravvivere la ricerca segnala, per quel che riguarda i valori e gli atteggiamenti individuali, la necessità di una consapevolezza globale e solidale sulle grandi questioni di squilibrio territoriale che sono alla base, ad esempio, della fame nel mondo; lo sviluppo di una nuova etica delle risorse materiali che conduca a modi di vivere compatibili con l'era della scarsità, per cui «la gente dovrà essere orgogliosa di risparmiare e di conservare, anziché di spendere e di buttar via»; «scoprire un nuovo atteggiamento, verso la natura, basato sull'armonia e non sulla conquista»; «sviluppare un senso di identificazione con le generazioni future ed essere pronto a rinunciare a vantaggi propri a favore di quelli delle generazioni che verranno...».
Dennis Meadows rivisitò lo stesso modello vent'anni più tardi, nel 1992, con "Beyond the Limits". Più recentemente, nel 2004 ciò che era stato scritto dodici anni prima ha, ancora una volta, trovato conferma dando ragione a quella vittoria dell'ignoranza di cui parlava Peccei riferendosi alla nostra epoca. «La cultura dominante privilegia le analisi dettagliate, che inondano di informazioni, dimenticando che solo la ricerca della sintesi permette di tradurre queste informazioni in vera e propria conoscenza e in risorsa di saggezza» scrisse nel 1979. Obiettivo di quel primo monito del Club di Roma non fu quello di fare previsioni più o meno attendibili di futuro, quanto di mettere in campana sugli scenari verso i quali l'umanità stava precipitando, indicando alternative possibili. Si tratta di un messaggio che mantiene inalterata la sua validità segnalando come l'umanità avesse già superato, allora, "i limiti della crescita" e come fossero necessari presa di coscienza ed etica della responsabilità per predisporre gli opportuni correttivi. In quegli stessi anni lo scenario internazionale era ben poco incoraggiante e certo non vicino, né sensibile, ai moniti di Aurelio Peccei. Continuavano a esplodere le bombe atomiche americane e sovietiche, la crescita esponenziale della popolazione mondiale sembrava inarrestabile, così come lo sfruttamento del suolo, delle acque, delle risorse energetiche, con tutti gli effetti negativi che ciò portava con sé, dal progressivo: inquinamento all'erosione del territorio, dalla fame nel mondo alla desertificazione, dal diffondersi di carestie ed epidemie alle decine di conflitti più o meno locali. Milioni di esseri umani dei paesi sottosviluppati dopo decenni di occupazione coloniale reclamavano, con l'indipendenza, nuovi diritti e migliori condizioni di vita.

L'ultima chiamata
Ha importanza relativa che Peccei, il Club di Roma, l'MIT, abbiano sbagliato di anni o di decenni le previsioni sull'esaurimento delle risorse. Ciò che è importante è che abbiano indicato una tendenza, un percorso inevitabile. Di lì a poco, in quella stessa seconda metà degli anni Settanta del Novecento, sarebbero arrivate scoperte scientifiche capaci di rivoluzionare il quadro di pensiero segnalando comunque quell'interdipendenza dell'Universo, che avrebbero dovuto cambiare radicalmente la nostra visione riduzionistica e il nostro approccio nei confronti del mondo.
Non è successo nulla. L'Umanità continua ad avere un atteggiamento anacronistico e superato; siamo ancora legati alla fisica einsteiniana mentre la scienza è solidamente proiettata nella meccanica quantistica; ignoriamo le conseguenze della teoria dei sistemi e di quella dei frattali, l'applicazione in economia dei principi della termodinamica, ignoriamo o vogliamo continuare a ignorare che la recessione ecologica è in atto da quello stesso momento storico quando, per la prima volta, i consumi di energia superarono le disponibilità del Pianeta. Oggi tutti noi abbiamo una "carta di debito" nei confronti del pianeta di cui consumiamo, ogni anno, un terzo in più delle risorse prodotte. Di fronte alla constatazione di questo scenario, appare inderogabile la necessità di un'etica della responsabilità (nei confronti degli altri e della Terra) di cui, in qualche maniera, Aurelio Peccei prefigurò il bisogno.
Di fronte a tutto ciò traspare con forza il significato, la forza e l'importanza dell'esperienza del Club di Roma. Quell'autorevole raggruppamento di intellettuali e scienziati osava parlare di "limiti", mettendo in dubbio uno dei dogmi dell'economia che impone un continuo processo di "crescita", indifferente agli stessi principi della termodinamica che proprio in quegli anni i primi economisti ambientali chiedevano di applicare alla loro disciplina. Peccei spiega bene che lo sviluppo - che significa non solo crescita economica, ma, soprattutto, aumento di conoscenza, dignità, libertà, e sconfitta della povertà - può realizzarsi solo con la solidarietà internazionale e una completa revisione del modello di sviluppo che riduca i consumi e gli sprechi del mondo industrializzato a favore di un riequilibrio globale. Una lezione di lungimirante preveggenza che tuttavia, a dati e tendenze ampiamente confermati, stenta tutt'oggi ad essere colta. Eppure, come disse Dennis Meadows, nella presentazione del Rapporto del Club di Roma del 2004, siamo all'"ultima chiamata".
Per questo riproporre la figura e il pensiero di Aurelio Peccei non è solo un doveroso ricordo in occasione del centenario dalla nascita, ma soprattutto occasione per rilanciarne il messaggio, in gran parte inascoltato.
Nel marzo del 1984, quando mancavano meno di seimila giorni al Duemila, Aurelio Peccei dettò l'ultima parte dello scritto "The Club of Rome: Agenda for the End of the Century" (Agenda per la fine del secolo), articolato in una premessa e quattro grandi capitoli dedicati, rispettivamente a: insediamenti umani, governance del sistema, una società nonviolenta, conservazione della natura.
Morì a Roma il 14 dello stesso mese, lasciando incompiuto quel documento.
Ancora una volta ci consegnò parole di monito e richiami di responsabilità, come appare evidente da questi stralci del capitolo dedicato alla Conservazione della Natura. «... abbiamo il pericolo più grande per l'umanità, vale a dire che la nostra specie, crescendo in numero, potere e brama, tenderà a vivere al di sopra dei mezzi offerti complessivamente da questa nostra piccola Terra. [...] Il luogo di primaria importanza nell'Universo è la nostra biosfera, formata da un sottile mantello di suolo, aria e acqua sulla superficie terrestre, perché è qui che, come sappiamo, c'è la vita. Il genere umano è una parte e una piccola parte di un sistema vivente che vi fiorisce e dunque ci si dovrebbe sforzare di conservarlo il più possibile in buona salute.
La biosfera si è evoluta per diversi miliardi di anni prima che l'homo sapiens apparisse nel suo bel mezzo circa un milione di anni fa e quindi dilagasse imponendo la sua presenza e il suo modo di vivere a tutte le altre specie.
L'umanità, perseguendo i suoi fini, ha trasformato sempre più l'ambiente naturale, rendendo molte parti di esso molto adatte a quei suoi stili di vita che andava via via sviluppando, ma allo stesso tempo dislocando diversamente o eliminando piante e animali, spesso in modo tanto poco accorto da lasciare desolate altre aree un tempo prospere e ora non più produttive o inabitabili.
Il risultato è che attualmente la trama della vita sul pianeta è gravemente degradata e ciò tocca ormai anche la nostra vita. Dobbiamo fare i conti con un quadro abbastanza sconcertante: la wilderness, lo scrigno della Natura, che sta scomparendo; i deserti che stanno avanzando; le foreste tropicali in corso di rapida decimazione; le foreste boreali avvelenate dall'inquinamento atmosferico e dalle piogge acide; le zone costiere e gli estuari devastati; un gran numero di specie animali e vegetali in via di estinzione, con un'ecatombe ancor più massiccia in vista; acque, suoli e perfino l'aria che respiriamo contaminati da polvere, spazzatura e prodotti chimici della nostra civiltà che ne cambiano la composizione; i cicli naturali, il clima e lo strato dell'ozono alterati in modo spesso irreversibile. Gli stessi sistemi biologici strategici da cui l'umanità dipende tanto profondamente per il suo sostentamento quotidiano sono sotto stress; le terre coltivabili sono supersfruttate, i pascoli sono troppo brucati e si pesca troppo negli oceani. Oramai il numero di persone affamate o denutrite è ben più grande che nel passato e le esigenze degli esseri umani sono in continuo aumento.
La previsione è che le generazioni attuali consumeranno nel corso della loro vita più risorse naturali di quante ne abbiano messe insieme tutte le generazioni passate e che d'ora in avanti il consumo crescerà più velocemente della popolazione. [...]
L'uomo, tuttavia, è connesso alla Natura in migliaia di altri modi. In effetti, egli è integrato nella Natura e più profondamente dipendente dal mondo della vita di quanto possa suggerire il semplice riferimento all'economia delle cosiddette "risorse". La sua esistenza psicofisica è il risultato di una miriade di interscambi e di osmosi con il resto della vita. Egli dunque dovrebbe astenersi da qualunque azione che possa indebolire o modificare la biomassa mondiale e il suo habitat. Egli dovrebbe assicurarsi del fatto che qualunque cambiamento causato dalla sua azione non ferisca la capacità rigenerativa della Natura o ne comprometta l'equilibrio. Più di questo, egli si dovrebbe impegnare in una sistematica campagna per ridurre al minimo il danno inflitto al suo ambiente naturale nel corso del passato. Piani e strategie di conservazione della Natura nel lungo periodo stanno dunque diventando un imperativo non solo per permettere all'umanità di ottenere e conservare le necessarie risorse viventi, ma anche per conservare nel corso degli anni la salute del pianeta come dovere verso le generazioni future. Gli obiettivi sono numerosi per numero, ad esempio la sopravvivenza delle specie non umane e la protezione degli ecosistemi anche quando non solo di interesse immediato, la salvaguardia dei processi ecologici marginali e dei sistemi di supporto alla vita e la tutela della diversità genetica della biomassa che è un'espressione della capacità evolutiva della Terra che, tra le altre cose, è all'origine della nostra specie e di cui un domani potremmo avere davvero nuovamente bisogno.
Stabilire un'armonia tra uomo e Natura non solo risponde a considerazioni di immediato interesse e ad altre che concernono l'esistenza dell'umanità in un prevedibile futuro, è anche un profondo valore culturale perché l'homo sapiens non può pensare di essere il padrone assoluto del pianeta o di vivervi in uno splendido isolamento, come non può disinteressarsi del mondo della vita senza perdere una parte della sua stessa umanità che nel corso dei secoli si è nutrita di immagini, fiabe, miti, poesia e canti ispirati dalle altre forme di vita».

Delfino Olivero