Negli ultimi tempi, sia in sede comunitaria, che internazionale, si sono infittiti i documenti, le prese di posizione, gli appelli in cui si denunciano con allarme crescente i ritardi nella tutela delle acque marino-costiere. In Italia le cose non vanno meglio, anzi prosegue il lungo percorso accidentato delle aree marine fin dalla loro istituzione: anche in questo caso gli strumenti legislativi esistono si tratta di metterli in atto e farli rispettare.
A conferma della preoccupante situazione planetaria si portano molti dati e tra questi un rilievo particolare ha via via assunto la modestissima percentuale di aree protette marine istituite e funzionanti e sempre più distanziate da quelle terrestri che al contrario hanno registrato e registrano una crescita talvolta impetuosa. Tra i siti di Natura 2000 tanto per fare un esempio di attualità abbiamo una assenza sostanziale di siti in ambito marino ed è scomparso qualsiasi riferimento alla gestione integrata delle coste, che è uno dei punti di forza delle politiche comunitarie.
In questo testo ci soffermeremo unicamente sulla situazione del nostro paese che non può però ignorare questo più ampio e complesso contesto internazionale dal quale nessuno oggi può e deve estraniarsi.
D'altronde che il quadro internazionale ci interessi -e da vicino- è confermato anche dal fatto che pure da noi il dibattito sui parchi e le aree protette da tempo ormai registra -quando si parla delle aree protette marine- una notevole accentuazione delle critiche e delle preoccupazioni dovute al fatto che anche nel nostro paese il comparto appare decisamente in peggiori condizioni rispetto al resto che pure non scoppia di salute.
Detto questo va subito aggiunto che qualsiasi esame della situazione del nostro paese per quanto e necessariamente essenziale e sommario non può non partire da una Indispensabile premessa per ogni analisi della situazione delle aree marine protette italiane è che furono previste e istituite con una legge dell'82 cosiddetta sul mare, quasi un decennio prima della legge quadro 394 del '91. Il testo di legge prevedeva 20 riserve marine, alle quali se ne sarebbero aggiunte altre 26 con la legge quadro. Nell'intervallo di tempo tra le due leggi il quadro nazionale era entrato in una fase nuova dovuta, non solo a questa 'anticipazione' nazionale per le aree protette marine, ma anche e con effetti più rilevanti sotto il profilo istituzionale e culturale, per l'entrata in campo di molte regioni che proprio in quegli anni avviarono una importante azione di 'supplenza costituzionale' istituendo una serie di parchi regionali che poco avevano a che fare con quelli storici. E tuttavia è innegabile che la legge dell'82, sia pure in una visione che risentiva marcatamente per finalità e gestione di impostazioni per taluni versi 'vecchie' e perciò superate, segnalava un accresciuto interesse e impegno delle istituzioni su temi fino ad allora praticamente ignorati. E che ciò riguardasse specificamente il mare e la costa assumeva indubbiamente un valore anche maggiore, considerato che lo stato storicamente fino a quel momento -ma le cose per molti versi avrebbero confermato anche in seguito quanto certe concezioni erano e sono radicate e perciò dure a morire- aveva guardato alla linea di costa e al mare in termini esclusivamente di 'difesa militare.' Che per la prima volta quindi -tanto per fare un esempio quanto mai attuale- il patrimonio ittico venisse considerato una componente indefettibile dell'habitat marino, ossia un 'valore' svincolato da possibili effetti patrimonialistici e non più semplice oggetto della attività peschereccia valutabile unicamente sul mercato commerciale per i connessi profitti, non era una novità da poco.
D'altronde lo stesso percorso travagliato della legge dell'82 che partita senza alcun riferimento alle riserve marine, comparse solo in una versione successiva che vide la luce dopo un lunghissimo stop parlamentare, è la conferma e la riprova di quanto fosse accidentato il cammino da farsi. Difficoltà che non risparmiarono neppure la legge quadro, successiva di quasi un decennio. La legge sul mare segna dunque, nonostante limiti e inadeguatezze, un momento di innegabile svolta, diciamo di presa di coscienza di una situazione che ci vede non solo malamente attrezzati sul piano normativo-giuridico, ma anche in grave ritardo nel rispondere alle 'aggressioni' ambientali che mettono a repentaglio un impareggiabile patrimonio naturale e culturale, nonché la salute dei cittadini e le stesse attività economiche, a cominciare a quelle più legate al mare. E' una importante novità che lo Stato assuma con il Ministero della Marina Mercantile la responsabilità di una politica di difesa del mare e delle coste dall'inquinamento e di tutela dell'ambiente marino. Un'innovazione significativa che resterà imbrigliata da uno spiccato "centralismo" presente nella legge e che non verrà meno neppure dopo l'abrogazione del Ministero della Marina Mercantile e il passaggio di molte sue competenze al Ministero dell'Ambiente (oggi anche del mare). Le 20 riserve previste dalla legge resteranno, infatti, a lungo sulla carta e quelle poche che bene o male riusciranno a lasciare gli ormeggi resteranno impigliate in una gestione troppo ancorata ad un centro incapace di liberarsi di vecchie e assurde pretese. Basti un esempio tra i tanti: al responsabile di una riserva marina sarda viene inviata dal ministero una lettera a firma di un autorevole funzionario che guarda caso è anche il destinatario. Già le Commissioni di riserva ossia gli organi di gestione delle riserve sebbene tendano in qualche misura a fuoriuscire da una concezione meramente 'aziendale' tipica delle riserve forestali affidate al CFS, si affidano ad un organo misto di scombinate rappresentanze di cui le Capitanerie di Porto sono il punto di forza (l'equivalente appunto del CFS). Vago, impreciso, del tutto marginale, resta il ruolo delle regioni che avevano ed hanno competenze recenti non trascurabili per quanto riguarda il piano delle coste: la Legge Bassanini del '98 all'art. 70 indica, per esempio, tra le funzioni conferite alle regioni la 'protezione e osservazione delle coste marine'. Tra le tante incongruenze merita qui di essere ricordato che la legge sul mare parlava di 'riserve naturali marine' (con l'eccezione del Piceno definito per ragioni misteriose parco) e non di 'aree marine protette' come ancora oggi si continua furbescamente a fare dimenticando - o facendo finta di dimenticare- che dopo la legge quadro non si tratta della stessa cosa. Basta andare a vedere lo studio commissionato a suo tempo dallo stesso Ministero al prof. Gambino sulla classificazione -e presto sparito- per cogliere le differenze sostanziali, tanto rilevanti che le aree marine restano clandestine ossia non reperibili ancora oggi nel registro ufficiale del ministero.
La conferma del permanere di una situazione di ambiguità la si ha con la deliberazione del 21/12/93 del Comitato per le aree protette che nel primo elenco ufficiale individua 7 tipi di aree protette: parchi nazionali, riserve naturali statali, parchi naturali interregionali, parchi naturali regionali, riserve naturali regionali, zone umide, ma si escludono le aree marine dalla classificazione generale delle aree protette. Esclusione certamente obbligatoria sebbene l'art. 2 della 394 introducesse un regime separato. Da qui l'ambiguità che abbiamo accennato, cui faceva riferimento Ornella Ferraiolo quando annotava che la legge 394 non ha abrogato le norme preesistenti sollevando non pochi problemi di coordinamento. Neppure la successiva legge 426 lo ha fatto, limitandosi a cambiare il titolare della Presidenza della commissione di riserva e ad estendere la partecipazione alla vigilanza nelle riserve al personale di vigilanza degli enti locali.
Da qui appunto quella palese ambiguità già all'art 2 della 394; l'ambiente marino ricorre in relazione ai parchi nazionali (par.1) e, in misura minore regionali (par.2) e quindi sub specie nelle riserve naturali (par.3) e da ultimo come categoria autonoma all'interno della quale "si distinguono le aree protette come definite ai sensi del protocollo di Ginevra relativo alle aree del Mediterraneo particolarmente protette di cui alla L. 5 marzo 1985, n. 127, e quelle definite ai sensi della L. 31 dicembre 1982, n.979". E tuttavia al di là dell'ambiguità -che non era così difficile eliminare specie con la 426- in cui sguazza sempre volentieri chi persegue il proprio particolarissimo interesse burocratico, un punto è incontrovertibile. Il regime delle riserve marine fissato dalla legge dell'82 per quanto riguarda le finalità faceva riferimento all'importanza 'economica' della riserva marina, mentre per la legge quadro 'preminenti' sono i valori naturalistici, scientifici ed estetici, culturali, educativi e ricreativi tali da richiedere l'intervento dello Stato ai fini della loro conservazione per le generazioni presenti e future. Da qui anche il tipo di gestione assolutamente diverso previsto dalla legge 394 per far fronte a quei fini così nuovi e impegnativi. Tanto è vero che esse debbono essere -marine o terrestri che siano- integrate se contigue e gestite in base a ben due piani a cui la legge sul mare non faceva alcun riferimento. E' questo il punto nodale che il Ministero ha sempre cocciutamente, costantemente e pretestuosamente ignorato ed eluso, tanto che nella legge 426 del '98 non a caso ci si limitò a sostituire per la gestione delle commissioni di riserva le capitanerie di porto con un rappresentante del ministero, punto e basta. Così le commissioni di riserva -pur in tempi di caccia forsennata e spesso demagogica agli sprechi- sopravvivono e continuano ad affiancare gli enti parco a cui pure è affidata la gestione delle aree marine, con effetti sorprendenti che non sembrano però stupire più di tanto. Si pensi alla Riserva Marina della Meloria piccolissima (il cui decreto istitutivo è stato rinviato per l'ennesima volta per ragioni di cassa) che dovrebbe essere affidata in gestione al Parco Regionale di Migliarino, San Rossore, Massaciuccoli con 30 anni di esperienza, gestito da un ente, un direttore e affiancato da un autorevole Comitato scientifico a cui dovrebbe unirsi una commissione di riserva e forse anche qualche altra diavoleria come accennava confusamente un primo testo. Si parla della Meloria, non delle Galapagos, eppure si resuscitano i morti in nome di una gestione che è persino troppo generoso definire semplicemente centralistica, trattandosi piuttosto di burocratismo grottesco e inconcludente.
Ma anche qui, come nelle più complicate trame, bisogna risalire -per venirne a capo e coglierne tutte le implicazioni- ad alcuni passaggi che hanno finito per condizionare pesantemente e rovinosamente la situazione delle aree protette marine con effetti di cui finora non si sono probabilmente misurati e valutati i danni e i costi. Un punto di svolta negativo che avrebbe pesato a lungo sulla attuazione e gestione della legge quadro è indubbiamente costituito dalla decisione del Ministro Ronchi di negare al Parco di Portofino la gestione dell'area protetta marina che fu allora affidata ad un consorzio con aggiunta naturalmente della commissione di riserva. La motivazione riprendeva quanto già sostenuto dal Ministro in altre occasioni altrettanto infondatamente e cioè che i 'veri' parchi sono quelli nazionali e che pertanto solo a quelli poteva essere affidata la gestione delle aree marine. Come era già chiaro anche allora -tranne che al Ministro- la legge non faceva alcuna distinzione tra parchi nazionali e regionali parlando semplicemente di parchi terrestri confinanti. Anni dopo, il 30 settembre 2004, la Corte dei Conti si pronunciò in riferimento alla legge 426 nella quale si era cercato nuovamente soccorso (che in base all'art.19 comma 2 recita «qualora un'area marina protetta sia istituita in acque confinanti con un'area protetta terrestre, la gestione è attribuita al soggetto competente per quest'ultima») aggiungendo che era da respingere la tesi secondo cui l'art.2 comma 37 della legge 426 avrebbe tacitamente abrogato l'art.19 della legge 394. Ma siccome non c'è peggior sordo di chi non vuol sentire, per le aree marine il ministero continuò a fare orecchie da mercante.
Eppure la situazione a distanza di anni era ed è tale che non vi sono cortine fumogene che possano celarne il quadro disarmante e per più d'un aspetto scandaloso. Basti pensare che si è riusciti a mettere in crisi persino la Riserva di Ustica per anni tra i pochi esempi con Miramare citabile anche sul piano internazionale. E poi gli infortuni con ipotesi di riserva integrale a Porto Cesareo che bloccava l'accesso al porto, ma soprattutto i continui rinvii e le più sconclusionate ipotesi di gestione raramente una simile ad un'altra e scelte caso per caso con esclusione ora della provincia ora di questo e quel comune sempre della regione che potevano tranquillamente essere cambiate in corso d'opera, il tutto senza né capo né coda.
Qualche esempio aiuterà a capire meglio la situazione.
La rivista "Ambiente, Territorio; sistema costiero" dell'aprile 2007 riportava questi dati riferiti ad alcune aree protette marine.
Portofino: istituita nel 1998, 346 ha, 14 Km di costa gestita da un Consorzio di cui fanno parte la provincia di Genova, l'Università di Genova, i comuni di Camogli, Portofino, Santa Margherita Ligure.
Cinque Terre: istituita nel 2000, 2726 ha, 17 Km costa gestita dal parco con la commissione di riserva.
Secche di Tor Paterno: istituita nel 2002 176 ha interessa i comuni di Pozzuoli e Bacoli ed gestita dalla Sopraintendenza Napoli-Caserta.
Punta Campanella: istituita nel 1997, 1539 ha, 40 km di fascia costiera gestita da un consorzio di cui fanno parte i 6 comuni interessati.
Capo Rizzuto: istituita nel 1991, 14721 ha, 42 km di costa e gestita dalla Provincia con i comuni di Crotone e Isola Capo Rizzuto.
Torre Guaceto: istituita nel 1991, 2227 ha, 14 km di costa è gestita da un consorzio dei comuni di Carovigno Brindisi e il WWF.
Capocaccia-Isola Piana: istituita nel 2002, gestita dal Comune di Alghero.
Capogallo-Isola delle Femmine: istituita del 2002, gestita da una cooperativa di palermo sulla base di un accordo sottoscritto tra i comuni di Palermo Capogallo-Isola delle Femmine in attesa di Consorzio.
Isole Ciclopi: istituita 1989, 623 ha, 6 km di costa, è gestita da un consorzio tra Università di Catania e il comune di Aci -Castello.
Isole Egadi: dopo 10 anni di gestione della Capiatneria di porto è ora gestita dal comune di Favignana.
Isole Pelagiche: istituita 2002, gestita dai comuni di Lampedusa-Linosa
Plemmirio: istituita nel 2004, 2500 ha, riguarda la penisola della Maddalena a ridosso di Siracusa, gestita da un consorzio.
Ustica: l'abbiamo lasciata per ultima pur essendo stata istituita nel 1986, gestita per anni dal comune con risultati apprezzabili. Poi un decreto del 2003 la riaffida alla Capitaneria di Porto a seguito della grana che blocca il consorzio tra la riserva marina e la Provincia di Palermo che nel frattempo ha istituito una riserva terrestre a Ustica. Da lì il ricorso alla Corte dei Conti della cui sentenza abbiamo detto e alla quale non sembra facile conformarsi a conferma di quanta zizzagna sia stata 'seminata' in questi anni.
Pochi casi che presentano una varietà estrema di gestioni nessuna o quasi rispondente a quelle esigenze di coordinamento e collaborazione fissata dalla legge quadro che anche la sentenza della Corte richiama per l'ennesima volta. Le province, tanto per fare un esempio sono generalmente ignorate con l'eccezione di Capo Rizzuto e il Consorzio di Portofino.
Il tutto insomma è volto unicamente e testardamente a dimostrare che delle riserve a fare e soprattutto a disfare era e rimane il Ministero.
Come non ricordare inoltre in questo quadro che la legge 426 parla di coste -il cui piano non ha mai visto la luce come del resto la Carta della Natura- di piccole isole, insomma di quelle realtà ambientali che dovrebbero costituire il punto di riferimento per qualsiasi area protetta marina e terrestre da gestire come dice chiaramente e incontrovertibilmente la legge da enti rappresentativi di tutto il sistema istituzionale.
Sono cose che in molti paesi europei a cominciare dalla Francia non fanno più neppure notizia tanto sono scontate. Il parco regionale francese d'Armerique gestisce un territorio enorme che comprende montagne e oceano.
In Italia abbiamo il Parco Nazionale dell'Arcipelago Toscano che da anni aspetta la perimetrazione a mare affidata ad una stucchevole e assurda discussione intorno ai tratti comunali da inserire o meno -quasi si trattasse di piscine- come se il territorio terrestre o marino di un parco non dovesse rispondere a criteri a valutazioni d'insieme e perciò proprie del parco.
Potremmo concludere queste annotazioni con un riferimento al Santuario dei Cetacei, un accordo internazionale da noi firmato con grave ritardo, dotato di una cabina di pilotaggio con tre o quattro ministri e una sola delle tre regioni che ne fanno parte, con una bella sede a Genova di cui non si ha notizia di quel che sta facendo o dovrebbe o vorrebbe fare. A chi chiedere conto di tutto ciò?
Renzo Moschini
|